Se la democrazia diventa un optional della finanza

Rossana Rossanda
il manifesto, 4 novembre 2011

Credevo che ci fosse un limite a tutto. Quando Papandreou ha proposto di sottoporre a referendum del popolo greco il «piano» di austerità che l’Europa gli impone (tagli a stipendi e salari e servizi pubblici nonché privatizzazione a tutto spiano) si poteva prevedere qualche impazienza da parte di Sarkozy e Merkel, che avevano trattato in camera caritatis il dimezzamento del debito greco con le banche. Essi sapevano bene che le dette banche ci avevano speculato allegramente sopra, gonfiandolo, come sapevano che Papandreou aveva chiesto al Parlamento la facoltà di negoziare, e che una volta dato il suo personale assenso, doveva passare per il suo governo e il parlamento (dove aveva tre voti di maggioranza). Ed era un diritto, moralmente anzi un dovere, chiedere al suo popolo un assenso per il conto immenso che veniva chiamato a pagare. Era un passaggio democratico elementare. No?

No. Francia e Germania sono andate su tutte le furie. Come si permetteva Papandreou di sottoporre il nostro piano ai cittadini che lo hanno eletto? È un tradimento. E non ci aveva detto niente! Papandreou per un po’ si è difeso, sì che glielo ho detto, o forse lo considerava ovvio, forse pensava che fare esprimere il paese su un suo proprio pesantissimo impegno fosse perfino rassicurante. Sì o no, i greci avrebbero deciso tra due mesi, nei quali sarebbero stati informati dei costi e delle conseguenze. Ma evidentemente la cancelliera tedesca e il presidente francese, cui l’Europa s’è consegnata, avrebbero preferito che prendesse tutto il potere dichiarando lo stato d’emergenza, invece che far parlare il paese: i popoli sono bestie; non sanno qual è il loro vero bene, se la Grecia va male è colpa sua, soltanto un suo abitante su sette pagava le tasse (e non era un armatore), non c’è parere da chiedergli, non rompano le palle, paghino. Quanto ai manifestanti, si mandi la polizia.

E per completare il fuoco di sbarramento hanno aggiunto: intanto noi non sganciamo un euro. Erano già caduti dalle nuvole scoprendo nel cuor dell’estate che la Grecia si era indebitata oltre il 120 del Pil. E non solo, aveva da ben cinque anni una «crescita negativa» (squisito eufemismo). Né i governi, né la commissione, né l’immensa burocrazia di Bruxelles se n’erano accorti, o se sì avevano taciuto; idem le banche, troppo intente a specularci sopra. Perché no? I singoli stati europei hanno dato loro ogni libertà di movimento, le hanno incoraggiate a diventare spregiudicatissime banche d’affari, e quando ne fanno proprio una grossa, invece di mandar loro i carabinieri, corrono a salvarle «per non pregiudicare ulteriormente l’economia».

In breve, la pressione è stata tale che Papandreou ha ritirato il referendum. La democrazia – in nome della quale bombardiamo dovunque ce lo chiedano – non conta là dove si tratta di soldi. Sui soldi si decide da soli, fra i più forti, e in separata sede. Davanti ai soldi la democrazia è un optional.

Nessun paese d’Europa ha gridato allo scandalo. Né la stampa, gioiello della democrazia. Non ho visto nessuna indignazione. Prendiamone atto.

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Grecia: parodia della Democrazia

Margherita Dean
www.peacereporter.net

Con 153 ‘sì’ e 145 ‘no’, ha vinto ‘un’ governo greco il voto di fiducia dei 298 deputati presenti in Parlamento a mezzanotte. ‘Un’ governo, appunto, perché non è dato sapere veramente quale. Formalmente si tratta dell’esecutivo di Ghiorgos Papandreou, primo ministro della Grecia dall’ottobre del 2009 che, dopo l’accordo sul debito greco raggiunto a Bruxelles il 27 ottobre, aveva chiesto il voto di fiducia.

C’è un elemento, tuttavia, che suscita interrogativi molto gravi, circa lo stato della democrazia ellenica: ieri si è votato per un governo la cui composizione era, al momento della votazione e permane, ignota. Papandreou, infatti, ha ottenuto la fiducia sulla promessa che si recherà, oggi a mezzogiorno, dal Presidente della Democrazia per avviare la formazione di un governo di ampio consenso dove, con ogni probabilità, egli non sarà Primo Ministro.

C’è un primo punto da notare: stante il rifiuto categorico alla fiducia del partito comunista (Kke), della coalizione di sinistra (Syriza) ma anche del partito di centro-destra (Nea democratia), il nuovo governo sarà, con probabilità, composto dal Pasok di Papandreou, dal Laos, partito di destra nazionalista e da due partiti che non esistevano quando il parlamento attuale si formò alle elezioni dell’ottobre 2009; si tratta dei neo-liberali del Disi, fuoriusciti dalla Nea democratia e dei riformisti del Diari, fuoriusciti dal Syriza. Per di più, non si può escludere la presenza, in seno al nuovo governo, di personalità non politiche, nel senso, per quanto qui rileva, di ‘saggi tecnici’ che mai hanno avuto a che fare con la normale procedura di una democrazia elettiva: la scelta e il controllo da parte degli elettori o, più semplicemente, elezioni.

Il secondo punto, che rende la votazione di questa notte una fosca parodia di ogni concetto di democrazia e sovranità nazionale, è lo scopo del governo che nascerà fra poche ore o giorni: il suo obiettivo altro non sarà che accontentare i creditori del Paese (Bce, Ue e Fmi).

Sia Papandreou che Evanghelos Venizelos, Ministro delle finanze, sono stati chiari in proposito: il neonato esecutivo dovrà assicurare la sesta e la settima tranche del prestito del 2010 (quest’ultima ammonta a 80 miliardi ed è attesa per il febbraio del 2012) e procedere alla firma dell’accordo del 27 ottobre. Solo allora, infatti, si potranno indire elezioni ”non prima, sarebbe troppo pericoloso per la Grecia”, dichiara il Primo ministro uscente, mentre Venizelos promette che entro febbraio si potrà procedere. In questo modo le elezioni assurgono, per le democrazia greca, a fatto da evitare, a elemento perturbatore, a evento sgradito ai mercati e alla troika.

È quest’ultima, infatti, a essersi rivelata il vero reggitore delle sorti greche. Dettando tempi e contenuti delle politiche economiche del Paese negli ultimi diciotto mesi, si è spinta fino a modificare il contenuto del referendum-plebiscito che, nel corso della settimana, Papandreou aveva vagheggiato. Ora impone i contenuti dell’opera del nuovo governo prima ancora che esso si formi. Il modo è sempre lo stesso: il ricatto, ovvero gli spettri della fuoriuscita dalla zona dell’euro e della bancarotta disordinata.

Sono molti i tabù che la crisi greca ha fatto superare, tre su tutti: la presenza in Eurolandia del Fmi, sempre più massiccia, ora anche in Italia, l’abbandono, coatto o volontario, dalla moneta unica e la libertà di un Paese di decidere della sua sorte. Dalle ingerenze economiche si è, pertanto, passati a quelle politiche.
Che i casi greci siano il monito per le Democrazie europee che ancora si vogliono salvare.

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Portogallo, la fine delle illusioni

Luca Galassi
www.peacereporter.net

Come sostiene il principale quotidiano economico del Paese, il Jornal de Negocios, il Portogallo ha vissuto la sua ultima estate di illusioni. “L’illusione di avere grandi banche private, industrie prospere, solide imprese nazionali”, scrive impietosamente sulla versione on-line del giornale l’analista economico Pedro Santos Guerreiros: “Il mondo non si divide tra ricchi e poveri, ma tra chi possiede capitali e chi debiti. Il Portogallo possiede debiti. I suoi banchieri, imprenditori, cittadini hanno debiti”. In una parola: il Paese è sull’orlo del baratro.

Vivere sull’orlo del baratro non è cosa semplice: una settimana fa, il primo ministro conservatore Pedro Passos Coelho annunicava solennemente una delle misure più dure per l’anno che verrà: i funzionari pubblici e i pensionati che guadagnano più di mille euro al mese non avranno tredicesima e quattordicesima, sia nel 2012 che nel 2013.

Il problema del Paese è quello di avere un’elite capitalista senza capitali. In parte perché gli espropri, dopo il 1975 (anno in cui terminarono quasi cinquant’anni di dittatura) non hanno ricevuto adeguata compensazione. Poi perché i dividendi del capitale, tenuto al sicuro in banche svizzere, sono stati distribuiti solo a pochi. In aggiunta, perché non si è voluto cedere il controllo delle quote all’estero. Infine, perché molte grandi imprese sono mal gestite. In borsa, la struttura aziendale si sta sgretolando al ritmo del 4 percento.

Aggrappato a una crescita, per il 2012, del 2,8 percento, tutelato a distanza dalla ‘troika’ (Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), che a maggio accordò un prestito da 78 miliardi di euro, precipitato in una situazione che lo stesso governo ha definito di ‘emergenza nazionale’, il cittadino portoghese si sveglia ogni giorno con notizie angoscianti. Giorni fa, Carlos Almeida, dell’Associazione nazionale pompe funebri (Anel) assicurava nella pubblicazione Informacao che tra il 20 e il 30 percento dei portoghesi contraggono debiti per pagare il funerale dei genitori, e che il panorama del settore peggiora di giorno in giorno. Lo Stato sopprimerà alcuni sussidi nelle assicurazioni sulla vita dei suoi dipendenti. Il ministero della Cultura annuncia che si ridurranno i giorni di ingressi gratis ai musei; le Ong che lavorano nella sanità smetteranno di ricevere sovvenzioni; verranno eliminati alcuni giorni festivi; gli imprenditori del settore privato potranno obbligare i lavoratori a rimanere una mezz’ora in più per aumentare la produttività.

Passos Coelho era saldo al potere alla fine di settembre, ed è ancora il leader politico più apprezzato in patria e all’estero. Nonostante questa settimana, secondo un sondaggio del settimanale Expresso, abbia perso qualche punto in popolarità, il suo partito Socialdemocratico, di centro-destra, è ancora la formazione più votata.

Il primo ministro ha detto che tasse, tagli ai sussidi e alla spesa verranno ulteriormente intensificati il prossimo anno. La disoccupazione salirà al 13,4 percento, il gettito fiscale scenderà di nuovo, i pagamenti del welfare saliranno e i consumi si contrarranno. La coalizione di centro destra ha i voti sufficienti ad applicare le misure draconiane, approvate anche dal partito socialista all’opposizione. Potrebbe non bastare, perché l’Unione europea ha avvertito dal G20: Lisbona si prepari a una nuova ondata di tagli. Il 24 novembre si terrà uno sciopero generale. E sono in molti a sperare che Lisbona non diventi una nuova Atene.