Ma cos’è questa crisi?

Beniamino Ginatempo
www.paneacqua.eu, 2 settembre 2011

Perché ci stanno appioppando la manovra economica più colossale della storia del Paese? Perché fino a giugno ci dicevano che i conti pubblici erano in ordine e l’Europa ci rassicurava sul rigore di Tremonti mentre oggi scopriamo di essere quasi al default? Perché le società di rating e tanti esperti e celebrati economisti, di destra e di sinistra, non avevano previsto questo disastro? Perché Tremonti ci spaventa con mostri da videogame ed altre metafore?

Da profano, ammetto con candore di non capire granché delle risposte nonostante l’autorevolezza e la chiarezza di tanti stimati commentatori, ma mi vien da pensar male. Il sospetto è che nessuno dica la verità e che il patatrac sia dietro l’angolo. Anzi la manovra da 45 miliardi è probabilmente solo un pannicello caldo. Certo sarebbe equo se la metà della manovra fosse pagata da quel 10% di italiani che possiedono il 50% del Paese e, visto che lo dice Bankitalia, quel 10% si dovrebbe poter rintracciare. Ma non c’è solo il problema di chi la paga la crisi, bisogna anche chiedersi se basterà e se servirà.

In questo caos, mi sembra di capire almeno due cose, una di carattere generale sulla crisi globale e l’altra sull’Italia.

1. L’attuale modello di sviluppo è basato sulla falsa pretesa di risorse naturali infinite, e richiede la crescita continua di produzione e consumi, altrimenti il PIL non sale. Tralasciando il fatto che Bob Kennedy (non Che Guevara!) già nel 1968 ci diceva che il PIL “misura tutto… eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”, bisogna chiedersi, secondo me, come si è deciso di finanziare la crescita del PIL nell’occidente negli ultimi decenni.

Sembrerebbe ovvio: le imprese si sono indebitate per produrre; i consumatori si sono indebitati per acquistare; gli stati si sono indebitati per favorire produzione e consumi. Si è pertanto finanziata la crescita col debito. Ma da qualche anno ci si è accorti che le risorse del pianeta non sono infinite e che i danni ambientali forse costano di più della stessa crescita. Siamo dunque alla insostenibilità di questo sistema economico. Da cui le crisi finanziarie, causate dalle difficoltà di ripianare i debiti e riscuotere i crediti.

Infatti si stima che il PIL mondiale (60 fantastilioni) è ben un dodicesimo del debito mondiale (720 fantastilioni). Ora, quale impresa non sarebbe dichiarata fallita immediatamente se il suo debito fosse 12 volte il suo fatturato?

Quello che politici ed economisti di tutti gli schieramenti non dicono o non vogliono dire è che questo sistema economico, basato sul libero mercato, è in verità fallito sulla base delle regole del mercato stesso. Si aggiunga che il debito e il saccheggio delle risorse sono una devastante ipoteca sul futuro, che sarà pagata dai nostri nipoti, anzi che i nostri figli stanno già pagando col precariato e con incerte prospettive di vita.

2. Venendo all’Italia, il nostro debito pubblico non è solo enorme ma abnorme. Perché a fronte di quei 1900 miliardi non c’è un corrispettivo in infrastrutture né un welfare degno di questo nome, come in altri stati europei. Con il trucco dell’evasione fiscale, i condoni più o meno tombali, gli scudi fiscali e le politiche clientelari bipartisan noi abbiamo democristianamente trasformato in debito pubblico il debito privato, abbiamo stratificato grandi e piccoli privilegi e abbiamo ipotecato il futuro dei nostri giovani.

Ma come uscire dalla crisi? Diceva Albert Einstein: “I problemi non possono essere risolti ragionando con gli stessi schemi mentali che li hanno generati”. La ricetta allora non può stare nella crescita, come tanti politici, imprenditori e sindacalisti auspicano, né, meno che mai, nel rilanciare produzione e consumi, perché queste sono proprio le cause della crisi e quindi non possono esserne la soluzione. Al contrario dovremmo forse decrescere. A patto però di dividere più equamente il PIL, impegnandoci a che “il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi” (E. Berlinguer, 1981). Oggi l’uguaglianza è pure necessità economica perché è proprio nella recessione che i più deboli vengono travolti. Ma ridistribuire non significa necessariamente crescere, anzi la decrescita non potrà non comportare un netto cambiamento nel nostro stile di vita.

Uno degli aspetti dell’egemonia culturale berlusconiana è che la percezione della disuguaglianza non sta nel vedere violati i propri diritti (come quello di sciopero!) ma nell’accorgersi di non poter a raggiungere i livelli di consumo di altri. Mi sento svantaggiato se non ho l’ultimo smartphone, se non ho il SUV, se non posso andare in discoteca tutte le sere, e lì se non ho il soldi per la coca o per il terzo mojito. Decrescita vuol dire consumi responsabili, rifiuto del superfluo, recupero delle risorse anche dai rifiuti più sozzi. Ma pure vivere con meno stress, con più equilibrio con la Natura. Decrescita è soprattutto una diversa narrazione del nostro futuro. Decrescere è, quindi, una sfida culturale che la sinistra – e io per primo – sa forse teorizzare ma, temo, non è affatto attrezzata ad affrontare.

Abbiamo bisogno dunque di un nuovo modello di sviluppo che sia basato sul solidale e responsabile utilizzo delle risorse del pianeta. Se ne parla da tanto tempo, ma non l’abbiamo mai saputo realizzare. È il socialismo.