Le bad company di Obama

Michele Paris
www.altervista.org

Qualche giorno fa, l’amministrazione Obama ha reso noto il nuovo piano quinquennale relativo alle esplorazioni petrolifere e di gas naturale sul territorio americano. Il piano – valido dal 2012 al 2017 – dimostra ancora una volta come a guidare la politica energetica degli Stati Uniti siano pressoché esclusivamente gli interessi dell’industria petrolifera. L’apertura alle trivellazioni in aree ecologicamente molto sensibili giunge inoltre a poco più di un anno dalla fine ufficiale dell’emergenza causata dalla colossale fuoriuscita di petrolio da un pozzo gestito dalla BP nel Golfo del Messico.

Il piano della Casa Bianca, che potrà essere modificato nei prossimi mesi, prevede l’allargamento delle aree estrattive già in fase di lavorazione nel Golfo del Messico, tra cui alcune zone al largo delle coste della Florida, fino ad ora considerate off-limits. Altre aree che suscitano profonde preoccupazioni riguardano poi l‘Alaska, in particolare le regioni nel Mar Glaciale Artico nella parte settentrionale dello stato (North Slope) e nel cosiddetto Cook Inlet a sud.

Un precedente piano ancora più generoso per le compagnie petrolifere era stato realizzato dall’amministrazione Obama proprio alla vigilia del disastro della piattaforma Deepwater Horizon nell’aprile del 2010. Quest’ultimo, ritirato proprio in seguito alla fuoriuscita di petrolio, prevedeva infatti esplorazioni anche al largo delle coste orientale e occidentale – escluse invece dal progetto attuale – nonostante il parere contrario di quasi tutti gli amministratori locali degli stati interessati.

La nuova strategia in ambito energetico del presidente democratico ha già ricevuto le critiche sia delle organizzazioni ambientaliste che delle compagnie petrolifere, secondo le quali non è stato fatto abbastanza per aprire indiscriminatamente le riserve del paese alle esplorazioni. Come ha spiegato alla stampa il presidente dell’American Petroleum Institute, Jack Gerard, si tratterebbe di un’occasione perduta dal governo per creare nuovi posti di lavoro, come se a guidare le scelte e l’attività di lobbying delle compagnie che la sua associazione rappresenta fosse lo scrupolo per il livello di disoccupazione nel paese e non piuttosto la massimizzazione dei loro profitti.

Per gli ambientalisti, al contrario, il piano di Obama mette in serio pericolo gli equilibri di ecosistemi delicati come quello dell’Alaska e del Golfo del Messico, ancora alle prese con il disastro dello scorso anno. Soprattutto in Alaska, inoltre, gli ostacoli nel far fronte ad una eventuale fuoriuscita di petrolio in acque gelide e difficilmente accessibili sarebbero enormi e i danni all’ambiente incalcolabili. Un simile scenario in caso di incidente sembra presagirlo anche il vice-segretario agli Interni, David Hayes, il quale ha ammesso che non esistono infrastrutture adeguate per prevenire o affrontare una fuoriuscita di petrolio nel Mar Glaciale Artico.

Per questo motivo, a poco sono servite le rassicurazioni del titolare del Dipartimento degli Interni, l’ex senatore democratico del Colorado Ken Salazar. Quest’ultimo ha affermato che il disastro provocato dalla BP nel Golfo del Messico è servito da lezione e che le compagnie che otterranno le prossime licenze saranno costrette ad adottare misure di sicurezza più rigide.

Lo stesso Salazar sostiene poi che il piano rappresenta un giusto compromesso tra il necessario sviluppo delle risorse energetiche del paese e la protezione dell’ambiente. Poco importa se anch’egli ha dovuto concedere che le trivellazioni in difficili condizioni come quelle che offrono le acque dell’Alaska – spesso a profondità vicine ai due mila metri – non possono essere prive di rischi.

Lo scrupolo principale della Casa Bianca è d’altra parte la difesa degli interessi delle corporation del petrolio, come dimostra la risposta data al disastro dell’aprile 2010 nel quale morirono 11 operatori della piattaforma Deepwater Horizon e che causò la fuoriuscita di quasi 5 milioni di barili di petrolio nelle acque del Golfo del Messico.

Per quella che è stata definita come una delle più gravi catastrofi ambientali causate dall’uomo non è stato finora condannato un solo dirigente delle tre compagnie responsabili delle operazioni (BP, Halliburton, Transocean), mentre l’amministrazione Obama si è adoperata da subito per mettere il gigante petrolifero britannico al riparo dalla maggior parte delle richieste di risarcimento da parte di privati e attività commerciali colpiti dall’incidente.

Il Dipartimento degli Interni americano, in ogni caso, intende di iniziare la cessione dei diritti di esplorazione proprio dal Golfo del Messico. Secondo quanto riportato dalla Associated Press, la prima asta prevista dal piano quinquennale si terrà a New Orleans il 14 dicembre prossimo e riguarderà un’area al largo del Texas (Western Gulf Planning Area) di quasi 85 mila km2, nella quale si stimano siano conservati tra i 222 e i 423 milioni di barili di petrolio.

A dare un giudizio complessivo dell’impazienza con cui il governo americano ha risposto alle sollecitazioni delle compagnie del petrolio, nonché sui rischi che si potrebbero correre, ci ha provato Frances Beinecke, presidente del Natural Resources Defense Council, in una nota ufficiale. Per l’associazione ambientalista newyorchese, “il piano per migliorare la sicurezza dell’industria petrolifera, prodotto dalla commissione nominata da Obama per indagare sulla fuoriuscita dell’anno scorso nel Golfo del Messico, non è stato ancora messo in pratica. Il Congresso non è stato in grado di approvare una sola legge per proteggere l’ambiente e i lavoratori di questo settore. Le compagnie non hanno investito a sufficienza nello sviluppo delle tecnologie necessarie a prevenire futuri disastri, mentre il governo ha tuttora bisogno di risorse e supporto scientifico per svolgere la propria funzione regolatrice dell’industria petrolifera”.