Per una vera Europa democratica

Jürgen Habermas
Le Monde – tradotto da Denis Trierweiler e Fabio Galimberti

Proprio nel momento in cui un deciso passo verso una vera integrazione politica dell’Europa sarebbe l’unica prospettiva di un’uscita positiva dalla crisi, la politica latita, prigioniera della prospettiva del XIX secolo. È giunto il momento di chiedersi quale sia il significato storico del progetto europeo.

Sul breve termine, tutte le attenzioni devono essere concentrate sulla crisi. Ma al di là di questo, gli attori politici non dovrebbero dimenticare i difetti di costruzione che sono alla base dell’unione monetaria e che potranno essere rimossi non più solo attraverso un’unione politica adeguata: l’Unione Europea non dispone delle competenze necessarie per armonizzare le economie nazionali, che presentano divergenze marcate sul piano della competitività. Il «patto per l’Europa» appena ribadito serve solo a ribadire un difetto antico: gli accordi non vincolanti fra capi di governo sono o inefficaci o antidemocratici e per questa ragione devono essere sostituiti da un’incontestabile istituzionalizzazione delle decisioni comuni.

Da quando l’embedded capitalism è tramontato e i mercati globalizzati della politica stanno evaporando, diventa sempre più difficile per tutti gli Stati dell’Ocse stimolare la crescita economica e garantire una ripartizione giusta degli introiti, e garantire la sicurezza sociale della maggioranza della popolazione. Dopo la liberalizzazione dei tassi di cambio, questo problema è stato disinnescato dall’accettazione dell’inflazione. Dal momento che questa strategia comporta dei costi elevati, i governi utilizzano sempre più la scappatoia delle partecipazioni ai bilanci pubblici finanziate con il credito. La crisi finanziaria che va avanti dal 2008 ha fissato anche il meccanismo dell’indebitamento pubblico a spese delle generazioni future; e nel frattempo non si capisce come le politiche di austerity – difficili da imporre sul fronte interno – possano essere conciliate sul lungo periodo con il mantenimento di un livello sopportabile di Stato sociale.

Dato il peso dei problemi, ci si aspetterebbe che i politici, senza rinvii e senza condizioni, mettano finalmente sul tavolo le carte europee, in modo da chiarire esplicitamente alle popolazioni la relazione fra costi a breve e utilità reale, vale a dire il significato storico del progetto europeo. Dovrebbero superare la loro paura dei sondaggi di opinione e affidarsi alla potenza persuasiva dei buoni argomenti. Invece strizzano l’occhio a un populismo che loro stessi hanno favorito occultando un tema complesso e impopolare. Sulla soglia dell’unificazione economica e politica dell’Europa, la politica sembra esitare e tirarsi indietro. Perché questa paralisi? È una prospettiva prigioniera del XIX secolo, che impone la risposta nota del demos: un popolo europeo non esiste e dunque un’unione politica degna di questo nome sarebbe costruita sulla sabbia. A questa interpretazione vorrei contrapporne un’altra: una frammentazione politica duratura nel mondo e in Europa è in contraddizione con la crescita sistemica di una società mondiale multiculturale e blocca qualsiasi progresso nel campo della civiltà giuridica costituzionale dei rapporti di forza fra Stati e dei rapporti di forza sociali.

Fino a questo momento l’Ue è stata portata avanti e monopolizzata dalle élite politiche e il risultato è stata una pericolosa asimmetria tra la partecipazione democratica dei popoli ai benefici che i loro Governi «ricavano» per sé stessi sul remoto palcoscenico di Bruxelles e l’indifferenza, per non dire assenza di partecipazione, dei cittadini dell’Ue rispetto alle decisioni del loro Parlamento di Strasburgo. Questa osservazione non giustifica una sostanzializzazione dei «popoli». Solo il populismo di destra continua a proiettare la caricatura di grandi soggetti nazionali che si chiudono a vicenda e bloccano qualsiasi formazione di volontà transnazionale.

Negli Stati territoriali si è dovuto cominciare installando l’orizzonte fluido di un mondo della vita diviso in grandi spazi e attraverso relazioni complesse, e riempirlo con un contesto comunicativo rilevante della società civile, con il suo sistema circolatorio delle idee. Va da sé che una cosa del genere si può fare soltanto nel quadro di una cultura politica condivisa che resta abbastanza vaga. Ma più le popolazioni nazionali prendono coscienza, e più i media fanno prendere loro coscienza, della profonda influenza che le decisioni dell’Ue esercitano sulla loro vita quotidiana, più crescerà il loro interesse a esercitare anche i loro diritti democratici in quanto cittadini dell’Unione.

Questo fattore di impatto è diventato tangibile con la crisi dell’euro. La crisi costringe anche il Consiglio europeo, a malincuore, a prendere decisioni che possono pesare in modo squilibrato sui bilanci nazionali.
La conseguenza di un «governo economico» comune, che piace anche al Governo tedesco, significherebbe che l’esigenza centrale della competitività di tutti i Paesi della comunità economica europea si estenderebbe ben al di là delle politiche finanziarie ed economiche e arriverebbe a toccare i bilanci nazionali, intervenendo fino al ventricolo del muscolo cardiaco, cioè fino al diritto dei Parlamenti nazionali di prendere decisioni di spesa.

Se non si vuole violare in modo flagrante il diritto vigente, questa riforma in sospeso è possibile solo trasferendo altre competenze degli Stati membri all’Unione. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno raggiunto un compromesso tra il liberalismo economico tedesco e lo statalismo francese che ha contenuti ben diversi. Se ho ben capito, cercano di trasformare il federalismo esecutivo implicito nel trattato di Lisbona in un predominio del Consiglio europeo (l’organo intergovernativo dell’Unione) contrario al trattato. Un sistema del genere consentirebbe di trasferire gli imperativi dei mercati sui bilanci nazionali senza alcuna reale legittimazione democratica.

L’Unione deve garantire quello che la Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca chiama (art. 106, comma 2): «l’omogeneità delle condizioni di vita». Questa «omogeneità» fa riferimento solo a una stima delle situazioni della vita sociale che sia accettabile dal punto di vista della giustizia distributiva, non a un livellamento delle differenze culturali. Un’integrazione politica fondata sul benessere sociale è indispensabile se si vuole proteggere la pluralità nazionale e la ricchezza culturale del biotopo della «vecchia Europa» dal livellamento nel quadro di una globalizzazione che avanza a ritmo sostenuto.

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Una lettura geopolitica della Crisi

Pierluigi Fagan
www.megachipdue.info

Un possibile percorso interpretativo della crisi, normalmente trascurato dalla principale corrente dei media, potrebbe passare anche attraverso una lettura delle dinamiche che intercorrono tra blocchi geopolitici.

Osservando una sorta di foto panoramica coglieremo meglio quegli elementi che nelle immagini troppo di dettaglio della crisi tendono a sfuggire. Seguiamo questa ipotesi:

I.Con il peggiorare della situazione spagnola e francese (ma è di oggi l’attacco al Belgio, all’Olanda e all’Austria) è ormai chiaro che la crisi di sfiducia dei mercati è sistemica: è nei confronti dell’Euro – Europa e non nei confronti di uno o due paesi.

II.Chi sono i “mercati”? Di essi si possono dare due descrizioni. La prima è quella tecnica, ovvero la sommatoria di singole azioni di investimento prese in base alle informazioni disponibili. I mercati sono storicamente affetti da sindrome gregaria, per cui se una massa critica (quantità) o qualificata (qualità) si muove in una direzione, tutto il mercato la segue. Ciò adombra una seconda descrizione possibile ovvero quella dell’interesse strategico che una parte dotata di impatto quantitativo e qualitativo potrebbe avere, trascinando con sé il resto del mercato. I mercati, di per loro, non hanno interesse strategico: si muovono nel breve termine.

Alcuni operatori di mercato però (banche e fondi anglosassoni) potrebbero avere interessi strategici e soprattutto essere in grado di perseguirli sistematicamente (rating, vendite alla scoperto, calo degli indici, rialzo dello spread, punizioni selettive, operazioni sui CDS, manovrare non solo i mercati ma – data l’importanza che questi hanno – l’intera vicenda sociale e politica di una o più nazioni. Tali comportamenti non solo perseguono un vantaggio a lungo periodo di tipo geostrategico ma garantiscono anche di far molti soldi nel mentre lo si persegue, una prospettiva decisamente invitante ).

III.Quale potrebbe essere l’interesse strategico che muove alcuni operatori di mercato ? Decisamente lo smembramento e il depotenziamento europeo. Colpire l’Europa significa: 1) eliminare il concorrente forse più temibile per la diarchia USA – UK, tenuto conto che con la Cina c’è poco da fare; 2) riaprirsi la via del dominio incondizionato del territorio europeo secondo l’intramontabile principio del “divide et impera”; 3) eliminare una terza forza (USA – ( EU ) – Cina) riducendo la multipolarità a bipolarità, una riduzione di complessità. Male che vada si sono comunque fatti un mucchio di soldi e il dettato pragmatista è salvo.

IV.Su cosa contano i mercati ? Sulla oggettiva precarietà della costruzione europea al bivio tra il disfacimento e un improbabile rilancio strategico verso progetti federali. Sulla distanza tra opinioni pubbliche e poteri politici che rende appunto “improbabile” un rilancio dell’iniziativa strategica europeista proprio nel momento di maggior crisi, dove si innalzano non solo gli spread ma anche la paura, l’ottica a breve, la difesa del difendibile ad ogni costo, la rinascenza dell’egoismo nazionale. Sulla oggettiva asimmetria tra Germania e resto d’Europa, una asimmetria strutturale che fa divergere gli interessi, ma più che altro la scelta del come far fronte ad un attacco del genere.

È pensabile che tutta Europa pur di mettere a sedere in breve tempo la c.d. “speculazione” , concorderebbe facilmente e velocemente sulla possibilità di far stampare euro in BCE per riacquistare debito, magari a tassi politici (un 2% ad esempio ) ma per la Germania questo è semplicemente inaccettabile. Infine sia la Germania, sia la Francia, sia a breve la Spagna e un po’ dopo la Grecia avranno appuntamenti elettorali (nonché ovviamente l’Italia ) e questi condizioneranno in chiave “breve termine” e “nazionale” le ottiche politiche. Ciò potrebbe spiegare anche il: perché adesso ?

A ben vedere e se volessimo seguire l’ipotesi “complotto anglosassone” si presenta anche un obiettivo intermedio: poter premere per disaggregare l’Europa in due, tutti da una parte e l’area tedesca dall’altra (area tedesca = da un minimo della sola Germania, ad un massimo di Olanda, Austria, Slovacchia ? Finlandia ? Estonia ? con particolare attrazione nei confronti dell’ex Europa dell’Est).

L’euro rimarrebbe all’interno di una zona che avrebbe la Francia e l’Italia come poli principali, si svaluterebbe, perderebbe il suo potenziale di moneta internazionale concorrente del dollaro (diventerebbe, per quanto rilevante, una moneta “regionale”).

Il deprezzamento dell’euro, secondo alcuni analisti, era forse l’obiettivo primario di questa ipotizzata strategia. Il fine minimo sarebbe quello di riequilibrare la pericolante bilancia dei pagamenti statunitense, oltre agli obiettivi di geo monetarismo.

Altresì il “nuovo marco” si apprezzerebbe, chiudendo un certo angolo di mercato dell’esportazione tedesca cosa che faciliterebbe l’espansione dell’export americano che gli è, per molti versi, simmetrico.

Ciò che gli USA perderebbero per l’apprezzamento dollaro – nuovo euro (perderebbero in export ma guadagnerebbero in import, le bilance dei pagamento USA e UK sono le più negative nei G7) lo recupererebbero nel deprezzamento dollaro – marco, ma a ciò si aggiungerebbero tutti gli ulteriori benefici del dissolvimento del progetto di Grande Europa.

Il progetto Grande Europa guardava oltre che ad est anche al Nord Africa, al Medio Oriente ed alla Turchia, al suo dissolvimento questi, tornerebbero mercati contendibili.

Da non sottovalutare il significato “esemplare” di questo case history per quanti (Sud America, Sud Est Asiatico) stanno pensando di fare le loro unioni monetarie.

Una volta sancito il divorzio euro – tedesco, l’Europa quanto a sistema unico, svanirebbe in un precario ed instabile sistema binario ed avrebbe il suo bel da fare almeno per i prossimi 15 – 20 anni.

Una strategia geo politica oggi, non può sperare in un orizzonte temporale più ampio. Forse questa ipotesi ha il pregio di funzionare sulla carta ma molto meno nella realtà.

Il giorno che s’annunciasse questo cambio di prospettiva (anticipato da un lungo, lento e spossante succedersi di scosse telluriche) spostare la BCE a Bruxelles e riformulare tutti i trattati sarebbe una impresa a dir poco disperata. Con i governi in campagna elettorale poi sarebbe un massacro. Ma non è altresì detto che ciò che ci sembra improbabile in tempi normali, sia invece possibile o necessario in tempi rivoluzionari.

Il silenzio compunto degli americani sulla crisi dell’eurozona potrebbe testimoniare del loro attivo interesse in questa operazione. Se ci astraiamo dalla realtà e guardiamo il tutto con l’occhio terzo di un marziano, non un atto, non un incontro, non un pronunciamento se non quelli di prammatica (digitate Geithner su Google e troverete una pagina che riporta una sola frase:” l’euro deve sopravvivere[1]” dichiarato il 9.11.2011, un gran bel pronunciamento) , accompagnano la crisi del primo alleato strategico degli USA. La crisi è degli europei e gli europei debbono risolverla, questo il refrain che accompagna gli eventi. Quale terzietà ! Quale bon ton non interventista ! Quale inedito rispetto delle altrui prerogative sovrane !

Al silenzio americano, fa da contraltare il chiacchiericcio britannico dove Cameron non passa giorno (e con lui il FT, l’Economist e molti economisti a stipendio delle università britanniche ed americane ) senza sottolineare come l’impresa dell’euro non aveva speranze e ciò a cui assistiamo non è che la logica conseguenza di questo sogno infantile. Sulla tragica situazione dell’economia britannica avete mai sentito pronunciar verbo ?

Qualche giorno fa c’è stata una frase del tutto ignorata anche perché pronunciata dal Ministro degli Esteri francese Alain Juppé (le connessioni neuronali dei giornalisti sono sempre a corto raggio e soprattutto mancano sistematicamente di coraggio). Cos’ha detto Juppé? Relativamente alle notizie sull’Iran, ha pronunciato un pesante giudizio: “gli Stati Uniti sono una forza oggettivamente destabilizzante”.

Da ricordare il disprezzo americano che ha accompagnato l’ipotesi “Tobin tax” sostenuta virilmente da Sarkozy all’ultimo G20 e le impotenti lagnanze dell’Europa per lo strapotere non del tutto trasparente dei giudizi di rating, nonché le lamentale off record di Angela Merkel sull’indisponibilità anglosassone a dar seguito ai buoni propositi regolatori della banco finanza internazionale che si sprecarono all’indomani del botto Lehman e che sono poi diventati remote tracce nelle rassegne stampa.

Il punto è quindi tutto in Germania. O la Germania sceglierà il destino che le è stato confezionato da questa presunta strategia o avrà (un improbabile) scatto di resistenza.

Da una parte, il consiglio dei saggi dell’economia tedesca (la consulta economica del governo tedesco è una istituzione che è eletta direttamente dal Presidente della Repubblica) che ha nei giorni scorsi emesso il suo verdetto: tutti i debiti sovrani dell’eurozona che eccedono il 60% di rapporto debito/Pil vanno ammucchiati in un fondo indifferenziato e sostenuti dall’emissione di eurobond garantiti in solido dai singoli stati ognuno in ragione ovviamente della sua percentuale di debito in eccedenza.

Gli eurobond sicuri e garantiti spalmerebbero l’eccesso di debito in 25 – 30 anni, (quello della dilazione temporale è poi ciò che sta facendo la Fed che compra bond del Tesoro Usa a breve per farne riemettere a lungo).

Dall’altra parte la cancelliera tedesca agita lo spettro di una quanto mai improbabile rinegoziazione del Trattato di Maastricht in senso ulteriormente restrittivo e con diritto di invasione di campo nelle economie politiche nazionali da parte degli eurocrati di Francoforte. La Germania però non sembra potersi porre all’altezza dei suoi compiti strategici e probabilmente lascerà fare agli eventi.

Laddove una volontà forte, intenzionata ed organizzata incontra una volontà debole, dubbiosa e con competizione delle sue parti decisionali, l’esito è scontato. Vedremo come finirà.

[1] “sopravvivere” è il termine esatto che fa capire quale sarebbe il desiderio americano, un tramortimento, un depo tenziamento che non faccia tracollare la già più che certa recessione che ci aspetta nel prossimo decennio. Comunque al di là delle parole, nei fatti, l’empatia americana per la crisi europea è tutta in questa magra frase.

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LA TRAGEDIA DEL CAPITALE DELL’OCCIDENTE

Pepe Escobar
www.Aljazeera.net – Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

Quando Roma brucia, i cittadini non devono gingillarsi, ma credere che un altro mondo è possibile e lavorare insieme per arrivarci

Un piccolo corso di finanza globale 2.0: il debito si trova nel Nord atlantista, ricco. Le risorse stanno nel Sud globale. E il banchiere supremo, riluttante, di ultima istanza è il Regno di Mezzo, personificato dall’Onnipotente Hu (Jintao).

Il nome del gioco – Marx rivisitato da Occupy the World – è lotta di classe. È il casinò capitalismo, noto anche come turbo-neoliberismo finanziario, che viene praticato dall’élite di modernità liquida dell’uno per cento contro quelli che possiedono qualcosa, quelli che hanno poco e che hanno niente, noti anche come il 99 per cento.

Non ci potrebbe avere una dimostrazione più sintetica della tesi pronunciata da Slavoj Zizek al festival del debito a Cannes secondo cui il matrimonio tra capitalismo e democrazia è terminato.

Se c’è qualcosa capace di provocare un terrore mortale nell’oligarchia dell’Unione Europea, è l’ipotesi di un referendum popolare.

Come osate consultare la “marmaglia” sulla nostra politica di Austerità Infinita, l’unica capace di soddisfare i mercati finanziari?

Ciò è sufficiente per far sì che zombi non eletti come il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi (ex vicepresidente di Goldman Sachs International), il presidente del Consiglio Europeo Herman van Rompuy (membro della Commissione Trilaterale e del Club Bilderberg) e il capo della Commissione Europea Joao Manuel Barroso sognino con una zona di esclusione aerea della NATO, strapiena di droni e di Forze Speciali per imporre la propria volontà.

Arrendetevi, o non è finita qui

La sceneggiatura scritta nella BCE di Francoforte vi viene presentata dalla scuola TINA (“there is no alternative”). L’iniziativa grigia e monocromatica, mescola in modo prevedibile privatizzazioni selvagge e devastazione sociale.

L’Europa “democratica” funziona come ai bei tempi di Brezhnev; una troika (FMI, BCE, UE) che esercita un regime totalitario, anche se in modo caotico.

“Merkozy” – quell’impollinazione incrociata ibrido-robotica del Primo Ministro tedesco Angela Merkel e del neo-napoleonico Presidente francese Nicolas Sarkozy – riesce a emettere solo un urlo nefasto: “Coon… traaatto”. ” Coon… traaatto”, mentre si è in un’infinita contrazione fiscale e monetaria prescritta dall’UE.

Non importa che l’Italia abbia un surplus primario. Non importa che il debito combinato pubblico e privato dell’Italia sia il 250 percento del suo PIL, molto più basso di quella di Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone.

L’Italia si trova attualmente abbasso il vulcano perché il colossale mostro del “coon…. traaatto” dell’UE l’ha schiacciata nella recessione.

E il cambio di regime non muterà le cose

Non c’è da sorprendersi che il candidato preferito per succedere al Primo Ministro Silvio “bunga bunga” Berlusconi sia Mario Monti: è un alto dirigente della Comunità Europea, presidente europeo della Commissione Trilaterale e membro del Gruppo Bilderberg. Un altro luminare della quintessenza dell’un per cento.

L’”Europa” – ossia la dissociata oligarchia franco-tedesca – ha pensato che l’eurozona potesse essere salvata dal Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (EFEF).

Ma ora perfino questo blob sta per essere divorato dallo Zombie Supremo, il Dio del Mercato.

Quindi un fondo mostruoso per il salvataggio costruito sullo stile di un imbroglio di Goldman Sachs può essere costretto a trovare un modo per salvare sé stesso. Non ci può riuscire a creare qualcosa del genere, neppure a Hollywood.

Nel frattempo, l’accattona del FMI, l’elegante e irreprensibile Christine Lagarde, sta chiedendo ai membri del BRICS, Russia e Cina, di frugarsi le tasche per avere qualche spicciolo.

Ma Madame Lagarde, parlando in soliloquio coi propri bottoni Dior, sa perfettamente che non funzionerà e che non sarà sufficiente per “salvare” il modello che FMI, BCE e “Merkozy” vogliono applicare.

Guarda a Sud, ragazzo

Gli indignati del globo –dalla Grecia alla Spagna e oltre – per lo meno sono molto coscienti delle macchinazioni dell’un per cento.

Come quando si informano del sorprendente rendimento dell’Indice delle commodities di Goldman Sachs, il più negoziato in tutto il mondo. L’emblema della quintessenza dell’un per cento raddoppia e addirittura triplica il costo di grano, riso e mais, costringendo centinaia di milioni del 99 per cento globale alla fame terminale.

Come non pensare che un altro mondo deve essere possibile?

Il 99 per cento dei partecipanti a Occupy the World è sognatore in modo molto simile al maggio 1968, “Siate realisti, chiedete l’impossibile.” Sognatore in direzione piacevolmente orizzontale, non verticale o piramidale.

Vogliono riscattare la politica come dibattito di idee, non di ego o ideologia. La patetica farsa del G20 della settimana scorsa ha dimostrato un’altra volta che hanno ragione.

Vogliono una Repubblica del buonsenso. Vogliono un’assemblea popolare in ogni vicinato e in ogni villaggio. Contro il denaro come valore morale e la finanza di casinò come un Dio iracondo, vogliono riscattare il potere dell’intelligenza collettiva.

Quello di cui hanno ora bisogno è di raggiungere la massa critica in tutto il mondo

In un certo senso, è come se ci fosse stata una lettura pubblica del “Ribelle” di Albert Camus, pubblicato sei decenni fa. L’un per cento dell’epoca disprezzava davvero quello che vedevano come un piccolo algerino, figlio di una domestica e senza un diploma, che si atteggiava a filosofo.

Ma molto prima della generazioni di Google e Twitter, Camus ci mostrò che la ribellione migra inevitabilmente dalla reazione individuale a quella collettiva, incarnata nella sua bella formulazione “Mi ribello, quindi sono”.

Ma non bisogna sbagliarsi. La contro-rivoluzione dell’un per cento del turbo-capitalismo è già iniziata, e sarà più che implacabile. La storia ci indica che ogni crisi del capitalismo si è “risolta” con una repressione assoluta.

La cosa urgente è cercare strategie efficaci. Includono tutto, dagli scioperi generali al dibattito che precedere la creazione di nuovi gruppi politici.

Tutti siamo responsabili

Il Sud America, che ha sopravvissuto a ondate di terribili “aggiustamenti strutturali” del FMI e ora sta forgiando lentamente la sua integrazione e la sua indipendenza – sempre negata dall’un per cento neocoloniale e dai suoi satrapi locali – può essere di aiuto.

In una discussione molto esauriente che ho avuto con i dirigenti del MST brasiliano – il Movimento dei Lavoratori Agricoli senza Terra, uno dei movimenti sociali più importanti del mondo -, mi hanno spiegato come sono passati dalla lotta per la riforma agraria a una battaglia molto più soffusa contro le potenze multinazionali dell’agroindustria che ha formato un’intricata alleanza con il governo di Lula.

Questo dimostrazione come anche un movimento sociale ampio con un’enorme base popolare debba calibrare costantemente la lotta strategica.

In un fronte parallelo, è urgente che ci sia una traduzione all’inglese de “La Potenza Plebea”, una collezione di saggi del vicepresidente boliviano Álvaro García Linera, uno degli intellettuali più importanti dell’America latina.

Linera segnala essenzialmente che l’uno percento e i suoi tirapiedi hanno fatto passare un’idea dell’interesse come sfera separata della società civile. E che la società civile può esistere in politica solo se si sottomette ai mediatori o ai sacerdoti politici.

Si tratta, argomenta Linera, di un arcaismo che risale a Hobbes e Montesquieu. E il 99 per cento deve essere cosciente di questo fatto, e combatterlo.

Linera ha coniato il termine “cittadinanza irresponsabile” per descrivere la massa scombussolata di elettori sotto l’incantesimo della farsa neoliberista.

Per la “cittadinanza irresponsabile”, l’“esercizio dei diritti politici è solamente una cerimonia di rinuncia alla volontà politica e a quella di governare, per affidarle nelle mani di nuova casta di proprietari privati della politica, che si attribuiscono la conoscenza di tecniche sofisticate e impenetrabili di dominio e di governo”.

Quindi, la lotta fondamentale è contro questi “proprietari privati della politica” e i suoi padroni dell’un per cento, che siano al Cairo, a Manhattan, a Madrid o a Lahore. Il G-20? Lasciate perdere: casomai G-7 miliardi. Se siamo veri indignati contro un sistema da abbattere, siamo tutti responsabili.