Lavoro nero: Quando a scioperare sono gli africani

Stefania Salomone (*)
Adista n. 66/2011

Dal Terremoto dell’Aquila del 2009 le Brigate di Solidarietà sono impegnate nelle fabbriche occupate, nei cortei, nelle battaglie degli immigrati, a Lampedusa e nel campo di accoglienza per i braccianti a Nardò, in Puglia. Io ho incontrate le Brigate proprio all’Aquila, due anni fa .

Non avendo alcuna intenzione di inviare denaro via sms per riempire le tasche delle compagnie telefoniche, mi ripromisi di trascorrere parte delle mie ferie estive nelle località colpite dall’emergenza sperando di poter dare una mano.

Non fu cosa facile. Ricevetti infatti solo riscontri negativi da ogni parte, istituzioni religiose, laiche, governative e internazionali. Sembrava proprio che una “volontaria” non iscritta in liste già verificate e senza “attestati” (già, mi hanno chiesto anche quelli…) non fosse di alcuna utilità.

Compresi poi che a molti non andava che tanti “cani sciolti”, persone cioè non inquadrate all’interno delle associazioni, delle Ong, delle organizzazioni ecclesiali “riconosciute” avessero libero accesso alle tendopoli militarizzate della zona. Alla fine, un’amica che vive a L’Aquila mi parlò di una tendopoli gestita dalle Brigate: arrivai in una piccola località a pochi chilometri dal capoluogo abruzzese. Chiamai il responsabile che accolse la mia richiesta.

Quest’estate, per la seconda volta consecutiva, ho partecipato al progetto denominato “Ingaggiami contro il lavoro nero” che prevede azioni di solidarietà a favore dei lavoratori braccianti mediante la gestione del campo realizzato in collaborazione con l’associazione Finis Terrae e con il Comune di Nardò presso la Masseria Boncuri.

Qui si riversano i lavoratori braccianti provenienti prevalentemente dal nord-Africa e dall’Africa sub-sahariana, reclutati a giornata per la raccolta delle angurie e dei pomodori. In questo territorio che sembra terra di nessuno, in gran parte abbandonato dalle istituzioni, impera il regime imposto dai caporali che si arricchiscono sulle spalle dei braccianti costretti ad accettare paghe da fame a fronte di un lavoro massacrante sotto il sole del Salento che non perdona.

Ma quest’anno hanno detto “Basta”! Hanno dato vita a qualcosa che in Puglia non si era mai visto, uno sciopero auto organizzato. Hanno incrociato le braccia, radunandosi in assemblea per definire i punti salienti delle proprie rivendicazioni.

Ben diciannove diverse etnie tra cui Sudanesi, Ghanesi, Malesi, Nigeriani, Burkinabé, nord-africani, sono riuscite a superare le differenze stabilendo una piattaforma comune di richieste, denunciando apertamente lo sfruttamento del lavoro nero e il sistema dei finti ingaggi che consente ai caporali di far lavorare più migranti irregolari con un unico contratto fittizio.

Hanno chiesto alle autorità competenti di effettuare controlli in modo sistematico nei campi avviando meccanismi di incontro tra domanda e offerta in grado di eliminare l’intermediazione del caporalato tra imprenditori e operai.

Dopo giorni di sciopero, mentre i vari raccolti rischiavano di marcire nei campi, pur avendo ottenuto due tavoli di discussione, in Provincia e in Regione, come era facilmente immaginabile le istituzioni hanno fornito solo risposte aleatorie. Nel frattempo la situazione presso la masseria, tra le emergenze di ordine sanitario e la disperazione per i giorni di lavoro (e di paga) perduti inutilmente, si è fatta sempre più tesa.

La forza e la determinazione dimostrata dai braccianti avevano però già messo a prova un sistema atavico di cui tutti sono a conoscenza, ma che nessuno denuncia. Quale sistema migliore per tentare di far rientrare la cosa se non quello di istruire abilmente alcuni infiltrati tra i braccianti, pagandoli affinché spargessero notizie false su ipotetiche somme di denaro o privilegi riservati ad alcuni e non ad altri?

Con grande schiettezza perfino un rappresentante delle forze dell’ordine ci ha messo in guardia dicendo che ci eravamo imbarcati in qualcosa di più grande di noi, come a dire che i poteri forti legati al fenomeno del caporalato, cioè molte aziende agricole, alcuni rappresentanti di istituzioni locali e perfino qualche sindacalista, non avrebbero certo preso a cuore la lotta per i diritti, ma anzi avrebbero tentato in tutto i modi di ostacolarla.

E, per molti versi, così è stato. Ci sono stati giorni di grande tensione in cui gli stessi braccianti, confusi dalle notizie tendenziose e dagli atteggiamenti contraddittori di alcuni soggetti coinvolti, hanno pensato che quelli tra loro che avevano dato vita allo sciopero fossero pagati da noi o dalle altre associazioni che lavorano al progetto.

Ma come era possibile essere giunti ad un tale livello di diffidenza? Sono volate minacce ed abbiamo visto girare coltelli e spranghe: la disperazione sembrava davvero aver preso il sopravvento. Le parti sembravano invertite e mi sentivo spaesata, a tratti impaurita.

Qualcuno aveva tentato di convincere i lavoratori dell’esistenza di ingenti somme di denaro concesse dal Comune e trattenute da noi volontari. Con la complicità della penuria dei raccolti, delle scarse occasioni di guadagno e dei caporali che spesso si sono dati alla fuga senza corrispondere la paga maturata, la situazione emotiva ed economica dei braccianti sembrava insostenibile.

Per fortuna, a poco a poco, con la pazienza, la voglia di comunicare e di condividere, la capacità di ragionare con ciascuno di loro, ribattendo ad ogni dubbio, ad ogni richiesta, ad ogni incertezza, nel tentativo di dare risposte che potessero tranquillizzare e restituire un minimo di speranza, questa delicata fase è stata superata. Sono state avviate ulteriori trattative nella speranza di ottenere l’interessamento delle aziende agricole affinché concedessero acqua calda, acqua potabile e condizioni di lavoro dignitose.

Il mio turno si è concluso proprio nel momento di massima esasperazione e tensione, ma no-nostante ciò non sono stata contenta di lasciare il campo. E anche quest’anno, durante il tragitto che separava Nardò dall’inizio della mia vacanza , mi sono chiesta come mi sentirei se come tutti loro fossi costretta a viaggiare per giorni in territori lontani dalla mia terra e dai miei affetti, con la assoluta certezza di non essere la benvenuta, privata dei diritti più elementari, un riparo, acqua potabile, acqua calda per lavarmi e una giusta paga commisurata al mio lavoro.

All’inizio di settembre è iniziato lo sgombero della Masseria. L’Amministrazione comunale di Nardò, infatti, ha deciso di non prevedere alcuna proroga alla data di chiusura stabilita per il 31 agosto. Tutto sotto il silenzio delle Istituzioni (Prefetto, Ministero degli interni, Regione, Provincia), della stampa e della Chiesa locale e del suo vescovo.

E poco importa se, quelle persone non hanno le risorse economiche per spostarsi o per trovare altro ricovero, non hanno un posto dove andare, non sanno cosa fare. Si cancella la Masseria, ma il caporalato resta. Si sposta da una zona all’altra, da un raccolto ad un altro. Ma resta. E intanto a Nardò restano anche 150 persone, che non sanno dove andare.

* Segreteria del Gruppo romano di Noi Siamo Chiesa, coordinatrice del Blog “Amore Negato” su celibato e “donne dei preti”, ospitato dal sito de “Il Dialogo”