Ostacolo ai soccorsi di R.LaValle

Raniero La Valle
Rocca n° 22/2011

La catastrofe delle Cinque Terre (ma anche in Toscana) è una perfetta rappresentazione di quel genere letterario simbolico (e anche apocalittico) che attraverso la descrizione drammatizzata di un evento minore racconta una storia molto più reale e più vasta, o già accaduta o ancora da accadere.

L’allegoria dell’alluvione delle Cinque Terre, a saperla leggere, rinvia al rischio che tutto il Paese faccia la stessa fine, travolto dal fiume in piena di una economia impazzita, abbandonato a se stesso da una politica insensata e investito dai detriti di grandi ricchezze trasformate in mine vaganti e intralci ai soccorsi.

Il disastro della Liguria non è infatti per niente una catastrofe naturale. Certo, ha piovuto. Ma il territorio era stato appaltato a un’economia selvaggia, controlli e regole erano saltati, a Monterosso una piscina definita “opera di pubblico interesse” era stata piazzata sugli scogli a picco sul mare, i torrenti erano stati interrati e i fiumi trasformati in discariche, la sabbia portata via per le costruzioni autostradali, il lavoro della difficile terra era stato abbandonato, perché “produrre un quintale di vino alle Cinque Terre costa come cento quintali in Romagna”: non è da ieri, dice lo scrittore Maurizio Maggioni sul quotidiano genovese, ma sono vent’anni che Monterosso non esiste più. L’istituzione del Parco è finita in ruberie e manette, e la nuova, unica risorsa su cui si è fatto affidamento è stato il turismo, dimensionato su cinque milioni di presenze all’anno, e la gente stessa si è snaturata, ha chiuso con la sua storia; l’occasione della loro vita è stata il bed and breakfast.

L’Italia è lo stesso. Non è solo che piove a dirotto sui mercati. È che le difese sono state azzerate, la politica ha mistificato l’interesse pubblico, si sono perse le distinzioni tra fuorilegge e persone per bene, la bufera si è abbattuta sul Paese e quel Berlusconi che doveva rifare l’Italia ora, con la cocciuta difesa del suo potere e con la sua “maggioranza”, ha finito per essere solo un superstite abbarbicato a un’inferriata messa di traverso alle acque, a fare da ostacolo ai soccorsi; e anche questo è un reato.

Ma, tolto questo ostacolo, che fare? C’è qualcuno che comincia ad avere il coraggio di dire che è tutto il sistema messo su negli ultimi trent’anni che è sbagliato, è il capitalismo post-novecentesco che è fallito. Chi ha detto che il debito è sacro e anzi, con la solita secolarizzazione dei concetti che è il vizio dell’Occidente, è “sovrano”? Chi ha detto che le leggi dei mercati, della speculazione finanziaria, dei bilanci in pareggio, sono leggi di natura? E chi ha detto che la trascendenza e la scarsità del denaro devono essere al centro di tutto? Secondo il prof. Salvatore d’Agata c’è una rivoluzione copernicana da fare. Sapendo la storia, ci dice che se non fossero stati dimenticati i debiti non si sarebbe usciti con Roosevelt dalla crisi del ’29. Con i bilanci in pareggio non si sarebbe vinta la guerra contro il nazismo, non ci sarebbe stato il piano Marshall e non sarebbero state ricostruite né l’Italia né l’Europa. E come si permette “l’Europa” non solo di dirci che cosa dobbiamo fare entro domani, ma addirittura che cosa mettere nella nostra Costituzione, che ha finora resistito ad ogni oltraggio?

Questa idea della crisi economica come catastrofe naturale a cui si deve dare una risposta obbligata secondo leggi di natura, è la sconfitta più cocente e finale di tutto l’illuminismo europeo. Le classi dirigenti europee stanno infatti attuando alla lettera la tesi del grande economista reazionario Friedrich August von Hayek, secondo cui nessuna intelligenza può regolare la vita economica meglio di quanto lo possa fare il casuale gioco degli interessi privati, e secondo cui “l’uomo non è né sarà mai l’artefice del proprio destino”. Se qui il lavoro costa mille euro e in India dieci rupie, che ragione c’è di far sì che il lavoro resti in Italia?

La lettera della Banca centrale europea e la risposta ultraliberista del documento di Berlusconi non sono che la tomba dell’intelligenza europea, la resa alle imperscrutabili forze che, ben retribuite, ci governano, la rinunzia al cimento e alla responsabilità della politica. Troppo presto è stata liquidata la lezione del Novecento. E da lì occorre ripartire per costruire tutto di nuovo. Ci vogliono progettisti, architetti, capomastri ed operai, non certo rottamatori.

P.S. E’ ora in libreria il mio “Quel nostro Novecento” (edizioni Ponte alle Grazie) che forse è un promemoria utile per capire quello che accade.