Ripensare la globalizzazione

Augusto Cavadi
www.cronachelaiche.it

Uno sguardo d’insieme. La globalizzazione non è acefala: sta avvenendo nel nome di una civiltà e all’insegna della sua filosofia dominante. La civiltà occidentale si espande in nome dell’antropocentrismo nichilistico: in nome di una visione del mondo per cui il soggetto umano è unico donatore di senso e, ai suoi occhi onnipotenti, la differenza fra l’essere e il nulla appare irrilevante.

Non c’ è nessuna possibilità di umanizzare il processo globalizzatore se non si rifonda la sua prospettiva teoretica di base, rivedendo radicalmente sia l’antropocentrismo che il nichilismo. L’uomo si è sinora autointepretato, almeno da Francesco Bacone ad oggi, come il ‘padrone’ dell’essere extra-mentale: si tratta adesso di ripensarsi come l’esegeta di quel testo – in sé inesauribile – che è la realtà in tutta la sua estensione e profondità (dunque sicuramente ciò che esiste fisicamente, ma senza escludere a priori anche ciò che possa esistere ultrafisicamente).

Quella parte dell’umanità che possiede attualmente le redini della storia economica e politica – protagonista, e vittima, di una concezione nichilistica – non cerca più l’essere perché ha cancellato l’ipotesi di una dimensione metafisica e ha ridotto la dimensione fisica a oggetto di volontà di potenza: tratta l’essere come se fosse omologabile al nulla.

A questa globalizzazione nichilistica si oppone, sterilmente, l’identitarismo tribale di varie culture etniche, chiese, scuole di pensiero, movimenti politici: l’essere non viene cercato perché ci si illude di averlo catturato una volta e per sempre in maniera integrale (integralismo) e indiscutibile (fondamentalismo).

Lavorare per un’ispirazione ontologica della globalizzazione significa realizzare e diffondere un atteggiamento zetetico: ciò che è, in quanto è, non va deprezzato né monopolizzato illusoriamente, ma indagato e decifrato incessantemente con tutte le facoltà sensoriali, intuitive ed argomentative di cui la specie umana è capace. L’essere nella sua immensità – che come il Dio di Agostino è più intimo a noi di noi stessi e più altro di ogni alterità – costituisce il riferimento vitale di quell’essere parziale e precario che siamo noi: noi siamo dall’essere, nell’essere e per l’essere.

L’essere va conosciuto, rispettato, guardato, riguardato: ma anche amato. Felicità è amare ciò che è per quello che è (e non per quello che difetta di essere). Qui la tradizione filosofica occidentale mostra una certa inadeguatezza: insegna ad amare chi è amabile, ma si ferma davanti a chi (sfigurato nel volto o nell’anima) ha particolare indigenza d’amore proprio perché non è amabile.

Non sarebbe dunque di poco rilievo se la tradizione filosofica di matrice greco-romana si aprisse ad altre esperienze sapienziali, come la biblica. Il vangelo originario di Gesù di Nazareth, ad esempio, è una scuola efficace di amore agapico: considerato da questa angolazione, lungi dal presentarsi in concorrenza con la filosofia, può risultare, nella diversità strutturale, ad essa complementare.

Qui bisogna essere chiari. Il cristianesimo storico, nella misura in cui condivide l’aspirazione proselitistica delle altre religioni organizzate, può risultare un ostacolo alla globalizzazione zetetico–ontologica e mettersi al servizio di globalizzazioni tribalistiche (che non cessano di essere tali sono perché tendono a farsi imperialistiche). Ma il vangelo di Gesù può risvegliare, come ha riconosciuto in alcune sue pagine perfino Nietzsche, l’esperienza dell’amore universale.

Non al modo delle morali precettistiche di stampo filosofico – pedagogico (anche se a questo si è ridotto il vangelo nell’opinione comune e, prima ancora, nella presentazione di quasi tutti gli esponenti delle chiese cristiane), ma come annunzio rassicurante prima, responsabilizzante dopo. Cristo ha attraversato le strade del mondo per rassicurare ciascuna persona di essere l’oggetto di un amore gratuito: e, proprio per questo, consentendole di diventare a sua volta soggetto di amore altrettanto gratuito.

Indicazioni terapeutiche. La filosofia non ha mai inciso profondamente nelle vicende storiche: meno che mai può illudersi di incidervi oggi. Tuttavia, nel groviglio delle concause che indirizzano l’umanità in una direzione piuttosto che in un’altra, gioca un suo – sia pur modesto – ruolo: da qui la responsabilità, da parte di chi pensa, di dire ciò che ritiene essere vero.

La prima verità da stabilire è demistificare la retorica della globalizzazione. In realtà, infatti, non di globalizzazione si tratta ma di occidentalizzazione del globo: “la velocizzazione dell’informazione accorcia le distanze e annichilisce lo spazio, rendendo possibile un movimento vorticoso di capitali che non ha bisogno di essere localizzato. Di fronte al Cyberspazio ci sono almeno miliardi di uomini che non conoscono un sistema di trasmissione dell’informazione come il nostro”.

La seconda verità, impopolare a destra quanto a sinistra, è che questa occidentalizzazione non è solo una benedizione ma neppure esclusivamente una maledizione. Molto succintamente e quasi brutalmente: è costruttiva dal punto di vista del metodo e dei mezzi (esportiamo pensiero critico, razionalità scientifica, regole democratiche, tecnologia…), distruttiva dal punto di vista dei contenuti e dei fini (abbiamo usato la filosofia per autoincensarci, la democrazia per legittimare la supremazia sui deboli, la tecnologia per moltiplicare i profitti a scapito degli sfruttati…).

Una terza verità è che l’uomo non è per nulla il centro dell’universo, ma neppure un incidente di percorso nell’evoluzione: può perseguire la felicità individuale e collettiva aprendosi all’esperienza molteplice e palinsestica del reale. Deposto ogni delirio di onnipotenza, l’uomo occidentale deve recuperare “la certezza che ‘qualcosa’ resiste alle nostre fantasie di dominio della ‘realtà’ ”: questo ‘qualcosa’ (certamente la Natura, ipoteticamente il Fondamento divino della Natura) è un limite, ma anche un riferimento per il pensiero e un criterio per l’azione. Dunque: “se intendiamo separare l’uomo dalla natura, l’uomo non esiste”; ma ciò non equivale necessariamente a coltivare il folle progetto di “abbattere le barriere che abbiamo creato” – o meglio: che abbiamo trovato – “tra l’umano, l’animale e la macchina”.

Una quarta verità è che il rapporto fra l’essere umano e l’essere che lo ‘abbraccia’ (lo precede, lo avvolge, gli sopravvive) coinvolge non solo l’intelligenza ma l’intera gamma delle potenzialità esistenziali: dall’intuizione poetica alla sensibilità estetica, dal bisogno di riconoscimento al desiderio passionale, dalla memoria inconscia alla progettazione tecnica. La maggior parte dell’umanità nasce, vive e muore al di sotto delle sue potenzialità e, proprio per questo, non sperimenta quello stato di risveglio che assomiglia da vicino a ciò che comunemente chiamiamo felicità.

Fare esperienza plenaria dell’essere significa anche attuare, e con ciò scoprire, la propria possibilità di gioire cogliendo i nessi logici ‘oggettivi’ fra i numeri; fruendo della dolcezza musicale di Imagine; accarezzando la bastardina che ti scondinzola ai piedi; immergendoti nel silenzio della comunione intenzionale col cuore del Tutto. Significa, ancora, trascendere queste stesse esperienze ‘erotiche’ (nell’accezione filosofico-platonica) e accedere, almeno puntualmente, a qualche esperienza ‘agapica’ (nell’accezione teologico-biblica): là dove si gioisce disinteressatamente della gioia altrui perché, anche a costo di un’eventuale autolimitazione, in qualche modo si è riusciti a riparare un’ingiustizia; a restituire una speranza di guarigione biologica o psichica; a far recuperare la fiducia nella propria intelligenza a un bambino disadattato; a far provare l’ebbrezza di un orgasmo, sognato come utopico, a una persona abitualmente rattrappita nella disistima di sé.