Governo tecnico? Grazie no

Francesco Piccioni
www.ilmanifesto.it

«Presto, un governo tecnico!» Il grido che sale da Confindustria, Abi, opposizione parlamentare e malpancisti del Pdl è ormai un coro assordante. Ma cosa dovrebbe fare un governo del genere? E chi sarebbe quella «figura al di sopra delle parti» che potrebbe riscuotere contemporaneamente i voti bipartisan nel parlamento italiano nonché la fiducia delle istituzioni europee (senza dimenticare quella ben più volatile dei mercati)?

Il nome più cliccato è Mario Monti, ex rettore e presidente dell’università Bocconi. Poi indicato dal primo governo di centrodestra come commissario europeo, presidente continentale della Commissione Trilaterale (fondata nel 1973 da David Rockefeller) e membro del comitato direttivo del Gruppo Bilderberg. Dal 2005 è International Advisor per Goldman Sachs. Sopra le parti, insomma…

Il programma, invece, scivola via dall’attenzione, ben rimpannucciato sotto la parola-coperta-di-linus degli ultimi 20 anni: «riforme». Eppure il programma c’è: chiaro, strutturato, scolpito come le tavole della legge.

In un lungo editoriale sul Corsera, la scorsa settimana, Monti ha squadernato le ragioni della non credibilità di Berlusconi evidenziando la distanza delle «convinzioni profonde» del Cavaliere da quelle condivise dagli altri leader europei. Sull’euro come sulle «riforme», sulla durezza delle misure da prendere e sulla necessità di «presentarle in modo convincente ai cittadini».

Ma soprattutto sul tema centrale di questa fase storica: «il governo economico» continentale che «si sta creando». Un compito cui l’Italia non sta contribuendo da protagonista, ma da soggetto passivo, che «improvvisa» nel tentativo di recepire forme di governo in grado di «disciplinare» il paese. Il rischio, palese nelle sparate berlusconiane e ancor più in quelle leghiste, è vedere il paese governato ancora da una classe dirigente «populista» e «distaccata dall’Europa».

Questa è la pars destruens che motiva la necessità di una «svolta radicale» nella gestione – liberale e liberista, sia chiaro – nel governo della cosa pubblica. Quella “costruens”, non è un segreto, è tratteggiata nella «lettera della Bce» – inviata in luglio da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi – rimasta a lungo «segreta» e articolata in tre semplici punti.

Le «misure per la crescita» devono comprendere la «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali»; un’«ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale» che renda gli accordi aziendali «più rilevanti rispetto agli altri livelli di contrattazione». Senza dimenticare l’«accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti» (e, in fondo, anche un «sistema di assicurazione dalla disoccupazione»).

La «sostenibilità delle finanze pubbliche» fa sempre la parte del leone, con l’«anticipo del pacchetto del luglio 2011» e l’obiettivo del «bilancio in pareggio nel 2013»; da realizzare – manco a dirlo – «principalmente attraverso i tagli di spesa». E quindi: «ulteriore intervento nel sistema pensionistico» («anzianità»), blocco del turnover nel pubblico impego e, «se necessario, riduzione degli stipendi». Persino il «pareggio di bilancio» nella Cosituzione e tante altre cosette che – onestamente – Berlusconi ha messo nei suoi disordinati elenchi di provvedimenti fatti, non fatti o malfatti.

Al terzo punto, infine, gli «indicatori di performance» per migliorare «l’efficienza amministrativa», l’abolizione delle province, l’accorpamento dei Comuni e tutte le frasi che sentite ripetere anche dal primo rottamatore che passa. Quando si parla di «governo tecnico», si parla di questo. E basta.

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Economia, democrazia, governo tecnico

Franco Astengo
www.paneacqua.eu

Prima di tutto una notizia, abbastanza occultata dai media: nonostante il tenace (e necessitato, per via giudiziaria) attaccamento alla poltrona da parte del Presidente del Consiglio, in Italia il governo tecnico c’è già. E’ formato, infatti, dagli ispettori del FMI inviati dalla gentile madame Lagarde: ci troviamo, in un paese, a sovranità limitata, sotto tutela, commissariato per dirla per intero

La conseguenza di questo stato di cose è immediata: un nuovo governo potrà essere rilegittimato democraticamente soltanto dal passaggio elettorale che, a questo punto, appare inevitabile e urgente. Nel corso di questa legislatura il sistema politico italiano ha subito una nuova trasformazione, una vera e propria “torsione” in senso anti-costituzionale e anti-democratico. E’ emersa, da parte di questo governo, una sostanziale incapacità nel definire efficaci e razionali modalità di relazione tra sovranità nazionale, quadro europeo di riferimento (indispensabile!), possibilità di affrontare i temi economici derivanti dalla crisi: non si è trattato, semplicemente, di una sostanziale acquiescenza e sudditanza della politica verso l’economia, come avviene nelle forme di liberismo spinto, ma di una peculiarità di questa destra, frutto dell’esercizio di una pericolosa variante del populismo.

A questo punto è necessario esprimere, se si vuol pensare davvero ad un’alternativa, la convinzione della necessità di un ritorno al “primato della politica”. Un ritorno al “primato della politica” che deve principiare, a mio modesto giudizio, da un’analisi relativa alla realtà del totale scollamento, verificatosi nel corso di questi anni, nel rapporto tra Governo e Parlamento , non colmato tra l’altro dall’assunzione di inedite responsabilità da parte del Presidente della Repubblica(un fenomeno avviatosi, comunque, molti anni fa, con l’introduzione del concetto di “decisionismo”, con l’abuso dei “decreti legge”, la modifica dei regolamenti parlamentari in particolare in relazione al voto segreto, ecc, ecc.).

In questa XV legislatura l’unico meccanismo di concreto raccordo tra Parlamento e Governo è stato rappresentato dalla reiterazione abnorme dell’istituto del voto di fiducia (un vero e proprio abuso: anche in questo caso, però il fenomeno arriva da lontano). L’esempio più eclatante però del vero e proprio “sfarinamento” del ruolo e delle funzioni del Parlamento si è avuto osservando il fenomeno della “transumanza” di deputati e senatori. Anche in questo caso è pleonastico osservare che non si tratta certo di una novità: ma si stanno superando tutti i limiti, considerando anche che ci troviamo di fronte ad un parlamento di “nominati” (torna qui anche il nodo del sistema elettorale) Si sono formati due nuovi gruppi parlamentari (FLI e Responsabili, un terzo sembra essere già in gestazione proprio in queste ore), si è verificata una vera e propria “ridda” di passaggi, con andata e ritorno, da tutti i gruppi parlamentari.

Un fenomeno verificatosi, per di più, all’interno di un Parlamento orbato da una parte rilevante della rappresentatività “politica” di una parte del Paese orientato a sinistra (repetita iuvant, in questo caso: la legge elettorale da rivedere..). Si è trattato, in sostanza, quasi di un ritorno al Parlamento dei “notabili” di ottocentesca memoria, quando ciascuno era eletto per sé e i gruppi si formavano all’interno delle Camere, senza collegamenti preventivi e trasparenti (si è perpetuata così, in forma molto spiccata, l’Italia dei “connubi” e dell’eterno trasformismo).

Il nocciolo di questa brutta vicenda può essere, allora così riassunto: il voto appare necessario ed urgente, ma una rilegittimazione del sistema appare ancora tutta da conquistare. Il punto vero da aggredire con forza, da subito, è quello della personalizzazione dell’agire politico, un fenomeno fortemente negativo che ha ormai preso piede anche a sinistra, attraverso anche il cedimento all’uso di meccanismi di selezione del personale politico importati da altri sistemi, affatto diversi da quello disegnato dalla nostra Costituzione Repubblicana (leggasi primarie).

Ritorna così, prepotentemente, il tema della natura e dell’itinerario di legittimazione sociale dei soggetti politici, dei partiti, che non possono più formarsi come accade ormai da molti anni, a tutti i livelli centrale e periferici, sulla somma delle ambizioni personali di alcuni “imprenditori politici”, oppure di gruppi di notabili, più o meno antichi (anche in questo caso non c’è rapporto con la capacità di riempire le piazze, non ci può limitare a contemplarle e a “goderle”: con questo sistema le piazze o le convention, magari iper reclamizzate da media pelosamente interessati, sono convocate esclusivamente attraverso meccanismo di tipo “fideistico”).

“Imprenditori politici” e “gruppi di notabili” in perenne lotta tra di loro, proprio perché è la loro “lotta”, esclusivamente rivolta alla supremazia personale e di gruppo, il solo “motore” possibile per la dinamica del sistema: ed è proprio questa anomalia che va corretta da subito. Non può essere la lotta tra i singoli ed i piccoli gruppi di potere il fattore esclusivo di dinamica del sistema! Occorre tornare alla piena legittimazione dei soggetti politici sulla base della rappresentatività di effettive “fratture sociali”.

Auguriamoci, dunque, l’avvento, al più presto di una nuova legislatura (che avrà comunque il difetto di essere sorta con questo sistema elettorale): dovrà trattarsi, però, della legislatura del ritorno al patriottismo repubblicano-costituzionale, dell’Europa politica come obiettivo prioritario, dell’abbandono della ricerca di una “materialità” di mutamento del sistema non collegato ad alcuna legittimazione popolare, del recupero della “centralità del Parlamento” nel rispetto dei ruoli istituzionali dei principali “attori di scena”, con l’esclusione definitiva dell’idea di affidarsi di nuovo a qualche “unto del signore”.