Il multiculturalismo, quello cattivo e quello buono

Risponde Sergio Romano
Corriere della sera, 8 settembre 2011

Un diplomático norvegese presso gli Affari interni dell’Unione Europea stimola i singoli Stati a propagandare al loro interno i vantaggi del multiculturalismo, senza indicarne neanche uno (e su questo, almeno a breve termine, non ci sarebbe niente da obiettare secondo me). Visto che mai nessuno si arrischia seriamente in questa impresa senza cadere nella stucchevole retorica tipo vecchio manifesto della Benetton, potrebbe cominciare lei. L’impresa è titanica, ma i partiti politici sono rinchiusi dentro le rispettive visioni e il capo dello Stato e della Chiesa devono parlare in un certo modo. Fabrizio Logli

Caro Logli,
Il multiculturalismo diventa matéria di pubbliche discussioni tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. È il risultato delle prime grandi migrazioni dall’Africa e dall’Asia soprattutto in Francia, dove le comunità maghrebine diventano sempre più numerose, e in Gran Bretagna, dove cominciano a giungere in gran numero lavoratori provenienti dai Paesi dei Commonwealth.

Alcuni sociologi cominciano allora a teorizzare la «società multiculturale» e propongono ai governi le loro formule e le loro proposte sul modo in cui affrontare il problema dell’integrazione dei nuovi arrivati in Paesi di cui di- verranno, prima o dopo, Cittadini.

I teorici della nuova dottrina pensano che la strategia dell’assimilazione appartenga al passato e che uno Stato democrático debba consentire agli immigrati di rispettare le loro tradizioni, confessare la loro fede religiosa, conservare le loro feste comunitarie, trasmettere ai loro figli la conoscenza della lingua e della cultura dei Paese di provenienza.

Erano propositi ragionevoli a cui molti Paesi si sono effettivamente ispirati. Ma hanno prodotto due effetti che i sociologi evidentemente, non avevano previsto. In primo luogo da alcune comunità straniere sono emerse nomenklature composte da persone ambiziose che aspiravano a fare dei loro connazionali una sorta di collegio elettorale e di servirsene per diventare gli interlocutori accreditati delle autorità locali.

Per meglio affermare l’utilità della loro funzione ed esaltare il loro ruolo, questi boss comunitari hanno spesso cercato di sfrattare le condizioni psicologiche dei loro rappresentati accentuando ed esasperando la loro separazione dal resto della società in cui vivevano.

In secondo luogo questo fenomeno ha interessato in particolare gli immigrati musulmani soprattutto arabi, provenienti da Paesi diversi, ma uniti da una stessa fede religiosa e visti con una certa diffidenza dopo la guerra civile algerina dell’inizio degli anni Novanta, l’apparizione di Al Qaeda e l’esplosione dei terrorismo islamico negli anni seguenti.

Non si è sufficientemente capito che quanto piü la società diffidava di tutti i musulmani, tanto più la nomenklatura poteva fare leva su questa diffidenza per consolidare il proprio potere.
Un certo multiculturalismo, quindi, è certamente fallito.

Questo non significa tuttavia che una comunità straniera non abbia il diritto, soprattutto nei primi anni dell’immigrazione di conservare vecchi legami e rispettare antiche consuetudini soprattutto religiose.

Ma gli Stati europei hanno interesse a scoraggiare la nascita delle nomenklature, a trattare con gli esponenti pù ragionevoli delle diverse comunità e a soddisfare le loro legittime esigenze. È questa la ragione per cui penso che la mancanza di una moschea a Milano, per esempio, sia un errore da correggere.