Cina-debito pubblico italiano: illusioni e realtà di A.Gianni

Alfonso Gianni
www.paneacqua.eu, 19 settembre 2011, 22:50

Da “la Cina è vicina” alla Cina ci è vicina? Ovvero da Marco Bellocchio a Giulio Tremonti? E’ proprio così e comunque che cosa c’è di vero nei boatos di questi giorni che ci raccontano di un imminente intervento cinese sul fronte dell’acquisto dei titoli del debito pubblico italiano che potrebbe dare un qualche respiro al nostro affranto paese?

Un po’ tutti i giornali, non solo quelli nazionali, e la stampa specializzata si sono esercitati a dare risposte a queste domande non da poco. Anche perché la situazione ha tratti di paradossalità e quindi è divertente dal punto di vista dei mass media. La Cina che salva l’Italia da un possibile default rovescia una doppia immagine che era ben ancorata nel senso comune del nostro paese. Quella, da un lato, di una Cina modello di una rivoluzione che non conosce soste e forse neppure confini, cui si potevano ispirare i movimenti rivoluzionari sessantottini e post e perfino gli irriquieti rampolli della nostra borghesia, da sempre afflitta da complessi di provincialismo – avrebbe detto Gramsci – e quindi facilmente soggetta al fascino dell’esotico.

Sull’altro versante, va in frantumi anche l’immagine di una Cina terra di irrefrenabili emigrazioni, punto di partenza di una diaspora che ha invaso il globo e che in Italia aveva scavato per anni solidi cunicoli nel tessuto urbano e produttivo del paese, moltiplicando le chinatowns e i sottoscala e i capannoni ove donne, bambini e adulti senza limiti di orario competevano senza regole con la nostra economia matura, strappandole fette di mercato in settori una volta tradizionali, come il quello dell’abbigliamento. Ma ora tutti avvertono che siamo di fronte a qualcosa di profondamente diverso. La Cina è un gigantesco paese, con il più alto tasso di crescita al mondo – seppure quella misurata con i tradizionali parametri capitalistici – che si impone quale nuovo punto di riferimento dell’economia mondiale. Anzi come àncora di salvataggio nella tempesta perfetta dell’attuale crisi economica mondiale.

In effetti l’attenzione della Cina all’Italia non è che un aspetto di un fenomeno molto complesso, destinato a durare per un tempo non breve, e che ha tutti i presupposti per rivelarsi irreversibile. Mi riferisco al processo di transizione egemonica mondiale, di cui la crisi economica che il mondo sta attraversando è elemento acceleratore, che vedrà l’Oriente – prevalentemente la Cina – sostituirsi all’Occidente, ora gli Usa, come traino dell’economia mondiale. In sostanza siamo alle porte di una nuova fase della globalizzazione, dopo quelle che il mondo ha attraversato dal 1870 in poi, l’anno di partenza del “lungo ventesimo secolo” secondo la ricostruzione che ne fece Giovanni Arrighi in contrapposizione a quella del “secolo breve” di Eric Hobsbawm.

Gli avanzamenti di questo processo diventano di giorno in giorno sempre più evidenti. Il Dragone ha subito finora poche scosse dall’attuale crisi. E questo perché il governo cinese è intervenuto anche prima di quello americano in funzione di stimolo della propria economia mettendo sul piatto centinaia di miliardi di dollari. La Cina non è più solo la fabbrica dell’assemblaggio di merci pensate e progettate altrove. Non punta più solo a esportazioni di merci povere di contenuto tecnologico e di basso costo. E’ diventata un centro di innovazione e di straordinario dinamismo dai quali i migliori manager del sistema capitalistico mondiale sono chiamati a imparare. La Cina possiede ricchezze in valuta straniera ammontanti a un valore pari a 3200 miliardi dollari, di cui si stima che un quarto siano in euro. Ben si comprende che i cinesi siano preoccupati del crescente disordine nei conti dei paesi capitalistici occidentali e perciò il loro premier ha recentemente dichiarato che “I paesi devono mettere ordine in casa propria. Le nazioni sviluppate devono assumere dei provvedimenti fiscali e monetari responsabili”.

L’approccio cinese nelle sue relazioni con l’Europa, pur nell’effervescenza della loro crescita di ruolo nel contesto economico e politico mondiale, è improntato alla prudenza e alla pretesa di rigore. Non vi è da farsi illusioni che sia diverso per il caso italiano, che i cinesi hanno mostrato di considerare, e pour cause, uno degli anelli più deboli nello scacchiere europeo. D’altro canto i cinesi già posseggono quote considerevoli del nostro debito. Il Financial Times – ma concordano anche i centri di ricerca nostrani – stima che già il 4% del debito pubblico italiano, cioè intorno ai 75 miliardi di euro, sia in mano cinese. Non vi è quindi da credere che i cinesi siano poi così impazienti di aumentarne la quota e soprattutto che siano disponibili a farlo per spirito solidale, ovvero solo per allontanare il pericolo di default del nostro paese.
Anche perché – ed è una questione finora troppo poco considerata – qualche problema lo hanno anche i cinesi in casa propria. Secondo analisti occidentali attendibili, più di un problema sta sorgendo nella gestione del debito pubblico interno cinese. Il debito delle amministrazioni locali del grande paese asiatico ammonta a 2.300 milioni di dollari; ma è destinato a crescere se il governo manterrà l’impegno di costruire 10 milioni di nuove case popolari entro al fine dell’anno. Non è impossibile che quindi il governo cinese si trovi nella necessità di operare un nuovo intervento di salvataggio per un importo che potrebbe oscillare attorno ai 700 miliardi di dollari. Il tutto porterebbe a una crescita del debito pubblico cinese verso il 77% del suo Pil.

L’attivismo cinese in Europa va probabilmente letto in un’altra chiave. Piuttosto che prodigarsi nell’acquisto dei titoli del debito pubblico per allontanare la possibilità di default che limiterebbe le capacità di acquisto delle merci cinesi sui mercati europei, i cinesi sono interessati a spingere l’acceleratore sulla penetrazione diretta nell’economia reale degli stati europei. A questo sembra essere finalizzato il tour settembrino in Europa della delegazione di un organismo chiave nella governance economica cinese, quale la China Investment Corporation (Cic). L’interesse all’investimento nei paesi europei sembra concentrarsi in tre settori, tutti decisivi, anzi strategici, ovvero l’energia, le infrastrutture e il credito.

Nei confronti dell’Italia questa scelta si orienta tanto verso le grandi imprese quanto, e, forse per ora prevalentemente, verso il sistema delle Pmi. Agli investitori cinesi, guidati sempre da un superiore interesse “nazionale” – il loro si intende – interessa conquistare quote di partecipazione in Eni, Enel, nelle migliori società che operano nel campo delle energie pulite e rinnovabili, quelle cioè che lavorano in ravvicinato contatto con il futuro. Ma certamente sono anche molto interessati all’intero sistema portuale italiano, porta d’accesso imprescindibile per l’ingresso delle merci del Dragone nel nostro vecchio continente. Al punto che, se mai si dovesse fare il Ponte sullo Stretto di Messina – cosa che insisto comunque a ritenere improbabile -, è solo con l’intervento cinese che ciò potrebbe disgraziatamente avvenire. Ma anche l’alta velocità ferroviaria – il popolo della Val di Susa è avvertito – è negli appetiti degli investitori cinesi. Mentre aumenta l’interesse per i principali istituti di credito italiani aventi una caratura internazionale, quali Unicredit e Banca Intesa.

Contemporaneamente i cinesi sono molto attratti dal sistema delle piccole e medie imprese italiane. Lo indica un recente incontro tra la delegazione della Cic e la Cassa Depositi e Prestiti e il neonato Fondo Strategico Italiano (Fsi) che dovrebbe appunto occuparsi di incrementare lo sviluppo delle aziende di medio-piccole dimensioni nei settori strategici. Ma ciò che sembra interessare ai cinesi non è una qualsivoglia partecipazione di minoranza, quindi non solo e non tanto il ritorno finanziario, quanto l’acquisizione di tecnologie e anche di immagine. Potere inglobare il “made in Italy” nel poco stimato e inelegante “made in China”, sarebbe davvero un segno evidente e indelebile del cambiamento dei tempi. D’altro canto questo è già avvenuto e avviene, come nel caso delle motorette Benelli di Pesaro, o del vestiario sportivo Sergio Tacchini, o del brand delle penne stilografiche di lusso della Omas di Bologna, prima transitate in casa Luis Vuitton ed ora impegnate a vergare ideogrammi in solida mano cinese.

Nessuno quindi ci salverà per il solo gusto di farlo. Nello stesso tempo l’Italia e l’Europa non si salveranno senza fare i conti con i nuovi assetti geoeconomicopolitici del mondo, dei quali la Cina è parte assolutamente determinante. Pensare di farli in chiave protezionista è inutile prima che stupido. La strada è quella della costruzione di nuovi rapporti multipolari mondiali a livello politico, economico e istituzionale. Un lungo percorso che andrebbe iniziato subito proprio perché è indispensabile per uscire dalla crisi senza un massacro sociale. In questo quadro la possibilità di favorire l’acquisto di titoli di debito pubblico da parte dei cinesi o di altri paesi Brics, come il Brasile ad esempio, è tutt’altro che da osteggiare, basta sapere che tutto ha un prezzo e che noi europei abbiamo un debito morale e politico con il mondo – per i danni che il nostro imperialismo ha arrecato – , non il contrario.