G8, una generazione prigioniera della ‘sindrome di Genova’

ANAIS GINORI
www.repubblica.it, 21 luglio

Chi aveva vent’anni, adesso ne ha trenta, custodisce rimpianti anziché sogni, si è lasciato alle spalle la giovinezza senza poter mai raggiungere l’età adulta: un lavoro, una casa, dei figli. Qualcuno, in questo decennio, ci ha provato, talvolta ha saputo cicatrizzare le ferite, andare oltre, operando una rimozione, i ricordi sono diventati una pagina bianca.

Molti invece si sono inverati nella ricerca di una giustizia, riuscendoci in parte e malgrado tutto. Altri hanno coltivato la memoria. Libri, film, spettacoli, fumetti, inserti speciali, reading, mostre fotografiche: in tempi recenti, non esiste un evento in Italia più documentato, è stato l’esordio dell’attivismo digitale.

Eppure nessuno è mai guarito veramente. Basta risentire certe dirette radiofoniche per provare di nuovo un groppo in gola, quel senso di oppressione. Oggi come allora, gli slogan assurdi e immaginifici, il beato candore, le mani bianche in segno di pace.

E poi le lancette che si mettono a correre, il rumore assordante degli elicotteri, i cellulari impazziti, le notizie più assurde (“E’ morto un giovane spagnolo, forse anche una ragazza”), prendete i limoni per respirare, fino a notte fonda per cercare un riparo in una città devastata.

Come spalancare una finestra su infinite possibilità e poi finire bruscamente contro il vetro. Ognuno ha potuto vedere, salvo poi impiegare anni per dimenticare. Qualcosa è rimasto lì. Tra corso Torino, via Tolemaide, piazza Alimonda.

Genova da allora non è più stato solo il nome di una città ma il sepolcro di parole perse. La speranza, l’innocenza, la fierezza e il coraggio. Un “noi” per sempre scomparso. In cambio, cosa c’è stato? L’inevitabile ritorno a casa, una nuova consapevolezza, il necessario realismo.

Impreparati, ingenui, quei giovani non hanno saputo sciogliere molte ambiguità. Certo. I travestimenti delle Tute bianche erano grotteschi, le dichiarazioni dei vari portavoce sembravano uscite dal manuale Cencelli, alcuni motti francamente bislacchi (“Ricordati del tuo potere al supermercato!”, “Stendiamo mutande su vecchi e nuovi muri”). Tutto vero.

I ragazzi del luglio 2001 hanno vissuto la loro ultima ora d’aria prima di dover attraversare in apnea il decennio della paura, dalle Torri Gemelle a Fukushima. Il tempo gli ha dato ragione. Avevano denunciato per primi le regole folli del sistema finanziario globale, la privatizzazione delle risorse naturali, alcune derive antidemocratiche. Magra consolazione. Ai trentenni senza futuro è concesso solo un cupo amarcord.

Gli ex ragazzi del 2001 oggi sono disoccupati (uno su tre), scoraggiati (i famosi Neet, né in formazione, né sotto contratto). Hanno già vissuto molte crisi, e altre se ne annunciano. Sono costretti ad avere l’eterno ruolo di vittime designate. In questi giorni, è tornato il massacro nella scuola Diaz. Non a Genova. L’istituto scolastico è stato ricostruito in un set di Bucarest, dove si gira il film diretto da Daniele Vicari e ispirato ai fatti di allora.

Bisognerà vederlo, trascurando le polemiche di alcuni reduci che si comportano ora come guardiani del Tempio. Parlarne di nuovo, far rivivere quelle emozioni. Ancora, e ancora. Alla generazione perduta del 2001 è toccato in sorte un sogno di mezza estate, che si è trasformato in un incubo.

I recinti e le transenne hanno funzionato davvero. Nessuno, in questi anni, ha mai potuto oltrepassare la zona rossa. Ma Paul Nizan si sbagliava. Avere vent’anni, e stare a Genova, è stato il dono più bello. E anche il più malvagio.