Forte con i deboli, debole con i forti. Berlusconi e la giustizia, quale bilancio?

Domenico Gallo
www.megachipdue.info

L’articolo di Valter Vecellio sul bilancio del Governo Berlusconi in materia di giustizia penale, pubblicato da Articolo21, fotografa un disastro sociale ed istituzionale che è stato per lungo tempo ignorato e cancellato dall’orizzonte del dibattito politico.
Le cifre dell’insostenibile sovraffollamento degli istituti carcerari (67.000 detenuti contro 43.000 posti disponibili), con il loro carico di degradazione umana, di dolore e di disperazione, scandito dal crescente numero di suicidi, ci riportano alla durezza materiale dei fatti che non può essere scalfita da una narrazione politica di comodo.

Tuttavia non è esatto concludere che il bilancio del governo Berlusconi in materia di giustizia (penale) sia uguale a zero. In realtà le politiche del Governo Berlusconi sono, in massima parte, la causa del disastro.

Nel 2006 è stato varato un provvedimento di condono, dettato dall’emergenza carceri (oltre che dalla necessità di accorciare la pena ad alcuni personaggi illustri dell’entourage di Berlusconi), che aveva azzerato il sovraffollamento delle carceri.

Allora bisogna chiedersi: com’è possibile che in 5 anni si sia verificato un così grande accrescimento della popolazione carceraria?
E’ forse cresciuto il tasso di criminalità; sono forse aumentati gli omicidi ed i reati più gravi, o invece sono diminuiti, come ci dicono le statistiche?

Come si fa a spiegare il crescente ingolfamento della macchina della giustizia penale e la crescita esponenziale dei reati dichiarati prescritti dall’Autorità Giudiziaria con la contemporanea crescita della popolazione carceraria?

La risposta a questo dilemma sta nelle scelte di politica criminale del Governo Berlusconi, che hanno esasperato e portato alle estreme conseguenze una politica di criminalizzazione dell’emarginazione sociale che viene da lontano.

Quando si considerano le politiche della giustizia del Governo Berlusconi, quello che viene in evidenza è il c.d. “scontro fra politica e giustizia” di cui si è tanto favoleggiato.

In realtà tale scontro esisteva solo nella fiction, nella narrazione berlusconiana di un immaginario Paese dei balocchi, guidato da un Sovrano intemerato, novello San Giorgio, che per aver salvato l’Italia dal comunismo, veniva quotidianamente insidiato dal drago dei magistrati-comunisti, che lo trafiggevano a colpi di codice.

In effetti, dietro questa leggenda si nascondeva (e si nasconde ancora) una intollerabile aggressione alla magistratura da parte degli uomini del potere politico berlusconiano, amplificata e resa più virulenta dai media a loro asserviti, volta ad intimidire i magistrati e ad impedire il controllo di legalità (sia in campo civile che penale) nei confronti degli abusi compiuti dal Sovrano e dagli uomini della sua Corte.

Questa affannosa ricerca di impunità è stata praticata, con scarso successo, a 360 gradi. Si è cominciato con le leggi che assicuravano al Sovrano l’immunità dalla giurisdizione, prima con il “Lodo Schifani”, poi con il “Lodo Alfano” ed infine, quando questa due leggi sono cadute sotto la scure della Corte Costituzionale, si è inventato il legittimo impedimento permanente, che è stato sostanzialmente smantellato dalla Corte Costituzionale. Poiché non bastava assicurare solo l’impunità al Sovrano, ma occorreva proteggere la cricca, sono stati sfornati una miriade di provvedimenti volti ad ostacolare l’attività investigativa da parte degli inquirenti (vedi il disegno di legge sulle intercettazioni), oppure a bloccare il funzionamento del processo penale (vedi i disegni di legge sul processo lungo e sulla prescrizione breve). Infine si è tentato di passare direttamente all’intimidazione dei giudici, attraverso la modifica della disciplina sulla responsabilità civile.

Quest’attività si è svolta sotto i riflettori dell’opinione pubblica, grazie ai media non controllati dal Cavaliere ed ha suscitato clamore, contrasti, reazioni e, alla fine, è sostanzialmente fallita.
Ma in realtà c’è un secondo aspetto della politica della giustizia del Governo Berlusconi che, a differenza del primo, ha centrato i suoi obiettivi, anche perché è passato sotto silenzio.
In effetti la politica della giustizia del berlusconismo, fondata sul ripudio del valore dell’eguaglianza, esprime un sistema penale a ferro di cavallo ai cui estremi ci sono, da un lato, un diritto penale del nemico e, dall’altro, un diritto penale dell’amico.

Il diritto penale del nemico esprime la tendenza a colpire le fasce sociali più deboli (immigrati, tossicodipendenti, Rom, senza casa) indicati come “nemici pubblici” ai quali riservare un trattamento penale differenziato e di particolare disfavore, che si spinge fino al punto di creare un vero e proprio diritto penale per tipo d’autore. Sull’altro versante del ferro di cavallo, si colloca una disciplina di favore per i privilegiati.
Uno degli esempi più chiari di questo sistema penale double face è rappresentato dalla riforma della prescrizione introdotta con la legge ex Cirielli (L. 5/12/2005 n. 251).

All’epoca taluni protestarono, indicandola come l’ennesima legge ad personam per favorire i soliti noti. Indubbiamente tali critiche coglievano una parte della verità e l’esito del processo Mills e di centinaia di altri processi per corruzione, concussione e reati dei colletti bianchi dimostra che la riduzione dei termini di prescrizione ha ridotto l’area della punibilità, rendendo più facile per i ceti privilegiati sfuggire alle maglie della repressione penale.

Però l’altro lato della verità, rimasto oscuro, è stato l’ampliamento dell’area della punibilità per quelle forme di criminalità che sono direttamente collegate a situazioni di emarginazione o di degrado sociale e che spesso si esprimono con comportamenti recidivanti. La legge ex-Cirielli ha introdotto una disciplina in cui i limiti temporali per la punibilità non sono dipendenti dalla obiettiva gravità del reato, ma sono costruiti sul tipo di autore. Un fatto commesso da una persona “perbene” è meno grave (e meno punibile) dello stesso fatto commesso da una persona “per male” che, nella generalità dei casi è un emarginato.

Questa tendenza spiega come sia possibile che coesistano i fenomeni opposti dell’incremento delle prescrizioni e dell’incremento della popolazione carceraria.
Il contrasto alla devianza criminale, che costituisce l’oggetto del diritto penale, è stato costruito come contrasto all’emarginazione sociale, cioè come criminalizzazione dell’emarginazione sia attraverso un’ipertrofia della sanzione penale, sia attraverso sanzioni modellate sul tipo di autore.

Con i i vari pacchetti di sicurezza sono state introdotte un complesso di norme che aggravano la criminalizzazione dell’emarginazione sociale, attraverso l’incremento generalizzato delle pene per i reati tipici dei soggetti marginali e l’esclusione di taluni benefici penitenziari. Tali norme sono rivolte indiscriminatamente nei confronti dei soggetti sociali più deboli, immigrati, tanto regolari che irregolari, Rom, senza casa, tossicodipendenti, poveri in genere.

Non c’è da stupirsi, allora, se le carceri diventano sempre più una discarica dell’emarginazione sociale e se l’affollamento cresce sempre di più anche perché la prescrizione non gioca a favore degli emarginati i cui reati caratteristici sono di facile accertamento.

Se si vuole reagire al disastro che ci lascia in eredità l’esperienza del Governo Berlusconi, un’amnistia, pur necessaria, non è sufficiente perché dopo tre anni saremo ritornati al punto di partenza. Bisogna invertire questa rotta, eliminare la normativa di particolare “disfavore” per gli emarginati, decriminalizzare le questioni che riguardano il controllo amministrativo dell’immigrazione, incrementare la latitudine delle sanzioni alternative al regime carcerario, ma, soprattutto, bisogna combattere la povertà piuttosto che punire i poveri.