Riprendiamoci la parola, a viso scoperto

Stefano Ciccone

L’assemblea che abbiamo promosso per venerdì 21 ottobre, presso la città dell’altra economia si intitolava “Dopo il 15 ottobre – Riprendiamoci la parola, a viso scoperto”.
Ha visto una partecipazione forse imprevista date le nostre forze. Chi ha il vizio da assemblea ha contato un centinaio di persone che hanno scelto di venire ad ascoltare e parlare. Donne e uomini di generazioni e culture politiche diverse, molti fuori dalla politica attiva, molti impegnati in organizzazioni sindacali, collettivi studenteschi, comitati e associazioni, anche direttamente impegnati nel coordinamento 15 ottobre.

Forse anche perché questo incontro tentava di riempire un vuoto. Dopo la giornata di sabato 15, disastrosa e al tempo stesso segno di una grande potenzialità, in molti e molte ci siamo trovati davanti ai video in rete e ai blog senza occasioni collettive di confronto e condivisione. Anche qui si rivela un limite delle organizzazioni promotrici della giornata. Tra i pochi altri appuntamenti l’assemblea degli “accampati” a piazza S.Croce in Gerusalemme e l’assemblea in contemporanea alla nostra dell’area di Action.
Possiamo quindi dire di essere molto soddisfatti/e.  Eppure, dopo l’incontro, era diffusa una sensazione di insoddisfazione e frustrazione per la difficoltà a farne emergere le ragioni,  la fastidiosa sensazione di doverricominciare ogni volta da capo a spiegare che nonviolenza non vuol dire rinuncia, moderatismo, passività, pacificazione dei conflitti.

È stato certamente anche per un nostro errore: la giusta volontà di ascoltare e di costruire uno spazio di condivisione di vissuti di chi sarebbe venuto ci ha portanti a non esplicitare in modo netto un punto di vista, una riflessione, un approccio.

E invece, proprio nell’incontro alla città dell’altra economia, abbiamo concordato che di questo c’è bisogno: mostrare un’alternativa possibile, riproporre una critica delle dinamiche gerarchiche, una memoria di pratiche che hanno tentato di costruire un nesso tra mezzi e fini, tra la propria idea di società e il proprio linguaggio, il proprio modo di decidere e di lottare, offrire un punto di vista che esca dalle secche della discussione su violenza si  o no e o delle analisi dietrologiche o strategiche sul risiko degli scontri.

Insomma non basta una posizione un po’ “equilibrista” di rifiuto della violenza come “inopportuna” o in quanto “espressione di un percorso non condiviso”. È necessaria una nuova radicalità senza complicità.

Non ci  basta riconoscere, come è vero, che la messa in campo di forme di lotta violente impedisce l’allargamento della mobilitazione e favorisce le campagne di stampa che cancellano le ragioni della mobilitazione.

Vogliamo che i nostri gesti, le nostre parole, siano capaci di una maggiore radicalità, che rompano con il  conformismo al militarismo, al virilismo, all’estetica del gesto atletico che, non a caso, si riproducono negli stadi.

La giornata di sabato ha segnato la fine dell’illusione di poter giocare con la rappresentazione simbolica della violenza senza subirne l’egemonia.

È finita l’ipocrisia di considerare la scelta della violenza come “una pratica tra le altre” e lasciare che qualcuno “si sfoghi” a margine del corteo. La messa in gioco della violenza ha sempre l’effetto di sovrapporsi e pregiudicare altre pratiche, per minacciare l’incolumità di tutti e per stravolgere il terreno di impegno e le priorità condivisi e dunque non basta scegliere di non praticarla: va ingaggiato un conflitto politico e culturale per criticarla. Il rifiuto di dividere in buoni e cattivi è una strategia ipocrita che sfugge alla necessità di esprimere un giudizio politico.

Prima ancora della dimensione materiale è una sconfitta la subalternità all’immaginario della violenza: l’estetica del gesto contro la costruzione del processo, l’uniformità delle “falangi” schierate e in divisa contro la pluralità e l’esplicitazione dei conflitti, la delega al leader o agli “esperti” contro la costruzione di pratiche partecipate, la conquista delle prime pagine che occulta la pluralità delle storie e delle proposte in campo, la riduzione del conflitto a scontro tra due muri che, al tempo stesso, nega lo spazio per esplicitare differenze e conflitti all’interno del proprio campo.

Il richiamo alla retorica del tradimento, la logica dello schieramento, la negazione d ci fanno quasi più orrore dei cassonetti bruciati perché sono esplicita rinuncia al conflitto, e alla pluralità.
Le frasi che abbiamo scelto: “se non posso ballare non è la mia rivoluzione”, “trasformare la rabbia in politica” volevano proprio sottrarsi a quell’immaginario. Rifiutare la retorica un po’ paternalista della rabbia come giustificazione alla violenza, rifiutare i riti un po’ lugubri di chi ama giocare alla guerra, rifiutare di delegare “a chi se ne intende e a chi se la sente” di determinare gli spazi in cui manifestare.

Rifiutare la specularità e la subalternità con l’avversario: il ministro che traccia la linea rossa da penetrare, lo schieramento di polizia da fronteggiare…

Rifiutare l’altro luogo comune, emerso anche durante l’assemblea, di una violenza come parte della natura umana. Certo: nelle pulsioni  umane ci sono la rabbia, l’aggressività…  Ma proprio la forma in cui si esprimono sono frutto della cultura, e di modelli imposti. Abbiamo imparato a non accettare come “naturali” ruoli, attitudini, pulsioni. Il testosterone, insomma, non è un destino che rende gli uomini succubi dell’adrenalina che si diffonde in occasione degli scontri, così come per le donne non è un destino l’attitudine alla cura.

Le donne che in armi affrontano virilmente lo scontro non sovvertono questo schema ma ripropongono in forme aggiornate la vecchissima prospettiva della omologazione. E non le preferiamo alle donne manager.

Il vuoto politico si mostra non solo nell’assenza di occasioni di discussione sul trauma vissuto da chi ha manifestato ma anche nell’assenza di iniziative politiche concrete per giungere all’accertamento delle responsabilità nella gestione dell’ordine pubblico. Abbiamo per questo deciso di intraprendere un’ iniziativa nei confronti del Prefetto, del questore, del Sindaco di Roma e del Ministero degli Interni per l’inosservanza dei protocolli previsti e per la mancata messa in atto delle azioni a tutela dei manifestanti, dei cittadini e dei beni comuni della città.

Nell’incontro abbiamo detto quindi che le forme politiche non sono un accessorio ma un contenuto. Che la violenza o la disponibilità allo scontro non sono sintomo di radicalità e che la radicalità non consiste nel pensare impossibile il cambiamento ma al contrario nel riaffermare che la politica può e deve pensare la trasformazione.

In questo senso la discussione su forme e linguaggi del conflitto è strettamente legata a una cultura politica che non separa conflitto sociale e governo.

Abbiamo, insomma molto da fare:
  • provare a produrre  materiale che si sforzi di rendere il senso di una discussione che non ha niente a che fare con strategie e tattiche di piazza ma con l’idea di socialità e di libertà che vogliamo costruire , provare acostruire un dialogo con chi, nell’università, nelle scuole, nelle vertenze tematiche e territoriali oggi si interroga su quello che è accaduto e su come non ripiegarsi nello schema: violenza, repressione, lotta alla repressione.
  • giungere ad un altro appuntamento in cui approfondire ed esplicitare meglio gli spunti emersi
  • ascoltare cosa si produce nei luoghi che tentano di sperimentare linguaggi e pratiche innovative
  • proporre un’iniziativa che pretenda una risposta dai responsabili istituzionali del disastro di Roma.
Forse le nostre forze non sono sufficienti a questo scopo. Forse l’assunzione di missioni velleitarie è parte di un’idea della politica da superare. Anche tra noi, poi, è necessario allargare responsabilità, partecipazione condividere e costruire autorevolezza.

I tanti indirizzi email lasciati durante l’incontro, i messaggi ricevuti prima e dopo li consideriamo una domanda ma anche una risorsa.

Riprendiamoci la politica

———————————–

No tav: esempi di resistenza

Mariavittoria Orsolato
www.altrenotizie.org

Dopo quanto successo lo scorso 15 ottobre a Roma, il dibattito pubblico si è concentrato – con risultati discutibili – su quali siano i limiti del dissenso, su come sia giusto manifestare, su quali debbano e non debbano essere le pratiche da utilizzare per contrastare una terribile crisi economica e politica che tutti riconoscono. Dato il livello di scontro raggiunto alla manifestazione “degli indignados”, inevitabile che le narrazioni della giornata si concentrassero sul binomio manicheo “violenza/non violenza” e che si perdesse di vista il fatto che, giunti al punto di disagio sociale in cui siamo, l’azione avrebbe necessariamente preso il posto della semplice mobilitazione.

Si è speculato su infiltrati, black bloc e borgatari rimbecilliti e, nella corsa a prospettare il futuribile più nero, si è spesso tirato in ballo – La Repubblica su tutti – il movimento No Tav come possibilissimo ricettacolo di frange sovversive. Una settimana dopo, la coraggiosa sacca di resistenza che da 22 anni protesta contro l’Alta Velocità e la costosissima devastazione della Val di Susa, ha dimostrato la miopia di molte affermazioni.

Stando alla stampa mainstream, alla manifestazione di ieri si sarebbe dovuti arrivare con le peggiori intenzioni: tutti concordi nel dire che la protesta No Tav ammicca ai cosiddetti “violenti” perché, come afferma la redazione torinese di Repubblica “è convinta che le azioni estreme dell’ala dura possano utilmente garantire visibilità alla causa”. Durante la mattinata 419 no tav sono stati identificati, 286 il numero dei veicoli controllati e 3 le persone denunciate a piede libero; lo schieramento delle forze dell’ordine era imponente – circa 2000 unità a presidiare la zona rossa del cantiere – e le strade per raggiungere la valle pattugliatissime.

C’erano addirittura i lince (i superblindati in dotazione all’esercito) ma, probabilmente anche perché lo Stato deve oltre 30.000 ore di straordinari non pagati agli agenti impegnati a Chiomonte, i tanto attesi scontri tra manifestanti e polizia non si sono verificati. Il teatro di quello che molti avrebbero voluto fosse un secondo tempo di quanto visto a Roma, affollato per l’occasione da troupe giornalistiche eterogenee, non ha infatti regalato alle telecamere la “violenza” da tutti prospettata e le concitate dirette dalla valle hanno chiuso in fretta e mani vuote. Il perché si spiega facilmente con la cronaca di quello che è stato il 23 ottobre dei No Tav.

Concentrati nel piazzale del campo sportivo di Giaglione, gli almeno 2.000 manifestanti (secondo fonti interne, 1500 per la questura) hanno improvvisato un’assemblea per decidere come procedere nel perseguire l’obiettivo dichiarato da settimane e ribadito all’indomani dei fatti romani: tagliare le reti che circondano il cantiere ferroviario che sta letteralmente scippando preziose risorse alla collettività. Partiti con tenaglie e cesoie alla mano si dirigono verso la zona rossa, un’aria plurirecintata in località Maddalena, gridando che tagliare le reti non è un reato. Riescono a passare la prima recinzione grazie all’azione delle donne valsusine, si dividono in tre spezzoni per aggirare il blocco sulla strada principale e arrivati dinanzi alla seconda recinzione eludono anche quella senza provare a forzarla e raggiungono la baita Clarea – acquistata legittimamente dai No Tav un anno fa per intralciare i progetti dell’opera – dove pranzano tranquillamente e indicono un’ulteriore assemblea per tirare le somme della giornata.

“Il popolo No Tav, con una partecipazione enorme, è riuscito ad entrare nella zona rossa, bypassando i divieti e tagliando le reti poste da un’imponente dispositivo di sicurezza. La Val di Susa si è ripresa la sua terra impartendo lezioni a tutto l’apparato politico e mediatico che nei giorni scorsi aveva cercato di screditare in tutti i modi possibili il movimento”, questo il riassunto della giornata assolutamente pacifica di ieri che fa il sito ufficiale www.notav.info

Esercitando la semplice disobbedienza civile, i valsusini sono riusciti a dimostrare all’Italia come imporsi sulle politiche che si considerano sbagliate e verso cui si sente il dovere di ribellarsi. Una ribellione che pur comportando azioni concrete verso obiettivi materiali, può raccogliere il plauso e l’appoggio di cui quest’embrione di movimento anticapitalista necessita dopo il 15 ottobre. Come recita la definizione di wikipedia, infatti: “Se si parte dal presupposto che lo stato è una costruzione umana, che non è infallibile, e che è diritto dovere dei cittadini di vigilare affinché esso non abusi del suo potere, la disobbedienza civile appare salvifica e meritoria”.

Ed è da questa meritorietà che il movimento civile dovrebbe partire per ridiscutere le sue pratiche e organizzarsi per essere realmente incisivi sull’andamento socioeconomico e politico nazionale. Nessuno dei presenti ieri al corteo ha dimenticato la battaglia del 3 luglio scorso, quando i poliziotti lanciarono centinaia di lacrimogeni e i manifestanti si difesero con centinaia di pietre, ma i No Tav stavolta hanno scelto di dialogare con gli agenti, di non dar loro alcun pretesto per esercitare la forza, hanno optato per il buon senso. Senza rinunciare all’azione diretta e concreta che in molti avocano per dare una risposta efficace allo stato di degrado in cui il Pese è scivolato.