Mons. Bettazzi: «La Chiesa si distacchi dai beni materiali»

Luca Kocci
Adista n. 62/2011

Nel corso del tempo, la Chiesa «si è umanamente adattata ai compromessi umani» e invece dovremmo imparare ad «ascoltare le sollecitazioni che lo Spirito non fa mancare» e «compiere gesti concreti e significativi di distacco dai beni materiali e di testimonianza dello spirito di povertà vissuto e richiesto da Gesù per chi vuol essere suo discepolo». È la riflessione di mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea e già presidente di Pax Christi, intervistato da Adista sulla questione dei patrimoni e dei beni ecclesiastici: dall’otto per mille all’Ici, dagli immobili ai cappellani militari, un colloquio “a tutto campo” in cui Bettazzi invita la Chiesa a riscoprire il sogno del Concilio della «Chiesa dei poveri».

In Italia la Chiesa cattolica è finanziata, direttamente o indirettamente, anche dallo Stato. Non sarebbe più evangelico che siano solo i fedeli a provvedere al suo mantenimento?
L’auspicio che sia la comunità dei fedeli ad occuparsi del mantenimento della propria Chiesa è all’origine del problema. In realtà la comunità l’aveva fatto, ma durante il Risorgimento lo Stato le aveva sottratto quanto la comunità aveva costruito, impegnandosi in cambio a mantenere i vescovi, i canonici e i parroci con una cifra adeguata, la «congrua». E così, nella decisione dello Stato di destinare l’otto per mille del suo bilancio a finalità sociali, con il Concordato del 1984 si è data anche la possibilità ai cittadini di indicare che esso possa venir destinato anche alle Chiese e alle loro attività.

A proposito di otto per mille e del suo meccanismo di redistribuzione: non sarebbe opportuno che la Chiesa – e anche le altre Confessioni – rinunci alle quote non espresse? In questo modo verrebbero percepite solo le donazioni di coloro i quali vogliono effettivamente e volontariamente offrirle, e non più quelle dei tanti cittadini che, spesso per non conoscenza del sistema, non operano nessuna scelta.
L’attuale meccanismo di redistribuzione, per cui le donazioni di chi non ha espresso la destinazione vengono divise secondo le indicazioni di chi le ha espresse, crea problemi. È vero che viene da pensare ad un’astuzia clericale di chi ha contrattato il Concordato, posto che la rinuncia a questa quota comporterebbe che le destinazioni non espresse confluiscano nella quota dello Stato. Viene da chiedersi se anche questo sarebbe logico, data la scarsa fiducia che i cittadini hanno nel senso “sociale” dei responsabili dello Stato, considerato che anche chi esprime la destinazione solo in minima parte indica lo Stato, forse perché consapevole che le destinazioni “sociali” dello Stato hanno in passato compreso persino gli armamenti e le guerre! Credo che invece proprio da parte dello Stato, ed anche della Chiesa, andrebbe fatta una campagna di informazione perché cresca il numero dei cittadini che indicano consapevolmente la destinazione.

Si dice che i finanziamenti pubblici o le esenzioni fiscali sono una sorta di risarcimento per la funzione sociale che le strutture ecclesiastiche svolgono. Ma il ruolo della Chiesa è quello di collaborare ad un regime di sussidiarietà oppure di impegnarsi perché venga costruito uno Stato sociale pubblico ed universalistico?
Nella misura in cui la Chiesa svolge il suo compito di assistenza senza chiusure confessionali in realtà sollecita e prepara lo Stato sociale, come ha fatto con le scuole pubbliche, gli ospedali pubblici, l’assistenza ai tossicodipendenti. L’impegno per la Chiesa dovrebbe essere, accanto ad un’assistenza aperta a tutti, proprio la disponibilità a trasferire via via le sue iniziative alla dimensione civile.

Senza entrare nei dettagli normativi dell’esenzione Ici – dove esiste sicuramente un margine di ambiguità che consente diverse elusioni –, non ritiene comunque che l’uso commerciale di alcuni immobili di proprietà ecclesiastici sia molto lontano dal Vangelo?
Da una parte, la Chiesa dovrebbe essere sempre molto trasparente nell’evitare le “furberie” di chi trasforma realtà assistenziali in realtà commerciali. Dall’altra parte ,dovrebbe fare il possibile perché la responsabilità di questi enti commerciali sia affidata a laici competenti e fidati. Meno ecclesiastici si trovano a trattare di soldi e meglio sarebbe per l’immagine, ma anche per la realtà della Chiesa.

I cappellani militari inquadrati nelle Forze armate con i gradi, al di là della contraddizione del prete-soldato, vengono anche retribuiti come ufficiali. Perché non rilanciare la storica proposta di Pax Christi che propone da anni la smilitarizzazione dei cappellani, affidando il servizio pastorale alle parrocchie nel cui territorio ricade la caserma (e lo stesso potrebbe valere per ospedali e carceri)? Sarebbe fedeltà al Vangelo della pace e anche, in tempi di crisi e di tagli, un risparmio non irrilevante per lo Stato.
La proposta di Pax Christi si rifà ad altre esperienze che vedono i cappellani dei militari non inseriti nell’esercito, come in Francia e negli Stati Uniti. Pare che la «smilitarizzazione» fosse la condizione posta da mons. Aldo Delmonte, poi vescovo di Novara, già cappellano militare in Russia, prigioniero e ferito, quando gli fu proposto di divenire ordinario militare: «Accetto, ma senza gradi». E non divenne generale, come succede oggi. L’assegnazione esclusiva ai parroci potrebbe non risultare funzionale, dato un tipo di pastorale non sempre facile da realizzare. Però il vescovo potrebbe designare i sacerdoti più adatti, come già per le carceri e gli ospedali, ricompensati, come tutti i sacerdoti, con i proventi dell’otto per mille.

Che ne è del sogno del Concilio di una Chiesa povera e dei poveri?
Già al Concilio era emerso l’impegno, introdotto da un’affermazione di papa Giovanni XXIII, per una Chiesa che non sia – come è sempre stata – «per i poveri», ma che sia «dei poveri», in cui tutti cioè, anche i poveri, si sentano protagonisti. Quello che non è riuscito a fare il Concilio, guidato dalle Chiese ricche dell’Occidente, l’ha fatto la Chiesa dell’America Latina a Medellin, nel 1968, con «l’opzione preferenziale per i poveri» e chiedendo di vedere sempre i problemi e le loro soluzioni con l’occhio dei poveri. Credo che questo sia il grande problema della Chiesa, che si è umanamente adattata ai compromessi umani, anche nelle stesse istituzioni nate per testimoniare lo spirito di povertà. Le grandi strutture di potere, inevitabili per la guida di tanta parte di umanità, dovrebbero saper ascoltare le sollecitazioni che lo Spirito non fa mancare, attraverso la voce di testimoni qualificati o attraverso le vicende della storia. E se normalmente cerchiamo di custodire il passato, penso che, soprattutto in questo campo e in questo tempo, dovremmo compiere gesti concreti e significativi di distacco dai beni materiali e di testimonianza dello spirito di povertà vissuto e richiesto da Gesù per chi vuol essere suo discepolo.