Pensate alla crisi e lasciate in pace la nostra Costituzione

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C ’è qualcosa di sospetto nelle intenzioni annunciate in questi giorni, sull’onda della “emergenza” economico-finanziaria, di varare alcune riforme costituzionali, che vanno dalla modifica dell’articolo 41 sulla libertà dell’iniziativa privata alla introduzione di un vincolo al pareggio di bilancio.

Cosa c’entri l’articolo 41 con i problemi reali dell’economia italiana non l’abbiamo ancora capito: è dimostrato che nessuna politica di rigore finanziario, di sana liberalizzazione o anche di sana e utile privatizzazione, è impedita dai principi costituzionali vigenti, che coniugano la libertà di iniziativa con il limite della «utilità sociale» e affidano alla legge, cioè alla politica, il compito di «indirizzare e coordinare a fini sociali» – cioè di interesse generale – l’attività economica pubblica e privata.

L’unica cosa chiara è che, nell’incapacità o non volontà di attuare «vere» riforme utili ai cittadini, si vuole guada- gnarsi l’etichetta di «liberalizzatori» a oltranza con la meno costosa riscrittura della Costituzione. Più serio è il discorso sul vincolo costituzionale di pareggio, che si aggiungerebbe a quelli che ci impone da qualche tempo l’Unione monetaria europea.

La nostra Costituzione, all’articolo 81, stabilisce l’obbligo per le leggi di «indicare i mezzi» per far fronte alle «nuove o maggiori spese», cioè il dovere per i legislatori di assumersi consapevolmente ed espressamente la re- sponsabilità dell’equilibrio finanziario complessivo, quando decidono misure che comportano au- menti di spesa o riduzioni di en- trate.

Che poi questo vincolo sia stato spesso non rispettato o aggirato, è vero, e non depone a favore della capacità della politica di attenersi agli obblighi che pur dalla Costituzione sono imposti chiaramente.

Certo, l’articolo 81 non vieta in assoluto di indebitarsi: il deficit spending è da sempre uno strumento di politica economica, utile per esempio quando attraverso nuovi investimenti, pagati col debito, ci si proponga di stimolare l’economia ottenendo anche i mezzi per ripagare il debito stesso negli anni.

Vietare in modo assoluto e senza eccezioni di indebitarsi per poter spendere può essere perfino pericoloso (e forse impossibile da ottenere). Stabilire in Costituzione un vincolo al pareggio del bilancio (effettivo, non ottenuto col ricorso al debito) assomiglia un poco alla strategia di Ulisse che, pensando di non saper resistere al canto delle sirene – nel nostro caso, alle sirene della spesa pubblica – si fa legare all’albero della nave. Se poi magari succede qualcosa che obbliga o consiglia di ricorrere al deficit (come è acca- duto per molti Paesi dopo la crisi del 2008), si vedrà. Intanto leghiamoci all’albero.

In realtà quello che occorrerebbe soprattutto è la «interiorizzazione», da parte della politica (di maggioranza e di opposizione) del sano vecchio criterio di buon senso per cui le nozze non si fanno coi fichi secchi: e dunque, se si vuole o si deve spendere per soddisfare diritti o ottenere benefici, si debbono anche procurare, con il prelievo tributario, le entrate corrispondenti, ricorrendo al debito solo quando e nella misura in cui si sa di poterlo ripagare con le entrate future.

Con questo criterio però si scontra il mito o il pregiudizio per cui la spesa pubblica è necessaria, ma i sacrifici per pagarla li devono fare sempre “gli altri”, e per i politici proporre aumenti delle tasse significa suicidio. Nella odierna società del benessere sembra talvolta che si sia persa l’idea (che invece sta chiaramente anch’essa nella Costituzione) che tutti debbono concorrere alla spesa pubblica, e chi ha di più deve concorrere di più.

Il vero problema del sistema fiscale è l’equità: pagare tutti, pagare in relazione alla propria «capacità contributiva». Inseguendo invece lo slogan «meno tasse» (ma la spesa non si tocca) si apre la strada del disavanzo: non è un caso che negli Usa l’era dell’anti- statalista Reagan è stata anche l’epoca di un forte incremento del debito. Ragioniamo allora di «fondamentali» come questi, e della cultura che vi sta dietro, e lasciamo stare la Costituzione.

L’articolo 41 della costituzione e l’art. 1 della carta europea tutelano la dignità umana

L’articolo 41 della Costituzione, lo Statuto dei Lavoratori e l’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, fanno riferimento a un valore comune, quello della dignità umana che deve essere “rispettata e tutelata” anche nei confronti dell’iniziativa economica privata, trattandosi di una componente “inviolabile” della personalità.

Il principio affermato dai nostri costituenti, lungi dallo sbiadirsi, con l’andare del tempo si è rafforzato ed ha assunto una dimensione sovranazionale.

La necessità di tutela contro i licenziamenti arbitrari, che di questo principio è una diretta applicazione, trova specifico riconoscimento nell’art. 30 della Carta europea. Non deve perciò essere consentito metter mano disinvoltamente a questa materia per contingenti esigenze di manovra e di grancassa, come si accinge a fare Berlusconi.

L’articolo 41 non si tocca perché costituisce un architrave del nostro ordinamento costituzionale e non può essere indebolito senza intaccare altri principi fondamentali.

La parte di questa norma che dà fastidio al premier è quella che esclude la possibilità che l’iniziativa privata si svolga in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla libertà e alla dignità umana.

Il riferimento all’utilità sociale è una specificazione dei principi affermati dall’art. 2 della Costituzione, secondo cui la Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale e dall’art. 3, secondo cui è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

A questi principi sembra che il Governo voglia sostituire l’affermazione della sacralità del profitto, davanti al quale tutto dovrebbe cedere.

Se l’Italia dovesse procedere nel senso voluto da Berlusconi, essa si porrebbe in una prospettiva antistorica dal momento che, passata la fase iniziale della globalizzazione, in tutto il mondo, anche in Cina, dove la tutela dei diritti civili è ancora fragile, si riconosce la necessità di porre limiti allo sfrenato perseguimento del profitto.

Per questo il disegno del presidente del Consiglio ha una portata eversiva, contro la quale le forze di opposizione devono insorgere in difesa della democrazia.