Le madri e le sorelle di Piazza Tahrir

Stefania Cantatore e Lucia Coletta
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Asmaa Aly e Malek Adly hanno un modo scarno ed insieme appassionato di proporre la loro testimonianza della rivolta di piazza Tahrir. Si comprende subito che tra i tanti bisogni di chi ha fame di libertà e giustizia, loro interpretano quello di far riconoscere sovrano il loro popolo, di opporsi ad ogni soluzione mediata tra i capi.

In Egitto donne ed uomini, lo dice Asmaa in tono solare semplice e deciso, continuano nelle piazze e nelle città, oltre Tahrir e il Cairo, ad intendersi e decidere un nuovo modo di decidere.
La fratellanza nata nelle piazze, che ha portato i poveri a coprire i ricchi durante il sonno, a stare vicini, musulmani e cristiani, durante i lunghi presidi dei primi cinque giorni di rivolta “per non abbandonare la città ai guardiani del regime”, se ha un senso sul piano politico, non è certamente quello di alimentare la troppa retorica che si è fatta da noi sulle rivoluzioni del Nord Africa, e che spesso ha diffuso il mito della caduta dei dittatori come elemento esaustivo delle lotte popolari in quelle terre.

Lì come altrove non si tratta di cercare nuovi capi: si tratta di lavorare per un nuovo modo di stare al mondo. Se c’è una chiave per la convivenza, per la coesistenza pacifica, non si possono cercare parole migliori per definirla. Decidere il proprio futuro: non è questo che cominciano a chiedere giovani donne e uomini, anche nel nostro paese?

Il prezzo pagato in vite umane in Egitto (ad oggi oltre mille vittime) è l’unica vera distanza tra le volontà di non essere più sudditi da una sponda all’altra del Mediterraneo.

C’è una leggenda che dice : “prima si libera il popolo e poi, forse, anche le donne”. La terribile logica che sottende questa leggenda,falsa da sempre anche le cronache più oneste, che diventano poi storia. Nel guardare alla storia, in ogni paese, rintracciare la vera dimensione delle mobilitazioni femminili nelle rivoluzioni e nelle svolte storiche diventa un vero e proprio lavoro di scavo.

Non si tratta di riconoscere “la presenza delle donne”, né di incasellarla nel teorema delle donne “ingannate dalla rivoluzione e che liberano tutti senza liberare se stesse”.

Asmaa rispondendo alle domande ha parlato dell’esperienza che ha costruito con tante e tanti altri.

È l’esperienza di una lotta che pur nella sua complessità, lei lo sa, non basta a cancellare l’oppressione su ogni donna, il cui esercizio, da sempre, è delegato dal potere ad ogni uomo . Parla Asmaa della sua sorpresa davanti al senso di parità vissuta in piazza Tahrir e della momentanea magia che l’ha trasportata in una dimensione dove è sospesa la conflittualità tra uomini e donne.

Sono fatti che non ne cancellano altri di fondo sui quali molte donne nelle Piazze dell’Egitto sanno di non poter rimandare la lotta , e nella lotta generale hanno rafforzato o dato vita a reti femministe che hanno tanti nomi. Sono: Egyptian Center women’s rights, New Women’s Foundation, The Collection of Revolution Women, Al-Nadim Center, Center for legal assistance for women ed altri che risalgono a una storia che Asmaa rivendica con passione.

Il contagio dell’aspirazione alle libertà e alla giustizia, lo dice Malek, ha indotto in tutto il Nord Africa un elemento decisivo che può essere sintetizzato così “se il mio vicino lo ha fatto, posso farlo anche io”. L’emergenza quasi contestuale delle proteste dall’Egitto alla Siria, dalla Tunisia alla Libia, ha indotto in occidente e nel resto del mondo l’idea di uno scoppio improvviso e una semplificazione, forse generata dall’impulso di farsi grazia per l’essersi nutriti di pregiudizi e per l’aver dato sostegno cieco a dittatori, sulle cui mani si è “improvvisamente” visto il sangue.

La storia delle lotte, delle rivolte pacifiche, dell’aspirazione al cambiamento e alla libertà è invece come si può intuire molto articolata ed antica: Asmaa e Malek ne parlano perché quella storia non solo va rivendicata con orgoglio, ma ha anche in sé la base della reciproca conoscenza e dell’instaurazione di una solidarietà vera e permanente.

Nel 2005 le operaie tessili si chiamano fuori dall’asservimento ai “sindacati di regime” e da loro si avvia un movimento (massiccio lo sciopero del 2006 nella Gazl Al-Mahalla)che si allarga fino allo sciopero messo in atto nelle loro fabbriche nello storico 6 Aprile 2008: furono le donne a convincere gli uomini fino ad allora meno determinati. La crisi economica mondiale è stata il terreno di coltura dell’espansione della ribellione, ma la nascita del movimento ha madri e sorelle che tengono ben stretti nelle mani le loro ragioni e loro protagonismo.

Anche Piazza Tahrir ha una madre , che incitato con le sue ragioni gli altri a scendere nella protesta e a tenerla alta. Si chiama Fatma, è la madre di Kahled Said il blogger ucciso ad Alessandria e al quale è dedicato il blog della rivoluzione. Va detto che il bisogno di organizzarsi, lo sottolinea Malek, di fronte ad una mobilitazione tanto ampia da sorprendere tanto il regime quanto i protagonisti stessi della rivolta, non va confuso col bisogno di avere nuovi leaders carismatici. La rivoluzione Egiziana ha tanti leaders quanti sono i militanti.

Nessun leader, nessun eroismo “di principio”, ma un grande protagonismo popolare.

Loro li chiamano martiri, anche se le vittime non sono eroi isolati: gli uccisi dalla polizia hanno tutti ferite sul volto e sul petto, e questo parla dell’importanza di non arretrare nel proposito di libertà, forse anche di una qualche voglia di scontro, ma certamente nessuna di quelle vittime ha costruito il pretesto per opporre violenza a violenza.

La qualità pacifica della rivolta Egiziana, è una scelta, una strategia, innegabilmente determinata dalla natura femminile, una promessa per tutti quelli che pensano che il terzo millennio sia cominciato.