Baciare il rospo o risvegliare la bella addormentata?

Lelio Demichelis
wwww.micromega.net, 29 novembre 2010

Baciare il rospo, sì o no? – si è chiesto il manifesto. Domanda drammatica e complicata insieme. Ma la vera domanda è piuttosto: chi ha lasciato che il neoliberismo diventasse la norma(lità) del pensare politico, del vivere sociale e del fare governo? Chi ha lasciato che questo neoliberismo – una potentissima e pervasiva biopolitica – conquistasse un’autentica egemonia (in senso gramsciano ma rovesciato, avendo conquistato le casematte anche della sinistra)? Come è stato possibile che dopo 50 anni di stato sociale si passasse così velocemente ad una biopolitica opposta, fatta di falso individualismo, di egoismo/egotismo, di narcisismo consumistico, di uccisione dello stato sociale, di finanza senza regole, di precarizzazione della vita?

Una biopolitica tanto egemone che si è imposta, senza opposizione, anche come soluzione alla crisi da essa stessa prodotta. Una biopolitica in senso foucaultiano (perché questo è), che ha modificato nel profondo le modalità e le forme del vivere individuale e collettivo, trasformandolo da sociale in asociale/egoistico e brutalizzando l’antica convinzione che l’uomo fosse un animale sociale e socievole; che ha rovesciato come un guanto i valori del convivere (dalla solidarietà all’egoismo, dalla società aperta alla chiusura comunitaria); che ha cancellato ogni capacità di pensare il futuro per progetti addestrando tutti, complice la rete, a vivere alla giornata e nell’istantaneità. Per cui oggi si accetta (si deve accettare) senza reagire (e ahimè, gli indignados sono solo una bella minoranza) il dovere di baciare questo ennesimo rospo. In nome dell’Italia e della coesione nazionale. Della salvezza del paese. Ma a tre anni dallo scoppio della bolla dei subprime, nessuna nuova e diversa politica economica, nessuna nuova regola per i mercati, nessuna lotta alla speculazione, nessun nuovo Piano Beveridge, nessuna contestazione ad Angela Merkel (e quando l’Europa la metterà finalmente in minoranza e metterà in minoranza le sue politiche egoistiche e recessive, sarà ormai troppo tardi). L’Europa sta in realtà vivendo – continuamente riproducendolo e anzi accentuandolo – un colossale conflitto di interessi: con i suoi cittadini, con il loro futuro, con l’uguaglianza, con i diritti sociali degli individui. Quando mai, infatti, si è vista una politica così deliberatamente recessiva, così volutamente disuguagliante, così pervicacemente impoverente, così ostinatamente illiberale, sia pure fatta in nome del liberalismo?

Proviamo allora a cambiare metafora: invece di pensare se baciare sì o no il rospo, facciamo in modo che la sinistra-sinistra (quella riformista, quella alternativa, quella migliorista davvero – nel senso di migliorare le condizioni del vivere, opponendosi al nichilismo e al peggiorismo di quel neoliberismo che è sì una biopolitica ma soprattutto una tanatopolitica (nel suo uccidere la solidarietà, la convivenza, la società aperta, l’ambiente, i diritti sociali civili e politici), facciamo cioè in modo che questa sinistra radicale sia come il principe che va a risvegliare la bella addormentata (il Pd), preda di un sonno profondo dopo avere mangiato la mela offertale dalla strega del neoliberismo.

E subito, altre domande: perché in Italia, dopo quasi vent’anni di berlusconismo – ultima versione mediatica, narcisistica ed egoarchica della maledetta autobiografia nazionale italiana – siamo nuovamente a dover baciare un rospo, questa volta liberista, con nuovi conflitti di interesse (Passera) e con un’ennesima versione di quella (il)logica da stato d’eccezione che sembra essersi impossessata della politica e dell’economia? Perché è così difficile pensare di tassare la rendita e meno il lavoro? Perché si continua a sostenere che bisogna flessibilizzare il mercato del lavoro e non pensare che invece serva più stabilizzazione? Perché è così difficile opporsi alla logica del pareggio di bilancio senza vedere il paradosso per cui le banche sono vissute e vivono – oggi, come per la crisi del 1929 – inducendo all’indebitamento (dal mutuo al credito al consumo), mentre lo stato non dovrebbe invece indebitarsi, per di più per Costituzione? E perché i liberal (sic!) del Pd chiedono le dimissioni di Fassina, forse perché ha osato criticare la Bce e l’Ue, commettendo una sorta di peccato mortale rispetto alla religione/fede del neoliberismo?

Il governo Monti non è il ritorno alla normalità della politica, ma non è neppure una necessaria fase di decantazione dopo gli eccessi del berlusconismo: è appunto e piuttosto l’ultima versione dello stato di eccezione come nuova normalità (e anche questa è una parte della biopolitica neoliberista) nell’amministrazione di uno stato. Che poi il governo Monti abbia il consenso della grande maggioranza degli italiani è solo un problema in più, in termini di democrazia e di cittadinanza: vuol dire infatti che lo stato d’eccezione è davvero diventato anch’esso parte della norma(lità), per cui è impossibile pensare politicamente ed essere noi cittadini attivi la vera classe dirigente, mentre sempre e ancora deleghiamo a qualcuno (i tecnici, i presunti esperti) il governo delle nostre vite. Di stati d’eccezione faremmo volentieri a meno e volentieri vorremmo arrivare finalmente a una scelta politica vera tra ricette diverse per uscire dalla crisi. Con questo governo siamo invece (per la sua composizione, per gli interessi che rappresenta, per essere politico nel senso della tecnica di governo, per cui oggi la politica la possono fare solo gli esperti) alla ripetizione del governo delle élite, delle oligarchie – anche se in altra forma. Si assiste davvero ad un ulteriore momento di espropriazione di sovranità (lo stato d’eccezione, i tecnici al governo, le élite come unica possibile classe dirigente). Per di più, con il consenso degli espropriati.

E ancora: come ricordava Adriano Prosperi su Repubblica, la battaglia contro Berlusconi è stata combattuta in questi anni dall’Italia laica e moderna, radicalmente liberale e/o radicalmente di sinistra, prima in solitudine, poi coinvolgendo un numero crescente di cittadini. Ma poi, ultima beffa, al governo sono andati nuovamente uomini delle élite (i bocconiani, che mai hanno davvero e seriamente contestato Berlusconi e le sue politiche) e i cattolici ‘tecnici’ (legati a quella Chiesa che prima ha sostenuto Berlusconi e solo alla fine ne ha decretato la morte politica). Invece di recitare un doveroso mea culpa, invece di farsi da parte per evidente irresponsabilità morale e politica e per evidente contiguità/congruità con il berlusconismo e con il neoliberismo (un atto che avrebbero dovuto compiere anche molti uomini del Pd, da D’Alema a Veltroni), le élite hanno approfittato del lavoro politico fatto da altri (Repubblica, MicroMega, il manifesto, il Fatto Quotidiano, Annozero, i referendum sui beni comuni), per rimettersi direttamente al potere – è il vecchio trasformismo nella sua ultima versione tecnocratica. Ma la cosa è in sé doppiamente tragica.

E allora, ulteriori domande: perché sono stati mandati al governo questi tecnici e non altri affinché mettessero in campo altre e diverse politiche (diverse dal neoliberismo che ci governa maldestramente da trent’anni; diverse dallo stato penale che ha preso il posto dello stato sociale; diverse dalle politiche di privatizzazione bocciate dai referendum; diverse dalla finanziarizzazione dell’economia; diverse da Marchionne e dalla Gelmini; diverse dalla istituzionalizzazione del lavoro precario)? Perché Napolitano (la domanda è retorica) non ha scelto esperti diversi da questi ora al governo per produrre davvero quella discontinuità che pure ha detto di voler realizzare? Perché, ad esempio, non ha proposto – visto che questo è un Governo del Presidente – il Programma dell’AltraItalia di MicroMega? Cosa è mancato, cosa ha impedito una vera svolta e una vera discontinuità?

E questo ci riporta al Pd. Alla bella (?) addormentata dell’inizio. Preda di troppe contraddizioni interne, immobilizzato dalle sue due anime che non riescono a sommarsi in qualcosa di coerente; con l’ala destra che sempre blocca ogni autentico riformismo, ogni autentica apertura alla società, presentandosi presuntuosamente come il moderno, il nuovo, il necessario. Oligarchico anch’esso, questo Pd, auto-referenziale, conservatore e non progressista, illuso di essere moderno solo perché (Letta) crede che la lettera di Draghi e Trichet dello scorso 5 agosto sia l’unico vero possibile. Un Pd che crede (ostinatamente, ma irrealisticamente) che in Italia si debba guardare al centro, dimenticandosi dei milioni di voti che ha perso a sinistra; che pensa ancora che si debba cercare sempre e comunque la benevolenza del Vaticano, dimenticandosi che gli italiani sono molto più laici di quanto non pensi; che cerca di essere con Marchionne ma anche con la Cgil, facendosi poi superare (a sinistra?) dalla Cei, che accusa giustamente Marchionne di voler gestire le fabbriche con il ricatto.

Il Pd ha un serissimo problema: se stesso. Quando il principe si avvicina e avvicina le labbra, la bella addormentata (il Pd, appunto) apre un poco gli occhi, poi dice no, si ritrae e si riaddormenta, continuando a preferire il sapore della mela avvelenata neoliberista. Se il Pd ha paura di tornare a Marx, torni almeno a Beveridge. Che era un liberale (anche se – oh, scandalo! – radicale).