Un manifesto per la Madre Terra

Maria Teresa Gavazza

Il nuovo libro di Ugo Mattei (docente di Dritto civile all’Università di Torino, già vicepresidente della commissione Rodotà per la riforma dei beni pubblici), Beni comuni. Un manifesto, edito da Laterza, può costituire una base di programma per i movimenti che si battono per la difesa dei beni comuni. E per gli indignados, giovani e meno giovani, leggere il libro è come ripercorrere un pezzo della propria storia. Sono vite di militanti che non si arrendono, di indigeni fratelli che difendono l’unico bene comune: la Madre Terra.

È dalla terra che Mattei parte per fare un excursus storico sulle recinzioni (enclousures) dei beni comuni prima in Inghilterra e poi altrove, ovvero di come furono sottratti a intere comunità terreni, boschi, prati, unico nutrimento dei contadini agli albori della modernità. La violenza del nascente capitalismo contro le comunità agricole ci ricorda l’avidità delle corporations nei confronti dei popoli dell’Amazzonia o dei Sem Terra in Brasile. È un nuovo medioevo che ripercorre il dualismo tra Stato (che rappresenta il pubblico) e proprietà, paradigma del privato e fondativa del mercato. Due modelli entrambi figli di un pensiero unico che ha come fine ultimo l’accumulo di capitale.

La contro-narrazione invece si poggia sul concetto di bene comune, dai contorni allusivi, che meglio si comprende in chiave fenomenologica ed olistica. Il comune siamo noi, ovvero, scrive Mattei, una categoria «autenticamente relazionale, fatta di rapporti fra individui, comunità, contesti e ambiente». L’autore attacca in modo efficace il sistema consumistico, ovvero il bisogno privato di beni inutili favorito dal diffondersi del marketing. È un colpo al cuore della modernità che si nutre di due entità (pubbliche e private) entrambe figlie della stessa struttura di dominio.

La nuova era che si apre è illuminata dai movimenti per i beni comuni, gli unici in grado di rendere soggetti critici i consumatori passivi. La strada da percorrere è «la dialettica del sapere critico», ovvero la salvaguardia della scuola, dell’università e della stampa. La lotta dura si svolge tra chi vorrebbe procedere ad una recinzione del sapere e dell’informazione e chi si vuole battere fino in fondo per affermare la natura di bene comune di entrambi.

«Il sapere critico, infatti, non si produce in ambienti competitivi, ma prospera in comunità solidali, tendenzialmente egualitarie, portate a vedere i problemi nella prospettiva dei perdenti dei processi sociali e non a riprodurre la retorica dei vincitori», argomenta Mattei. È una definizione che affonda le proprie radici fin dalle lotte degli anni ‘60, nell’università e nella fabbrica, e che oggi emerge nelle battaglie del movimento No Tav, No Dal Molin e nell’occupazione del teatro Valle a Roma, (anche l’arte insieme alla memoria storica e alla cultura è un bene comune).

Il movimento per l’acqua pubblica ha segnato una svolta epocale: l’approccio tecnico giuridico alla nozione di bene comune ha collocato la giurisdizione italiana alle frontiere del dibattito internazionale per un processo costituente, al fine di dare un assetto giuridico al concetto di commons. La modernità politica è così colpita nel suo nucleo novecentesco, la forma partito: «Il comune – scrive Mattei – costituisce un altro genere, radicalmente antagonista rispetto alla definizione esaustiva del rapporto pubblico/privato o Stato/mercato».

Il governo dei beni comuni si articola intorno alla diffusione del potere e all’inclusione partecipativa: esso si ispira all’ecosistema (democrazia ecologica), ossia ad una comunità legata da una struttura a rete che non appare né gerarchica né competitiva. La “fine della storia” segna quindi la nascita di una nuova comunità che consenta relazioni olistiche e mutualistiche.