Quale futuro per il sindacato?

Felice Besostri
www.paneacqua.eu, 28 agosto 2011

Alcune riflessioni in seguito allo sciopero generale indetto dalla Cgil contro la manovra. Un sindacato deve preoccuparsi di rispecchiare il lavoro e le sue forme, così come si evolvono in seguito ai mutamenti nella composizione sociale dell´Italia in ceti e classi diversi da quelli tradizionali, affinché il sindacato dia vita anche a nuove forme di rappresentanza del mondo del lavoro. La dimensione internazionale della crisi impone che sia tenuta costantemente presente in ogni momento e quindi condurre a proporre azioni coordinate e comuni, almeno in tutti gli Stati membri della UE

Ci si può rammaricare che lo sciopero generale del 6 settembre sia stato indetto dalla sola CGIL, ma se non ora quando?. Si sta accelerando la manovra e una mobilitazione fatta dopo l’approvazione delle norme, anche da parte di un solo ramo del Parlamento, sarebbe stata inutile. La preoccupazione unitaria per produrre frutti deve essere condivisa e non si sono sentite controproposte di Cisl e Uil di azioni unitarie alternative allo sciopero.

L’unità sindacale è un obiettivo apprezzabile e condivisibile, perché aumenta la capacità contrattuale dei lavoratori, ma non può essere disgiunta da obiettivi condivisi: in questo momento è urgente dire no a una manovra, che sarebbe scaricata direttamente o indirettamente sulla maggioranza della popolazione e nemmeno la più ricca, lavoratori dipendenti, pensionati e su tutti i soggetti in regola con le tasse, compresi i”ricchi”, che dichiarano più di 100.0000 euro all’anno di imponibile, che sono troppo pochi rispetto alla popolazione e alle ostentazioni di ricchezza, che ciascuno può osservare.

Due sono gli elementi della crisi, che se non sono rimossi, non consentiranno di uscirne, la mancanza di crescita e il progressivo impoverimento di chi viva del proprio lavoro o della pensione e non disponga di rendite finanziarie o di profitti. D’altro canto quando il 10% delle famiglie possiede il 45% (secondo altre stime il 48%) della ricchezza nazionale è detto tutto. Il fenomeno dell’evasione fiscale si è tradotto, almeno in parte in beni, soprattutto immobili o beni mobili registrati (auto e natanti o velivoli), quando non è stato illecitamente portato all’estero.

Lo stesso si è verificato per i proventi della corruzione o di attività criminali, per loro natura non dichiarabili. Ne discende che in attesa di una lotta coerente all’evasione, che non darà in ogni caso frutti in termini di cassa per i prossimi 2/3 esercizi finanziari, che l’unico modo di colpire l’evasione fiscale storica sia un’imposta patrimoniale progressiva, che colpisca beni mobili ed immobili: straordinaria in un primo momento, ma da introdurre in via permanente con aliquote più basse.

Le proposte della CGIL sono in linea di massima condivisibili e vanno nella giusta direzione di contrasto dell’evasione fiscale e della crescita, come il “Fondo per la Crescita e l’Innovazione” (FCI), da destinare prevalentemente a: A) un Piano energetico nazionale e politiche di green economy; B) Politiche di innovazione e sviluppo locale; C) Ricerca & Sviluppo; D) una politica industriale per il Mezzogiorno.

Nelle proposte da elaborare bisognerebbe evitare che la distinzione tra “buoni” e “cattivi” segua quella tra lavoratori dipendenti e pensionati da un lato e tutti gli altri dall’altro. Lo scandalo dei magistrati (ordinari, amministrativi e contabili) o appartenenti all’alta dirigenza statale o della Banca d’Italia, collocati fuori ruolo, ma che continuano a percepire lo stipendio e beneficiare di progressioni di carriera nell’amministrazione di origine in aggiunta alle indennità per il nuovo incarico, Corte Costituzionale e Autorità di garanzia comprese, comporta per ciascuno di loro benefici superiori a quelli dei membri della “casta politica” e senza l’alea della periodicità dell’incarico.

La vera distinzione è tra i soggetti che pagano le tasse e quelli che non le pagano: per questa ragione il contributo di solidarietà non appare una misura giusta applicata ai redditi già soggetti a IRPEF. Il sindacato non può farsi carico soltanto dei propri iscritti se vuol creare una vasta alleanza sociale, tra chi produce ricchezza con il proprio lavoro senza distinzione tra lavoro dipendente, autonomo o libero professionale. L’uso strumentale si contratti a progetto, di incarichi professionali per un unico cliente, di partite IVA fatte aprire come condizione per mantenere un posto di lavoro hanno abbattuto nei fatti la distinzione tra lavoro dipendente ed autonomo, quest’ultimo privo di ammortizzatori sociali e di un futuro previdenziale, per non parlare dei lavoratori in nero, immigrati clandestini o cittadini ricattati dal bisogno, che siano.

Un sindacato deve preoccuparsi di rispecchiare il lavoro e le sue forme, così come si evolvono in seguito ai mutamenti nella composizione sociale dell´Italia in ceti e classi diversi da quelli tradizionali, affinché il sindacato dia vita anche a nuove forme di rappresentanza del mondo del lavoro.

Tra gli iscritti e il quadro dirigente locale, regionale e nazionale sono sottorappresentati i precari non appartenenti alla funzione pubblica e i lavoratori privi di cittadinanza e quel composto mondo delle partite Iva in posizione parasubordinata ovvero le espressioni più qualificate del terziario avanzato: insomma i meno tutelati e i più qualificati. Affrontare il problema è un modo anche di farsi carico di un ceto medio impoverito e spaventato, quindi instabile anche politicamente. Gli “indignati” spagnoli, israeliani e cileni, tutti borghesi del ceto medio o i proletari delle banlieu francesi o dei quartieri etnici britannici sono i due poli di un disagio, che mina la coesione politica e sociale delle nostre società democratiche, con esiti imprevedibili e pertanto inquietanti, in assenza di uno sbocco sindacale e/o politico nell’alveo della sinistra, già messa in difficoltà dalla riduzione dello stato sociale, anche nei suoi settori tradizionali di insediamento.

Un sindacato all’altezza della sfida dei tempi, di questo la CGIL è conscia quando si riferisce “al nuovo Patto di Stabilità e Crescita europeo (PSC) deliberato dal Consiglio europeo ad aprile 2011″ che ” si preoccupa della stabilità ma non della crescita: non assume l’equità e la solidarietà tra Stati Membri come obiettivo, tende a deprimere e a rinviare la crescita, si limita a vincolare lo sviluppo alla “credibilità” dei debiti sovrani sui mercati finanziari”.

Questa sensibilità al quadro europeo lo si ritrova anche quando nel documento si mette in rilievo che “Il recente vertice franco-tedesco segna un lieve cambio di prospettiva rispetto alla politica economica precedente, comunque ritardato e inefficace” ma aggiunge a completamento “. Come abbiamo più volte affermato al fianco della CES, è essenziale istruire una Tassa sulle Transazioni Finanziarie (TTF) ed emettere obbligazioni europee (Eurobond) per consolidare i debiti pubblici degli Stati Membri e rilanciare investimenti e crescita”.

La dimensione internazionale della crisi impone che sia tenuta costantemente presente in ogni momento e quindi condurre a proporre azioni coordinate e comuni, almeno in tutti gli Stati membri della UE, come ambito territoriale- istituzionale e a livello di settore, l’automobile per esempio, a livello sovranazionale: una vicenda FIAT richiede una interlocuzione con i sindacati USA, del Brasile, di Serbia e Polonia. Un sindacato deve preoccuparsi dei limiti del quadro politico in cui opera: non è lo stesso che un sindacato, pur difendendo con rigore la propria autonomia, abbia un interlocutore, come nella maggioranza dei paesi europei, con formazioni politiche che facciano riferimento alla sua base sociale, sia pure non in via esclusiva.

L’attuale articolazione partitica della stessa sinistra non costituisce un riferimento per un sindacato, specie quando indice forme di lotta, decise come uno sciopero generale, ma questo assetto è anche il frutto di una legge elettorale, che opportunamente si voleva abrogare per via referendaria: senza un’articolazione plurale e rinnovata della sinistra il Sindacato non avrà quel sostegno, di cui ha bisogno in momenti come questi, e nella nuova articolazione non potrà mancare una formazione che abbia il suo riferimento principale, anche se non esclusivo, nel socialismo europeo, che costituisce la più importante formazione democratica e progressista europea, oltre che l’interlocutore della maggioranza dei sindacati della CES.

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La Finanziaria del governo cancella lo Statuto dei lavoratori

Redazione
www.ilfattoquotidiano, 18 Agosto 2011

Dopo le critiche di Cgil e opposizioni sulla parte della manovra che introduce il licenziamento facile, arriva la nota dell’ufficio studi del Senato: “Deroga le leggi vigenti”, articolo 18 compreso

“Se la destra intende cancellare lo Statuto dei lavoratori lo dica e non si nasconda dietro norme implicite”. E’ un fiume in piena Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro nel governo Prodi, che commenta la nota diffusa dall’Ufficio studi del Senato, secondo cui l’articolo 8 della manovra prevede implicitamente la possibilità di derogare le leggi in vigore, Statuto dei lavoratori compreso.

Poco importa se subito dopo l’ufficio stampa di Palazzo Madama si affretta a chiarire che il documento esaminato è solo una bozza. Eppure il 14 agosto, quando Maurizio Sacconi illustrava i contenuti di sua competenza della Finanziaria , giurava: “L’articolo 18 non è stato toccato”. Anzi, per il ministro del Welfare, il corpus di normative che regolamentano il mondo del lavoro usciva sostanzialmente intatto dalla legge del governo. Compreso il famoso codice-baluardo che vieta il “licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo”.

Secondo Sacconi, l’articolo 8 del decreto “incentiva la contrattazione aziendale”. Il problema però è come: con la possibilità di stipulare contratti in deroga allo Statuto dei lavoratori anche nella parte che regolamenta i licenziamenti, eccezion fatta per quelli “discriminatori o di lavoratrici in concomitanza del matrimonio”.

Opposizioni e Cgil avevano subito notato come le norme varate dal governo rappresentassero un furbo escamotage per aggirare l’articolo 18 senza vietarlo esplicitamente. Ma oggi è arrivato anche il parere tecnico (e non politico) degli esperti di Palazzo Madama che conferma i timori di chi sosteneva come quel codice rappresentasse un attacco ai diritti dei lavoratori. I commi dell’articolo scritto dal titolare del Welfare possono “ridefinire la regolazioni delle materie inerenti all’organizzazione del lavoro e della produzione”, recita la nota dell’ufficio studi.

Ma c’è di peggio. Se si prende questa norma e la si combina con i contenuti dell’accordo sottoscritto da Confindustria assieme a Cgil, Cisl e Uil il 28 giugno, il risultato è che l’articolo 18 si annacqua pericolosamente. Il patto fra l’associazione degli industriali e le organizzazioni dei lavoratori prevede infatti che ai rappresentanti di una singola azienda sarà consentito di trattare in autonomia (e in deroga ai contratti collettivi) una serie di materie come orari e organizzazione del lavoro.

Tali norme saranno legge per tutti i dipendenti di un’azienda “se approvate dalla maggioranza delle Rsu”. E ora, con l’articolo 8 tanto caro a Sacconi, all’interno delle materie “trattate in autonomia” entreranno anche i licenziamenti. Basterà il via libera della rappresentanza sindacale di base di una singola impresa e non sarà necessario nessun referendum interno per stipulare contratti sostitutivi a quelli che a livello nazionale regolamentano i rapporti di lavoro.

Come ha detto il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, il pericolo ora è “la proliferazione di accordi pirata, firmati da sindacati di comodo”. Cioè la creazione all’interno dei luoghi di lavoro di “sindacati gialli” che, in nome della produttività, potrebbero soprassedere su una serie di norme garantite dalla Costituzione. D’ora in poi “i diritti dei lavoratori dipenderanno dalle condizioni della propria azienda”, sostiene Camusso.

Ma secondo Sacconi, questo è uno strumento essenziale per garantire la ripresa economica in un momento di crisi e pesanti tagli. Del resto che la possibilità di licenziare sia il metodo per migliorare il mercato del lavoro e incentivare lo sviluppo è un vecchio pallino della maggioranza di centrodestra. Almeno fin dal 2002, quando la Cgil allora guidata da Sergio Cofferati portò in piazza a Roma 3 milioni di persone contro i piani del governo Berlusconi di smantellare l’articolo 18.

Ai tempi la risposta di massa dei cittadini fece desistere l’esecutivo, ma oggi ci risiamo. “Il governo ha approfittato della crisi per inserire il licenziamento facile”, dice al Fatto Quotidiano il responsabile del settore auto della Fiom Giorgio Airaudo che sottolinea come questa Finanziaria scatenerà una guerra fra poveri: “Un’azienda in crisi può dire ai suoi dipendenti che o si chiude o si dà ai dirigenti la possibilità di licenziare alcuni colleghi”. Anche per questo motivo la Cgil ha annunciato battaglia e si prepare a uno sciopero generale.

Anche l’opposizione è sul piede di guerra: l’ex ministro Damiano del Pd parla di una legge in cui l’elemento fondante è “lo scempio dello stato sociale, dei diritti e della tutela dell’occupazione”, mentre Maurizio Zipponi, responsabile Lavoro dell’Italia dei Valori, bolla Sacconi come un “infingardo ministro della disoccupazione”.

Del resto il governo ha inserito la libertà di licenziare all’interno del capitolo sviluppo della sua manovra. E per l’esecutivo, i rilievi dell’ufficio studi di Palazzo Madama “non sono affatto una brutta notizia”, come sostiene il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto che giudica l’articolo 18 come uno di quei “tabù sindacali che vanno abbattuti”.