La Casta della guerra

Enrico Bellavia e Emanuele Lauria
la Repubblica, 11 novembre 2011

Ogni minuto che passa lo Stato brucia 50 mila euro in spese militari. Tre milioni l’ora, settantatré al giorno. L’orologio della Difesa non conosce soste, ignora gli allarmi della crisi, scandisce i tempi di un flusso finanziario continuo. Quello necessario a garantire un esercito di professionisti, gli armamenti, le missioni all’estero. E ad assicurare un ventaglio sempre più ampio di funzioni più o meno tradizionali: dalla vigilanza sulle discariche alle iniziative promozionali come feste e parate. Sono le cifre di un apparato di sicurezza interno ed internazionale di cui il governo può menar vanto, ma sono anche i numeri di un gigantesco business che alimenta sprechi e sperperi. Tagliato il traguardo dei due lustri della leva volontaria, il nuovo modello di Difesa varato nel 2000 mostra tutte le sue crepe. Additate, allo stesso modo, da pacifisti e osservatori militari accreditati.
Il totale delle spese per le forze armate e l’industria bellica, nel 2010, si è attestato sui 27 miliardi di euro. In questo comparto, per intenderci, lo Stato garantisce finanziamenti quattro volte superiori a quelli del fondo ordinario delle università. O, messa in un altro modo, appronta risorse più di tre volte superiori ai tagli deliberati per scuola e servizi. Come si arriva a questa cifra che fa a pugni con i propositi rigoristi dell’esecutivo?

La ragnatela della spesa

Ventisette miliardi è la somma indicata dal rapporto annuale del Sipri, un istituto internazionale indipendente che ha sede a Stoccolma. È un conto economico in crescita rispetto all’anno precedente, che tiene conto di una pluralità di voci che fanno lievitare il totale a una quota quasi doppia rispetto a quella, ufficiale, che compare nel bilancio della Difesa: il ministero guidato da Ignazio La Russa ha infatti una dotazione di 14,5 miliardi di euro, ai quali vanno aggiunti i 5,7 miliardi della funzione sicurezza garantita dai carabinieri e gli 1,5 miliardi delle missioni all’estero rifinanziate di sei mesi in sei mesi. Disseminati poi in mille altri capitoli ci sono le voci riconducibili alle spese militari ma che rientrano negli investimenti per la produzione di armi, mezzi e sofisticati congegni tecnologici a scopi bellici. Il solo ministero dello Sviluppo economico ha una quota di 3,5 miliardi per questa finalità ma nel settore della ricerca risorse sono destinate a fini collaterali anche nei capitoli del Miur. Allora, la domanda è: in che modo vengono utilizzati i fondi?

Comandanti e comandati

L’Italia è l’ottavo paese al mondo per spese militari, addirittura il quinto se si analizzano le uscite pro-capite, cioè divise per il numero di abitanti. Eppure il nostro Paese non è né la quinta né l’ottava potenza internazionale. Un dato di partenza su cui si interrogano in molti. Anche perché, lo Stato italiano, pur destinando solo lo 0,9 per cento del suo Pil alla difesa, ha un contingente militare che per dimensioni è secondo in Europa solo alla Francia. In realtà, le nostre forze armate presenti nei teatri dei conflitti, protagoniste dall’Aghanistan al Libano di missioni apprezzate a livello internazionale, non superano le 12 mila unità. Ma alle spalle di queste avanguardie d’eccellenza, c’è un apparato elefantiaco che conta 190 mila persone. Ed è la distribuzione di questo personale a suscitare qualche interrogativo. A partire dalla cifra dei graduati: 98 mila fra ufficiali e sottufficiali. In pratica, come rivelano Massimo Paolicelli e Francesco Vignarca nel libro “Il caro armato”, oggi fra esercito, marina e aeronautica i comandanti sono più dei comandati. In Italia abbiamo seicento fra generali e ammiragli: gli Stati Uniti, che pure vantano un apparato militare da un milione 400 mila uomini, hanno appena 900 figure di questo tipo. Quanto risponde questa struttura a esigenze strategiche e logiche di bilancio?

Precari in marcia

In tempo di crisi sono in tanti a ragionare di tagli. Perché, a fronte di chi va a rischiare la vita su scenari di guerra delicati con un’indennità di rischio che al massimo raddoppia lo stipendio, c’è un contingente di retroguardia che è diventato una fabbrica di illusioni. Abolita la leva obbligatoria, nelle forze armate hanno fatto ingresso volontari che restano in servizio da uno a quattro anni, al termine dei quali dovrebbero rimanere nei ranghi o passare ad altri corpi con una corsia preferenziale. Nonostante i cospicui investimenti sulla loro formazione, il 75 per cento rimane fuori e lo Stato deve procedere a nuovi reclutamenti. Per fortuna, dicono gli esperti, non c’è una crisi di vocazione, soprattutto al Sud dove è forte la fame di lavoro. Al punto da determinare, ad esempio, una mutazione genetica del corpo degli alpini, che fino a qualche anno fa era composto quasi esclusivamente da “padani” e oggi per il 70 per cento è costituito da meridionali. Curiosità che può far sorridere. Ma un fatto è certo: la vita da caserma tira ancora. Come dimostrano i dati del 2009: 16.300 posti a concorso per la ferma annuale, 70.444 domande. E per i 5.992 posti di ferma quadriennale, i concorrenti furono 24.339. Voci in netta controtendenza rispetto agli anni precedenti.

La mini naja

Eppure il governo, l’anno scorso, ha deciso di lanciare una campagna di avvicinamento all’esercito. L’ha chiamata mini-naja: inizialmente un progetto che prevedeva solo tre settimane di campus addestrativo riservato a 1.500 giovanissimi. Ma nel 2011 sono stati pubblicati già tre bandi da 2.500 posti. L’iniziativa ha avuto successo e andava incentivata, la tesi di La Russa. Ma c’è chi sospetta che dietro l’operazione ci siano motivi promozionali. È l’interrogativo sollevato dai Verdi ma anche dal sindacato di polizia Sap, che puntano l’indice su una spesa da 19,8 milioni di euro nel triennio 2010-2012. L’austerity avrebbe forse dovuto consigliare una destinazione diversa dei fondi. Soprattutto in un Paese che, specialmente ai vertici della sua struttura militare, continua ad avere un’organizzazione ponderosa. La fondazione Icsa, di cui è presidente Marco Minniti, nell’ultimo rapporto annuale si spinge oltre confini poco esplorati sinora. E attacca la proliferazione degli organismi di comando: oggi, scrive, «ci sono di fatto cinque stati maggiori, senza contare l’enorme staff del ministro, la cui organizzazione è stato oggetto di una riforma che tutto ha fatto tranne ridurne la consistenza a livelli di sobrietà. Occorre rivedere compiti, responsabilità e piani organici. Intervenire non con le forbici ma con la mannaia». Ma quali sono le sacche di privilegio che resistono nelle alte gerarchie militari?

Stellette d’oro

Fra gli ufficiali di rango elevato il turn-over è praticamente inesistente, con una progressione di carriera garantita dall’anzianità più che dal merito e con benefit inattaccabili: come gli alloggi riservati, fino a 600 metri quadrati di superficie, per 44 fra generali e ammiragli che possono beneficiare di servizio all-inclusive, comprensivo di battitura di tappeti e lucidatura dell’argenteria. Lo Stato, in pratica, paga pure la colf. Spesa: 3 milioni e mezzo l’anno. Per sei di loro pure un’indennità speciale da 409 mila euro dopo il pensionamento. Un beneficio, quest’ultimo, che spetta al capo di stato maggiore della difesa, ai tre capi di stato maggiore delle forze armate, al segretario generale della difesa e al comandante generale dell’arma dei carabinieri. Lo Stato si garantisce inoltre la possibilità di una chiamata in servizio di ufficiali e sottufficiali fino a cinque anni dopo il pensionamento. Un’opzione retribuita con regolare compenso, a prescindere dall’effettivo impiego dei beneficiari. E l’eventuale apporto ausiliario – evidentemente non tanto eventuale – costa 326 milioni di euro. Senza considerare che molti degli ufficiali di punta in congedo transitano poi negli enti statali che si occupano di armamenti: da Finmeccanica all’Augusta, dalla Selex all’Oto Melara. C’è un’oligarchia militare tuttora ossequiata e ben remunerata. E che viaggia anche comoda. Sfidando il periodo di ristrettezze, la Difesa si è recentemente dotata di 19 Maserati blindate da 100 mila euro l’una. Costose, sì: «Ma si premia pur sempre un’azienda automobilistica italiana», si è schermito La Russa.

Una macchina che perde pezzi

Le spese per il personale portano via quasi i due terzi delle risorse destinate all’attività delle forze armate: 9,5 dei 14 miliardi presenti nel bilancio della Difesa. La dieta imposta dall’esecutivo? Più ostentata che reale. E, come rileva il generale Leonardo Tricarico (ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e socio della Fondazione Icsa), i tagli non hanno abolito gli sprechi ma hanno inciso «sugli stanziamenti per addestramento, manutenzione e infrastrutture»: il relativo capitolo è stato ridotto del 18,2 per cento. Solo per l’arma blu, la sforbiciata ai finanziamenti comporterà un dimezzamento nel 2013 delle ore di volo. A cascata, il colpo di forbice del governo inciderà su spese vive come benzina e pezzi di meccanica per i mezzi in servizio. Con il paradosso illustrato da Paolicelli e Vignarca: ci sono 180 autoblindo Lince (i veicoli più utilizzati nelle missioni all’estero) fermi in officina ma sono partiti ordinativi per altri 1.150 mezzi. Fra mille difficoltà quotidiane, alle forze armate viene però chiesto di garantire servizi “civili” cari ai politici: in dieci anni il governo ha maturato debiti per 250 milioni di euro solo nel capitolo voli di Stato. È pesante, sul piano finanziario, la gestione di 30 mezzi aerei a disposizione di ministri e sottosegretari per ogni capriccio, fra cui un «indispensabile» spostamento da Linate a Malpensa fatto di recente con un jet proveniente da Roma. Fra gli ultimi acquisti della flotta, i super-elicotteri Av 139 da 49,8 milioni di euro, prodotti dall’Agusta-Vestland (gruppo Finmeccanica) allestiti con ogni genere di comfort. D’altronde, l’industria militare non conosce crisi.

L’affare dei jet

L’ultimo “affare” è la costruzione del nuovo velivolo F35, ovvero il Jsf, Joint Strike Fighter, fortemente sponsorizzato dal Pentagono. Il progetto del caccia made in Usa va avanti dal 2001 e i costi sono lievitati a dismisura fino a impensierire l’amministrazione Obama. L’Italia, che con Finmeccanica è uno dei partner privilegiati del progetto, secondo le ultime stime potrebbe arrivare a spendere 15 miliardi di euro per dotarsi di 131 caccia. Ma è un investimento che non spaventa Finmeccanica, l’azienda controllata al 30 per cento dal Tesoro e finita al centro dell’inchiesta sulla P4, un colosso che sfida la difficile congiuntura economica: ha un fatturato da 18,7 miliardi e un attivo da 500 milioni. Nel 2010 ha distribuito dividendi allo Stato per 71 milioni ma molto di più, evidentemente, ha incassato dallo Stato stesso per la realizzazione di mezzi e armamenti. Un impegno finanziario rilevante è quello messo in campo per la portaerei Cavour – 1,3 miliardi di euro – e per le 10 fregate Fremm per le quali occorreranno 5,6 miliardi di euro. Con una particolarità tutta italiana: la stessa fregata, annota Massimo Paolicelli dell’associazione “Sbilanciamoci”, costa ai francesi 280 milioni, al nostro Paese 350. E il governo ha sottoscritto contratti per l’acquisto di 8 aerei senza pilota (1,3 miliardi) e di due sommergibili per un miliardo. Uscite a nove zeri. Ma esiste un piano per far cassa?

Magistrati e ginnasti

È del 2008 il primo programma di dismissioni che dovrebbe portare alla vendita di 200 caserme, 3.000 alloggi militari e 1.000 installazioni considerate inutili. Il progetto non ha ancora sortito effetti significativi, visto che molte delle case da cedere sono occupate abusivamente ed esistono intoppi burocratici per le variazioni di destinazioni d’uso di aree estese che fuori dal circuito speculativo è difficile mettere a rendita. Rimangono intatti anche gli apparati di supporto all’attività delle forze armate, come la sanità militare che mantiene centinaia di posti letto e camici con le stellette sempre più dirottati sulla certificazione delle invalidità. In presenza di un carico di lavoro assottigliatosi enormemente negli anni, la giustizia militare conta ancora una sessantina di magistrati. Circoli e stabilimenti balneari sono in larga parte autofinanziati ma assorbono personale. In epoca di vacche magre, saltano agli occhi le spese per i gruppi sportivi, che fanno attività meritoria e spediscono pure atleti italiani alle Olimpiadi, ma che contribuiscono ad appesantire i bilanci. Non senza storture: «Proprio utile, ad esempio, finanziare la ginnastica ritmica?», chiede il generale Tricarico. Delineando l’ultimo paradosso di un esercito generoso nelle missioni all’estero e sciupone in patria.