Euro, il 9 dicembre l’ultima chance

Nicola Sessa
www.peacereporter.net

Il vertice del 9 dicembre prossimo sarà l’ultima spiaggia per l’euro. È ormai un dato di fatto. La sopravvivenza dell’unità monetaria dipenderà dall’esito di quella riunione. Nell’immediato futuro l’Ue si troverà di fronte al bivio: una maggiore integrazione o disgregazione.

Il ministro dell’agricoltura francese, Bruno La Maire, ha descritto al meglio il campo di battaglia su cui si muovono le parti in causa: “Siamo in una guerra economica contro potentissimi speculatori i quali hanno deciso che è nel loro interesse porre fine all’euro”. L’esito della guerra, dopo una lunga serie di battaglie perdute, dipenderà dalla responsabilità dei governi europei e, soprattutto dalle decisioni dei “generali” Merkel e Sarkozy.

Il tempo scorre velocissimo e la macchina elefantiaca europea non riesce a muoversi con la rapidità richiesta dalle circostanze. Il cancelliere tedesco e Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, premono sull’acceleratore per arrivare al più presto a un’unione fiscale: la settimana prossima, anche prima del vertice del 9 dicembre, il direttorio franco-tedesco presenterà un proprio piano. In sostanza, Berlino e Parigi chiedono di implementare uno strumento, già per gli inizi del 2012, che possa rigettare i budget nazionali degli stati membri in violazione della normativa europea.

Una cessione della sovranità fiscale nazionale, dunque, con la Commissione europea che controlli i bilanci prima ancora che siano votati dai parlamenti nazionali. Di più: Berlino e Parigi vorrebbero poter indossare la casacca di arbitri e poter deferire alla Corte di Giustizia europea i paesi che infrangano le norme. Si tratta di provvedimenti che esulano dalle previsioni dei trattati europei ma, si sostiene, un maggiore controllo sui bilanci nazionali contribuirebbe alla salvezza della moneta unica. Un nuovo patto di stabilità che, sul modello degli accordi di Schengen, dovrebbe raccogliere l’adesione volontaria dei singoli paesi membri nell’attesa – con tempi lunghi – di poter modificare i trattati.

Il default non è più un tabù, come non lo è l’ipotesi di un’uscita dall’euro di uno o più paesi (anche se, sulla carta, non si può abbandonare la moneta unica senza uscire dall’Unione europea). Siamo già oltre la Grecia e Peter Morici, professore alla Smith School of Business, sostiene che Francia e Germania dovrebbero aiutare “l’Italia e altri paesi a uscire dalla moneta unica”. L’Italia ha preso in prestito più denaro di quello che è in grado di restituire: nel primo quadrimestre del 2012 scadranno 110 miliardi di euro in obbligazioni che lo stato italiano dovrebbe rifinanziare e le previsioni Ocse -Italia in recessione nel primo trimestre 2012 – non aiutano.

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UN GOVERNO DI TRANSIZIONE

Paolo Bonetti
www.italialica.it, 25 novembre

Il governo Monti, se non altro per lo stile di sobrietà che lo ha caratterizzato nelle sue prime uscite, è il miglior governo possibile nelle attuali circostanze politiche. Ma non è, non può essere il nostro ideale di governo. Si tratta di un esecutivo formato in grande prevalenza da economisti e giuristi di area moderata, cattolici ma sicuramente liberali, capaci di riprendere quel dialogo con le istituzioni europee che si era interrotto con il governo Berlusconi.

È il governo che deve tirarci fuori dall’emergenza, compito quanto mai difficile, dal momento che i guai economici e finanziari di cui soffre l’Italia hanno radici profonde nella nostra storia degli ultimi quarant’anni, ma sono anche il frutto di una crisi europea e mondiale che trascende di gran lunga le nostre modeste possibilità di influire sul suo andamento. Non illudiamoci: i mesi e forse gli anni che ci attendono saranno durissimi, e la strada dei sacrifici è soltanto all’inizio.

Molti si chiedono se non era meglio andare immediatamente alle elezioni, poiché tutti i sondaggi davano e tuttora danno per sicura una vittoria del centro-sinistra. Ma i partiti di questo schieramento, in primis il partito democratico, hanno avuto il timore, in caso di vittoria, di non riuscire a governare una crisi così delicata e complessa e si sono rifugiati sotto l’ala protettrice di un governo tecnico o, meglio ancora, di un governo del presidente, con Napolitano che garantisce per tutti.

La protezione presidenziale sul governo del paese non può, però, durare a lungo. La politica deve riprendere, a pieno ritmo, la sua funzione naturale, che consiste nella lotta fisiologica fra due partiti o, nel caso italiano, fra due coalizioni contrapposte, ciascuna con una sua idea della società e del suo sviluppo, dello Stato e del suo funzionamento. Con tutti i difetti e i limiti del bipolarismo italiano, non credo che sia il caso di tornare al sistema precedente, nel quale eravamo chiamati a scegliere senza sapere bene che cosa in effetti sceglievamo.

Il periodo di decantazione politica rappresentato dal governo Monti deve consentire alle forze politiche di trovare un ragionevole accordo per una nuova legge elettorale, che dia all’elettore la possibilità di decidere consapevolmente fra programmi alternativi e fra uomini che non siano semplicemente i portaborse e i portavoce di un qualche leader più o meno carismatico. Il berlusconismo è in crisi, ma certamente non è ancora il caso di decretarne la morte, se pensiamo a tutti i guasti che ha prodotto in un sistema politico come quello italiano, già reso fragile da una partitocrazia che viveva succhiando risorse all’economia pubblica.

Con Berlusconi la corruzione partitocratica è addirittura aumentata, come mostrano chiaramente gli scandali a ripetizione scoppiati negli ultimi anni. Ma adesso si sta profilando un nuovo pericolo per la democrazia italiana, che rinasca, per volontà della Chiesa e per il trasformismo congenito di molti uomini politici appartenenti a diversi schieramenti, un nuovo partitone cattolico moderato, di cui il governo Monti può essere una prefigurazione.

Come ho già avuto modo dire su Italialaica, non si tratterebbe della rinascita della vecchia Dc, non solo perché i morti non risorgono, ma anche perché sono profondamente mutate le condizioni sociali e culturali che resero possibile il vecchio partito cattolico, quando l’Italia era ancora un paese in larga parte pre-industriale e i costumi erano quelli di una società per tanti aspetti patriarcale e autoritaria.

Un nuovo partito cattolico non si presenterebbe innanzitutto come tale, non metterebbe nella sua stessa denominazione la parola “cristiano”, cercherebbe di inglobare anche persone e associazioni di tradizione laica e magari di sinistra, avrebbe i caratteri di una tecnocrazia morbida e onnipervadente, capace di imporsi con discrezione e dolcezza, mantenendo in vita tutte le istituzioni democratiche, ma svuotandole di ogni contenuto che possa mettere in discussione il potere delle élites che veramente contano.

A questo progetto ancora non ben delineato di un neoconservatorismo non sguaiatamente populista ma benevolmente paterno, la sinistra italiana dovrebbe sin d’ora cominciare a contrapporre un progetto politico di autentica democrazia liberale, centrato su uno sviluppo economico che non sia a scapito dell’equità sociale, sulla difesa dei diritti civili e della scuola pubblica, sulla promozione della ricerca scientifica e sulla tutela dell’ambiente inteso anche come risorsa economica primaria.

Dovrebbe, insomma, convergere su un programma riformista capace di dare un senso e un valore ai sacrifici che ci attendono. Dovrebbe, ma non è per nulla sicuro che ci riuscirà, divisa com’è fra il riformismo senza riforme di coloro che vogliono comunque impadronirsi di una qualche fetta di potere, e il massimalismo sterile di chi torna continuamente a proporre utopie incomprensibili alla maggioranza del popolo italiano.

La sinistra non è mai stata elettoralmente maggioritaria in Italia e le poche volte che ha governato lo ha fatto sempre a rimorchio d’altri. Bisognerebbe riflettere su questo e chiedersi se questa permanente subalternità non dipenda dalla mancanza di coraggio nello scegliere una propria identità e nel restarvi fedeli fino alla vittoria.