Il modello cinese oltre l’economia

Gabriele Battaglia
www.peacereporter.net

Ogni superpotenza produce anche una cultura che tende a universalizzarsi: sarà così anche per la Cina?

Cosa può trasmettere la Cina all’Occidente, soldi a parte? È una domanda che non può più essere elusa, data l’entrata in grande stile del Dragone sulla scena del mondo. È bene sempre specificare che per i cinesi non si tratta di un ingresso da parvenu. Per loro non è che un ritorno dovuto e necessario: negli ultimi venti secoli, la Cina intesa come civiltà è stata più arretrata dell’Occidente solo nel corso degli ultimi due.

Dopo aver ripreso il treno da cui era scesa, in trent’anni di tappe forzate, il Dragone appare ora alternativamente come una minaccia o un potenziale salvatore delle nostre derelitte economie. Ma non ha conquistato i cuori, come suol dirsi: per un occidentale “democratico”, Pechino resta sovente la capitale di una dittatura e della pena di morte.

Eppure non è mai successo, nella storia umana, che a uno spostamento del baricentro economico del mondo non corrispondesse anche una migrazione culturale, degli immaginari, del soft power. Gli Usa ci hanno dato il piano Marshall e anche Hollywood, il primo ci ha riempito la pancia, la seconda il cervello.

Cosa può essere quindi trasferito a noi del “modello cinese”?

Nel suo Adam Smith a Pechino (2008), Giovanni Arrighi, un non-sinologo, parlava di un modello di crescita asiatico più equilibrato e meno diseguale di quello occidentale e contrapponeva alla rivoluzione industriale britannica una “rivoluzione industriosa” cinese, basata sullo sviluppo graduale dell’agricoltura e poi del mercato interno invece che sul commercio imposto in forma coloniale. Sembra un paradosso quando si pensa alla natura export-oriented della “fabbrica del mondo”, ma è pure un fatto che la Cina non conquista mercati esportando “guerre umanitarie”. Un modello, quello cinese, che secondo Arrighi affondava le radici nella tradizione plurimillenaria del Celeste Impero e aveva assunto nuova vitalità con le rivoluzioni anticoloniali e la fine dell’egemonia Usa.

Oggi Zhao Suisheng, scienziato politico statunitense nato cinese, nega le potenzialità universalistiche del modello cinese, perché basato su alcuni presupposti non esportabili.

Come sottolinea nel testo ripreso da Chinafiles: “In primo luogo, le dimensioni della Cina implicano che il paese ha (e ha avuto) le potenzialità di sviluppo per un grande mercato interno che promuove la competizione e attrae l’interesse e gli investimenti dei paesi esteri. Tra i paesi in via di sviluppo, solo gli Stati Uniti nell’Ottocento e l’India nel XXI secolo hanno avuto un simile vantaggio ‘territoriale’. In secondo luogo, grazie alla disponibilità di manodopera, la Cina ha potuto seguire una strategia di sviluppo socialista ad alta intensità di capitale; quando la Cina ha infine transitato verso una strategia di sviluppo ad alta intensità di manodopera, i risultati sono stati esplosivi. In terzo luogo, la Cina, in quanto economia in via di transizione, ha mantenuto e ricostituito un sistema politico gerarchico-autoritario che è stato attivamente adottato nella nuova economia di mercato. Ognuna di queste caratteristiche, presa da sola, è potenzialmente importante e unica dal momento che nessun altro paese è altrettanto vasto, possiede un tale vantaggio comparato o gestisce un sistema politico lontanamente simile a quello cinese.”

Ma siamo sicuri che sia proprio un modello economico che andiamo cercando in Cina?

Il Dragone stesso, nel tentativo di mitigare gli effetti dirompenti della crescita economica, sta cercando di recuperare aspetti della propria cultura tradizionale messi in disparte dal maoismo prima e dal turbocapitalismo dopo. Il riferimento più chiaro è al pensiero confuciano, eminentemente politico-morale perché nato con l’intento di ristabilire ordine in un’epoca di caos. Al di là della volgarizzazione messa in atto dal regime cinese (l'”armonia”), il confucianesimo è oggi al centro delle riflessioni di molti pensatori cinesi e non, come il canadese Daniel A Bell, il cui China’s New Confucianism: Politics and Everyday Life in a Changing Society è stato poco meno che un best-seller.

In un epoca in cui appare chiaro il fallimento del pensiero neoliberista e del mercato come unico regolatore sociale, appaiono per esempio utili i lavori di studiosi confuciani come Shen Hong sulla famiglia come nucleo base su cui fondare le analisi economiche oppure, in etica della medicina, quelli di Fan Riping sull’importanza dei processi decisionali presi all’interno della famiglia quando si tratta di decidere le cure per un paziente.

Non siamo del resto del tutto sguarniti di fronte a questi insegnamenti. Un sinologo italiano, Nevio Capodagli, ha di recente messo in rilievo il nesso tra il concetto di “ren” (umanità) confuciano e quello di “virtù” in Dante. Sullo sfondo, una frase che ci suona familiare: “Ama il prossimo tuo, come te stesso”.