Corno d’Africa: una povertà imposta?

Gruppo Abele
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Nel Corno d’Africa, oggi, circa 12 milioni di persone rischiano di morire di fame. Somalia, ma anche Kenya, Etiopia, Gibuti ed Eritrea sono sconvolte dalla peggiore siccità registrata negli ultimi 20 anni. Per avere un quadro della situazione abbiamo intervistato Giuseppe Meo, consigliere e cofondatore del Comitato di collaborazione medica (Ccm) che lavora con un progetto di sostegno al sistema sanitario nell’ospedale di Filtu, nella regione somala dell’Etiopia.

Si stima che circa 12 milioni di persone stiano subendo le conseguenze della siccità che ha colpito il Corno d’Africa. Quanto la politica (delle regioni colpite, ma anche quella internazionale) ha influito sull’espandersi dell’emergenza umanitaria?
I 12 milioni di persone di cui si parla sono le vittime stimate della siccità in corso, ma questi fenomeni in Africa sono purtroppo periodici. Quest’ultima carestia ha richiamato l’attenzione per la sua gravità, ma costantemente nel continente africano le crisi alimentari hanno dimensioni tragiche. Durante l’ultima grande siccità, risalente alla fine degli anni ’90, in Sud Sudan si contarono circa 250.000 vittime. Le cause sono sempre le stesse: i periodi di siccità sono fenomeni naturali per questo continente. Esistono da sempre e i popoli africani hanno imparato a conviverci. Ciò che non è naturale, e aggrava la situazione, sono i rapporti tra paesi ricchi e poveri. In questo caso particolare, gli scontri in Somalia provocano l’aumento dei profughi e amplificano, se possibile, l’indigenza generata dalla carestia. Tutti i conflitti nei paesi a basso reddito sono alimentati, ricordiamolo sempre, anche dal commercio delle armi prodotte nei paesi ricchi. Per quanto riguarda le politiche dei paesi in via di sviluppo, le ong hanno per definizione un approccio di basso profilo, operando a livello di comunità locali. Con l’attività di advocacy per la promozione di politiche eque, noi cerchiamo di sollecitare interventi delle istituzioni internazionali al fine di prevenire le emergenze e affrontare con decisione il problema della povertà. Queste politiche ad oggi sono del tutto inadeguate, nonostante le promesse dei vari governi che si succedono da decenni.

Molte ong e associazioni che operano in queste zone sottolineano il ritardo con cui l’allarme è partito e come questo abbia aggravato la crisi e causato un numero così elevato di morti, soprattutto tra i bambini. Condividete questa denuncia?
Non crediamo che il ritardo nella denuncia abbia avuto un effetto determinante. Il fatto è che questi appelli non vengono mai ascoltati prontamente nè in modo adeguato. Ci sono dati e testimonianze in abbondanza sulla fame nel mondo, sui cambiamenti climatici e sulle crisi idriche. Ma la comunità internazionale non è determinata a investire fondi ed energie sufficienti per risolvere questi problemi.

Come Ccm siete presenti da anni in Somalia, Burundi, Etiopia, Kenya, Mali e Sud Sudan. Cosa è cambiato e cosa è rimasto immutato in queste regioni dal vostro osservatorio?
Ci sono isole di miglioramento delle situazioni socio economiche in alcuni paesi poveri, su uno sfondo rimasto però quasi invariato. Contiamo, ad esempio, un numero infinito di bambini che continuano a soffrire, anche se i numeri ci dicono che la mortalità infantile si è ridotta da 11 milioni a 8-9 milioni l’anno. Ciò non toglie che ogni pochi secondi da queste parti muoia un bambino. In Sudan la mortalità infantile da 0 a 5 anni è pari a 150/200 bambini per 1000, mentre in Italia lo stesso indice è di circa 6 bimbi ogni 1000. Eppure l’eccesso di mortalità nei paesi a basso reddito è dovuto a cause prevenibili o facilmente curabili con una corretta alimentazione, vaccinazioni ed altre misure di medicina preventiva. Nei nostri progetti cerchiamo di portare miglioramenti che possano inserirsi con continuità nei sistemi sanitari locali, rafforzando gli ospedali rurali e i centri di salute remoti e formando il personale, per cui in alcuni territori i servizi sanitari sono effettivamente migliorati. Ma c’è ancora molto da fare, soprattutto per renderli accessibili ad un numero maggiore di persone.

Quali sono i problemi più impellenti per arginare l’emergenza? E invece quali sono le politiche di più ampio respiro di cui l’Africa avrebbe bisogno per affrancarsi dalla povertà e dall’emarginazione rispetto ai cosiddetti Paesi sviluppati?
Per arginare l’emergenza bisogna agire subito e con determinazione. Anche il Ccm si sta attivando per intensificare l’assistenza sanitaria alla popolazione che migra in cerca d’acqua e cibo e ai profughi che scappano dalla Somalia. In questi giorni i nostri operatori stanno dando piena assistenza agli uomini e alle donne che arrivano da noi e in relazione a questo facciamo appello a tutti per sostenere questo sforzo, di cui stiamo dando aggiornamenti attraverso il nostro sito internet. In generale però la distanza nel livello dei bisogni dei paesi a basso reddito rispetto ai paesi ricchi è così grande che richiederebbe un intervento di dimensioni enormi. Un intervento che la comunità internazionale non può e nemmeno vuole attuare. L’emergenza di oggi, infatti, è solo un aggravamento episodico di un fenomeno più ampio e cronico. Nonostante tutto, dobbiamo essere ottimisti sul futuro di questi paesi. Le nuove generazioni mostrano qualità tali che fanno sperare che una soluzione, anche ai problemi più gravi, si troverà. I giovani sono molto più ricettivi dei loro padri e cominciano ad avere maggiore istruzione. Ecco perché anche il Ccm lavora molto sulla formazione del personale locale. Dai giovani può nascere una nuova Africa.

Secondo gli esperti questa è la prima carestia causata dal riscaldamento globale. Quali sono i segni più evidenti dello sfruttamento ambientale del continente africano nelle regioni in cui operate?
I segni sono diversi e molto visibili. Siamo testimoni della deforestazione, ad opera delle grandi multinazionali, delle grandi foreste dell’Africa: si prendono il legname e lasciano spazio alla desertificazione. Un altro esempio, che ha a che fare direttamente con la siccità, è la costruzione di dighe, come la Gibe III, che si stanno realizzando in Etiopia, che rischiavano di essere finanziate anche dal governo italiano. Persino l’Unesco ha chiesto di sospendere la costruzione della Gibe III per preservare la biodiversità del lago Turkana. Possiamo citare poi anche il caso della deviazione di corsi d’acqua, come il tentativo, fortunatamente arginato, di costruire il canale Jonglei, che avrebbe dovuto deviare il corso del Nilo Bianco, causando la distruzione dell’ecosistema della palude in Sud Sudan. Ancora, esiste poi lo sfruttamento delle risorse ittiche dei paesi africani che si affacciano sul mare, con coste indifese e depredate, per non parlare di tutte le risorse di origine mineraria.

Dopo le proteste delle ong che si occupano di cooperazione internazionale, la Regione Piemonte si è impegnata a ripristinare i fondi per le attività a sostegno dei paesi in via di sviluppo. Come valutate questa decisione?
Si tratta di un segno positivo che mostra che possiamo ottenere dei risultati quando ci attiviamo con forza e in rete. Durante l’ultima seduta serale del consiglio regionale del Piemonte la Giunta si è impegnata a ripristinare i finanziamenti a sostegno delle politiche di cooperazione internazionale e di sensibilizzazione alla pace del territorio piemontese, che risultavano essere azzerati nel bilancio preventivo 2011. Entrambi gli ordini del giorno approvati si ispiravano al testo dell’appello lanciato a inizio giugno dalle principali associazioni che si occupano di cooperazione internazionale riunite nel Consorzio ong piemontesi, dai 32 Comuni riuniti nel Coordinamento dei Comuni per la pace e dalla rete dei comuni solidali, che rappresenta oggi 266 soggetti pubblici in tutta Italia. A tale appello, nel giro di soli 15 giorni, hanno aderito oltre 400 soggetti piemontesi di qualsiasi tipologia (associazioni, Comuni e Province, enti religiosi e missionari, università, parchi regionali, ecc.) e di diverse parti politiche. Ci attendiamo a settembre, con l’assestamento di bilancio, risposte concrete a questa unanime dichiarazione di intenti. Il nostro augurio è che l’attribuzione delle quote maggioritarie in capo ad enti locali e privati non nasconda, alla prova dei fatti, un disimpegno economico da parte di una Regione che, tra le prima in Italia, con propria legislazione, si è data l’obiettivo di promuovere ed investire per “una cultura ed educazione di pace per la cooperazione e la solidarietà internazionale” (L.R. 67/95).

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Allarme siccità e carestia. Laura Boldrini: “I profughi pagano il prezzo della speculazione finanziaria”

Elisabetta Reguitti
www.ilfattoquotidiano.it

Madri costrette a scegliere quali figli lasciar morire per riuscire a portare gli altri all’interno del perimetro del campo profughi. Uomini, donne e bambini che dopo settimane di marcia senza acqua e cibo diventano carne per gli animali selvatici ugualmente affamati. Sono le immagini della “più grande carestia planetaria” come la definisce Laura Boldrini, portavoce dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati. Nel Corno d’Africa sono 11 milioni le persone al limite della sussistenza, in tre mesi sono morti 29 mila bambini e per le Nazioni unite il rischio è che questa carestia si protragga fino al prossimo dicembre.

Nel campo profughi di Dadaab, ai confini con il Kenya, ci sono 400 mila persone di cui oltre 100 mila provengono dalla Somalia. Di questi 30 mila si trovano ai margini dell’area in attesa di essere registrati. Costruito 20 anni fa Daadab avrebbe dovuto ospitare al massimo 90 mila persone, ma oggi è il più grande campo al mondo, qui ogni giorno gli arrivi sfiorano quota 2 mila e l’80 per cento è rappresentato da donne e bambini. L’esodo biblico dalle zone dove l’Onu ha dichiarato l’emergenza fame è causato dalla guerra tra le truppe del governo e i ribelli islamici.

Conta poco se proprio ieri le agenzie hanno battuto la notizia che Mogadiscio è stata “liberata” dai militanti islamici di al-Shabab. Rimangono parole senza senso anche quelle del presidente somalo Sharif Cheikh Ahmed che ha riferito: “Anche il resto del Paese verrà ugualmente liberato presto”.

Frasi che non hanno alcun significato per le carovane della disperazione, che tentanto di sopravvivere al limite dell’umanità. Gli uomini hanno come unica alternativa quella di arruolarsi nelle milizie shabab (“ragazzi” in lingua somala) gli stessi dai quali debbono fuggire le loro donne e figli. “Non è facile cercare di raccontare tutto questo – confessa Boldrini -. Non è semplice chiedere di aiutare chi sta tanto lontano da noi, soprattutto in questo periodo di crisi ma lo dobbiamo fare. Perché altrimenti avremo sulla coscienza tutti coloro che non riescono a vivere”.

Per fornire protezione e soddisfare le prime necessità dell’intero Corno d’Africa – almeno fino alla fine dell’anno – le Nazioni Unite hanno chiesto oltre 144 milioni di dollari ma ne hanno ricevuti 65 milioni, pari solo al 45% del necessario. Portare aiuti in Somalia, poi, è un’impresa. Nei giorni scorsi un commando dell’esercito ha addirittura attaccato una colonna di camion del Programma alimentare mondiale. Non esistono buoni o cattivi tra chi ruba beni di prima necessità, perché tutti sono ugualmente disperati mentre i militari sparano sulla folla. Uomini e donne, le cui vite valgono meno di un pugno di grano, il cui prezzo ormai è centuplicato e diventato inaccessibile.

“La siccità è un flagello naturale ma le responsabilità di tutto questo, da oltre venti anni, sono da ricercare altrove – attacca Boldrini – e fino a quando il grano verrà utilizzato come energia combustibile non ci sarà alcuna possibilità per quelle persone. Sono loro a pagare il prezzo più alto delle speculazioni finanziarie globali. Ed è su questo che bisogna intervenire a tutto campo. Solo così riusciremo a capire anche quelli che tentano di approdare sulle coste di Lampedusa”.

Laura Boldrini parla anche dei tagli alla cooperazione e lancia un appello: “Di questi tempi non è facile raccontare ciò che accade senza rischiare di apparire quelli che fanno sensazionalismo a tutti i costi. Peggio è riuscire ad avere spazi sui giornali e nei programmi televisivi perché le priorità sono altre. Così quelle persone rischiano di essere invisibili. Mai come in questo momento l’aiuto di ognuno di noi può servire”.

Secondo le stime, ad oggi, 43 milioni di persone non possono vivere a casa loro e la maggior parte si trova nel sud del mondo, nei Pesi confinanti a quelli da cui fuggono nella speranza di potervi tornare.
Anche per questo secondo la portavoce Unhcr Boldrini, sarebbe fondamentale riuscire ad impedire gli esodi di massa, magari costruendo campi profughi dove avvengono i fatti, evitando le migrazioni dei popoli, che accendono epidemie che poi diventano morte.

“Molte famiglie arrivano al campo dimezzate. I primi a morire sono i vecchi poi i bambini. Per ora siamo riusciti a trasferire tre mila rifugiati da Dadaab i Ifo Extension2 spiega raccontando la sopravvivenza in quella parte del mondo. I rifugiati si sono insediati spontaneamente ai margini del campo Ifo dove funzionano servizi igienici e serbatoi da 10 mila litri di acqua di cui beneficiano 734 famiglie (oltre 3 mila persone).

Per la fine di novembre il progetto dell’Unhcr prevede alloggi in tende per almeno 90 mila rifugiati. In Etiopia, al campo di Dollo Ado, sono arrivati altri 75 mila somali in fuga dal conflitto, dalla siccità e dalla carestia nel proprio Paese. Un flusso continuo silenzioso e invisibile.