Crisi del capitalismo, rischi autoritari e utopie possibili

Federico Rampini
“D”, 12 novembre 2011

“Mi vergogno a chiederlo, ma adesso avrei proprio bisogno di zucchero, zucchero puro”. Sfido io! È da un’ora che Slavoj Zizek sta seduto davanti a me, nel mio ufficio su Broadway, e praticamente non ha ripreso il fiato. “I francesi mi chiamano scherzosamente Fidel Castro, perché se sono un po’ giù di forma parlo tre ore senza interruzione, altrimenti vado avanti per cinque ore”.
È un fiume in piena, un ciclone, una forza della natura. Ha il senso della battuta, mi provoca osservando che “i giornalisti più bravi sono quelli capaci di farmi dire l’esatto contrario di quel che penso, ma senza cambiare una sola sillaba delle mie parole”.

Sfodera un sarcasmo pungente, soprattutto quando osserva con distacco la propria vicenda personale e politica: “Quando c’era il comunismo in Jugoslavia mi mettevano al bando dicendo che non ero comunista. Oggi gli stessi comandano in Slovenia, dopo aver cambiato casacca, e a questo punto mi accusano di essere comunista”. Passa in rassegna tutti i libri sulla Cina che vede sugli scaffali della mia biblioteca, e d’improvviso vuole sapere se, tra le star del cinema femminile, trovo più sexy Gong Li o Zhang Ziyi. Eccolo qui davanti a me, larger than life (più grande della vita) come direbbero gli americani, l’enfant terrible della filosofia contemporanea Slavoj Zizek. 62 anni, nato a Lubiana, umanista, sociologo, studioso di psicanalisi, ex candidato alle presidenziali in Slovenia, le sue opere sono tradotte nel mondo intero. Lo hanno battezzato un “filostar”, con un pizzico di cattiveria, per metterlo nella categoria dei filosofi che sono anche delle star dei media.

Filostar è l’ultima versione di quelli che – quand’ero ragazzo – furono i nouveaux philosophes francesi, capaci di unire le dissertazioni colte sulla psicoanalisi lacaniana, l’impegno politico militante, il protagonismo nei talk show televisivi. Però Zizek, proprio contro uno degli ex nouveaux philosophes, Bernard-Henri Lévy, è stato protagonista qui a New York di memorabili scontri nei dibattiti pubblici. Perché lui può essere un polemista formidabile, capace di prendere di petto le mode culturali, sbeffeggiare i suoi colleghi, sconcertare i suoi numerosissimi seguaci. È vulcanico – “Ho appena finito un saggio di mille pagine su Hegel”, mi dice dopo avere ingerito qualche bustina di zucchero – alterna la sua vita tra Lubiana (la parte più privata: per stare coi figli, “nessuna vita sociale”), Londra e New York dove ha due incarichi di docente – ma i suoi itinerari sono ben più complicati.

Quando lo incontro è appena tornato da Stanford, in California, per un ciclo di conferenze. Qui a Manhattan, oltre a insegnare alla New York University (NYU), è praticamente di casa a Zuccotti Park, dove campeggiano da un mese e mezzo i manifestanti di Occupy Wall Street. Essendo uno dei più autorevoli esponenti del revival mondiale del marxismo, Zizek è considerato un padre teorico del movimento degli “indignati”. Eppure, come su ogni altro tema, anche su questo le sue opinioni non sono mai scontate. Anzi, quando lo interpello su questo movimento le sue prime parole sono di pessimismo: “Sì, in questo momento mi definirei moderatamente pessimista. Non vedo alcuna rivoluzione all’orizzonte. Chissà che al contrario non stia per spuntare qualche forma nuova di regime autoritario”.

Qui in America tornano a fiorire gli studi marxisti, si pronuncia l’espressione “lotta di classe” che era diventato tabù da decenni. Dopo una lunga egemonia della destra culminata col movimento anti-stato del Tea Party, finalmente la piazza torna a essere occupata da un movimento di sinistra. Per lei non è il momento di celebrare?
“Partiamo dall’origine di questo movimento, cioè dagli indignados spagnoli. Loro proclamano una totale sfiducia nei politici, ma al tempo stesso usano un linguaggio rivendicativo molto tradizionale. Questo mix di sfiducia e protesta può essere pericoloso. Può spuntare la voglia di un nuovo leader, un capo supremo. Viviamo un’epoca pericolosa, io non appartengo alla sinistra ingenua”.

Colpisce il consenso raccolto dal movimento Occupy Wall Street: i due terzi dell’opinione pubblica americana si riconoscono nelle ragioni generali della protesta, contro le diseguaglianze, contro le oligarchie della finanza.
“L’opinione pubblica capisce che non siamo di fronte soltanto a un problema di corruzione di individui o di alcune categorie, ma che l’intero sistema economico non funziona. E non è solo una crisi del modello neoliberista, esso stesso in larga parte un mito: da Ronald Reagan a George W. Bush il neoliberismo puro non è mai esistito, ciascuno di questi presidenti ha fatto ampio ricorso allo stato quando era necessario”.

Di fronte a questa crisi sistemica, c’è una riscoperta dei “classici”: si torna a parlare di eguaglianza sociale, di giustizia, perfino di socialismo, in una nazione come l’America dove la sinistra era in ritirata da decenni.
“È qui che dico che io non appartengo a una vecchia sinistra. Non m’illudo che si possa affrontare questa crisi con un ritorno a ricette del passato. Il XX secolo è davvero finito per sempre, il comunismo appartiene a quel secolo. La fase che attraversiamo mi ricorda un celebre detto di Antonio Gramsci, che si può parafrasare così: il vecchio ordine sta morendo, ma un nuovo ordine non è ancora nato, questo è il momento in cui possono apparire dei mostri. Ecco, io non ho un’idea chiara di quel che sarà il nuovo ordine. Qualcosa di nuovo nascerà, ma non possiamo sapere quali caratteristiche avrà. La mia diagnosi è pessimista: il capitalismo è in una crisi vera. Ma ho osservato con preoccupazione ciò che può accadere come reazione alle crisi, per esempio l’orribile ascesa di una destra xenofoba in tutta l’Europa dell’est. In questi tempi di confusione c’è bisogno di qualche ancora di stabilità morale. Vedo che l’Europa tecnocratica sta franando, ed è accerchiata da ambo i lati: l’ascesa della destra, e i nuovi movimenti di sinistra. Ma se la sinistra non propone un nuovo progetto, vedremo nuove forme di capitalismo autoritario. Non penso al ritorno dei fascismi, semmai a delle forme di edonismo liberale, autoritarismo soft alla Berlusconi, ammantate di una sorta di buddismo occidentale”.

Lei prende le distanze da ogni nostalgia del XX secolo, e tuttavia le è capitato di definirsi ancora comunista. In che senso?
“Poiché sono stato disoccupato per sei anni nel mio paese, a causa delle mie idee, quando ancora c’era un regime comunista in Jugoslavia, non mi faccio alcuna illusione. Credo che il comunismo oggi vale in quanto “la definizione del problema”. Il grande problema che la società ha di fronte è il destino dei beni comuni, come l’ambiente. In questo senso mi riconosco nell’interesse che Toni Negri ha per tutta la tematica dei commons, anche se divergo da molte sue affermazioni. Alla sinistra ho tante critiche da fare. In Grecia, per esempio, non perdono alla sinistra di giocare la carta dell’anti-europeismo, e di ignorare le proprie responsabilità nell’avere usato per tanti anni il clientelismo assistenziale. Ma non amo particolarmente neppure la happening hippy left, la sinistra hippy che ama gli happening, di cui c’è qualche componente qui nel movimento Occupy Wall Street: la sinistra deve anche porsi il problema dell’efficienza, deve trasformare questa crisi nell’occasione per costruire un nuovo ordine positivo”.

Questa è la critica che viene anche dai riformisti più tradizionali. Bill Clinton ha detto del movimento Occupy Wall Street che deve definire al più presto un programma, una lista di obiettivi concreti.
“Se la critica è formulata in questi termini, non sono d’accordo. Siamo nella fase iniziale di un movimento, è legittimo che i suoi sbocchi restino aperti. Se lo si incalza troppo, si finisce in una di queste due direzioni: o nell’utopia pura, oppure in una pragmatica richiesta di ottenere più soldi per il welfare state. Né l’una né l’altra strada ci tirerebbero fuori da questa crisi. Io penso che il momento più interessante sarà il day after, il giorno dopo la stagione degli “indignati”, quando l’entusiasmo sarà svanito. È allora che vedremo cosa resta, come traghettare verso un nuovo ordine che renda la nostra vita migliore. Per adesso non vedo affiorare idee nuove, certo non dalla Spagna e nemmeno dalla Grecia. La vecchia sinistra non ha risposte, il pragmatismo alla Clinton neppure. Alla fine c’è una sinistra che funziona meglio delle altre ed è quella cinese. Terribile segnale, perché in Cina c’è il divorzio tra democrazia e capitalismo, la prima forma veramente efficiente di capitalismo autoritario. Io mi chiedo spesso se sappiamo cosa sia la Cina: è una nuova forma di capitalismo? Una volta ci ho scherzato sopra, parlando con Francis Fukuyama, che scrisse della “fine della storia” dopo la caduta del Muro di Berlino. “Ha ragione”, ho detto a Fukuyama, “il capitalismo ha vinto, però la sua versione più forte è governata da comunisti”. Lo sa cosa mi hanno raccontato della Cina? Non so se sia vero, ma sarebbe bello se fosse vero: che tra i vari tabù della censura di Stato, le autorità di Pechino cercano di proibire su internet le “realtà alternative”, le società virtuali, e al cinema i censori non amano che la fantascienza raffiguri i viaggi nel tempo. Sarebbe bello in questo senso: vorrebbe dire che almeno i leader cinesi hanno ancora paura che la gente possa sognare”.

Quando oggi parla del nuovo ordine che può emergere da questa crisi, ma ancora non c’è e si stenta a immaginarne i contorni, si capisce che noi facciamo una gran fatica a sognare.
“Eccole una battuta che ho fatto altre volte: noi siamo capaci di immaginare molto facilmente la fine del mondo, un asteroide che colpisce la terra e la distrugge, l’abbiamo vista tante volte al cinema. E invece non riusciamo a concepire un cambiamento sociale anche piccolo. Tutto ci sembra possibile, ma non che si possano dedicare più risorse al welfare. Strano, no? Poi uno va nei paesi scandinavi e scopre un contratto sociale molto diverso dal nostro. Per esempio, là il divario medio tra lo stipendio del chief executive e quello di un dipendente dentro la stessa azienda è di sei a uno, non 600 a uno come negli Stati Uniti. Eppure funziona, la gente lo accetta, non è certo egualitarismo comunista se il capo azienda può guadagnare sei volte più dell’operaio. E le economie dei paesi scandinavi sono competitive. Allora questo ci costringe a interrogarci: che cosa rende socialmente accettabile un certo livello di diseguaglianze? Quello che viene considerato “normale”, o addirittura viene presentato come una “legge di mercato” in un paese, è il frutto delle aspettative sociali, dei rapporti di forze, delle battaglie”.

Quindi la Scandinavia è un’utopia possibile, dove si verifica quotidianamente la praticabilità di una società più equa e solidale. Ma nei suoi discorsi affiora anche un altro esito possibile di questa crisi, una soluzione di tipo autoritario. Siamo ad un remake degli anni Venti e Trenta, quando la Grande Depressione fu affrontata in alcuni paesi con risposte di sinistra (il New Deal di Roosevelt e il Fronte Popolare in Francia, più alcune socialdemocrazie nordiche) ma in Germania portò al potere Hitler?
“L’autoritarismo del futuro io lo immagino più simile al vostro Berlusconi, una sorta di Groucho Marx al potere, una commedia ridicola e tuttavia autoritaria. Se cerco una rappresentazione di fantasia, mi viene in mente Brazil, il film di fantapolitica che Terry Gilliam diresse nel 1985. Immagino un autoritarismo berlusconiano nel senso che vedo la possibilità di un assetto politico-sociale molto permissivo verso i piaceri privati, pronto a chiudere un occhio su ogni sorta di orge, pur di favorire la spoliticizzazione”.

E di Barack Obama, che cosa pensa?
“È il primo presidente socialdemocratico degli Stati Uniti. Per questo le reazioni contro di lui sono state così paranoiche. Ma non credo ci sia spazio per un riformismo graduale. Oggi forse la vera utopia – nel senso letterale di un’utopia che non ha luogo, irrealistica – è pensare che le cose possano andare avanti con degli aggiustamenti, senza un cambiamento profondo e radicale”.