Disastro scuola: dentro il disastro liberista europeo

Roberto Renzetti
www.megachipdue.info

La crisi economica che ha colpito l’Italia, crisi che parte dagli USA, che gli USA, al solito, trasferiscono ad altri e che in Italia ha avuto un forte impulso dai craxisti degli anni Ottanta e dai medesimi, ora diventati craxifascisti, degli ultimi anni, ci vede sotto esame da parte della UE. Il governo europeo di destra (non lo si dimentichi, quel governo snobbato dall’Italia che ha in Europa come massimo rappresentante un tal Tajani, noto per le sue visite all’ex Re d’Italia Umberto II in esilio in Portogallo), quel governo europeo, dicevo, ci ha rivolto 39 domande su come intendiamo far fronte alla crisi. Alcune di queste domande riguardano la scuola. Di seguito riporto la premessa generale alla lettera della UE e quindi le domande relative alla scuola:

Richiesta di chiarimenti relativi alla lettera indirizzata dall’allora primo ministro Silvio Berlusconi al presidente del Consiglio europeo e al presidente della Commissione europea.

Domanda generale:
1. Per favore fornite una versione postillata della lettera che indichi, per ciascun provvedimento/misura se:
i. È già stato varato, e in caso di risposta affermativa indicare i progressi ottenuti tramite la sua attuazione;
ii. È già stato adottato dal governo, ma non ancora da Parlamento; in caso di risposta affermativa chiarire i tempi necessari all’approvazione da parte del Parlamento e alla sua entrata in vigore; in caso contrario,
iii. È un nuovo provvedimento: in questo caso fornire un piano d’azione concreto per l’adozione e la sua applicazione, comprensivo di scadenze e di tipologia dello strumento legislativo che il governo intende utilizzare.
Si prega di indicare anche, ove appropriato, l’impatto stimato sul bilancio di ciascun provvedimento/misura e i mezzi con i quali lo si finanzierà.

Capitale umano
13. Quali caratteristiche avrà il programma di ristrutturazione delle singole scuole che hanno ottenuto risultati insoddisfacenti ai test INVALSI?

14. Come intende il governo valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Quale tipo di incentivo il governo intende varare?
15. Il governo potrebbe fornirci ulteriori dettagli su come intende migliorare ed espandere l’autonomia e la competitività tra le università? In pratica, che cosa implica la frase “maggior spazio di manovra nello stabilire le tasse di iscrizione”?
16. Per quanto riguarda la riforma dell’università, quali misure e quali provvedimenti devono essere ancora adottati?

Cosa rispondere? Vi sono due possibili approcci: quello di un governo liberista ma non cialtrone con spruzzate catto-democristiane e quello di chi considera la scuola come motore dell’evoluzione politico-sociale e quindi economica del Paese. Mi attengo a questo secondo approccio ritenendo il primo antagonista al mio modo di pensare.

CONSIDERAZIONI GENERALI

La soluzione alla crisi che la destra ipotizza è una soluzione liberista che prevede l’affossamento dei diritti e dello stato sociale conquistato in anni di dure lotte e, mentre in ambito economico, spinge per abolire l’articolo 18, nella apparentemente meno importante scuola spinge per una formazione scolastica che prepari cittadini acritici, ubbidienti e flessibili senza ritorno alla produzione ed al consumo. Sono anni che le cose vanno avanti così e la destra italiana ha solo le colpe che il suo livello di preparazione le permette mentre la pretesa sinistra è dietro ogni disastro sociale con cui abbiamo a che fare.

Serve, tra il molto altro, ricordare Tiziano Treu ed il lavoro flessibile? E D’Alema con la svendita del patrimonio pubblico a zero lire? E Bassanini con il taglio delle cattedre per la riduzione degli insegnamenti, l’accorpamento di classi che non raggiungano un determinato numero di alunni, la chiusura di scuole che non abbiano un dato numero di alunni, il licenziamento (meglio: la non riassunzione) della pletora di precari che da almeno 20 anni permettono che la scuola vada avanti, il licenziamento dei fondamentali “bidelli”, la riduzione a meno dell’osso del personale ATA, … con il Ministero che perde la qualifica di Pubblica Istruzione, con la dirigenza? E Luigi Berlinguer, con il concorsone, i pedagogisti della domenica e la scuola dell’autonomia? E Panini con il suo contratto scuola del 1998?

La scuola pre Berlinguer era molto ben strutturata e, negli anni che ci separavano dal 1923 (inizio Riforma Gentile con i contributi dei massimi pedagogisti non fascisti dell’epoca: Croce, Salvemini, Mondolfo, Lombardo Radice, Codignola…), erano stati fatti qua e là cambiamenti di enorme importanza: la Scuola Media Unica del 1962-63 e la Riforma della Scuola Elementare (con l’introduzione dei moduli) del 1990-91.

Con governi ballerini e mancanza di continuità legislativa non si era proseguito sulla strada dei raccordi tra riforme fatte e da fare. In particolare erano rimasti dei buchi neri nella stessa Scuola Media che non si capiva bene cosa fosse tra una scuola elementare pregevole ed una degna scuola di secondo grado (le superiori).

Vi erano altri buchi neri sia negli istituti tecnici, che riguardavano la mancanza di flessibilità ed aggiornamento dei loro programmi per stare al passo quotidiano con le innovazioni tecniche e scientifiche che entravano nel mondo produttivo, sia e soprattutto nei professionali che erano diventati uno strumento di finanziamento indiretto per le scuole di tale natura a gestione confessionale (la maggioranza), poi sindacale, quindi regionale e che, salvo rarissime eccezioni, erano vere fabbriche di ignoranza. Questa scuola si doveva e poteva riformare nella linea della strutturazione forte che, a quei livelli scolari, non può mancare pena l’inarrestabile decadenza. Ed io intendo per ristrutturazione forte quanto si tende a dimenticare e che fu detto con estrema chiarezza da Gramsci:

“Oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola “disinteressata” (non immediatamente interessata) e “formativa” o di lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola élite di signori e di donne che non devono pensare a prepararsi un avvenire professionale e di diffondere sempre più le scuole professionali specializzate in cui il destino dell’allievo e la sua futura attività sono predeterminati”.
Ed aggiungeva:
“Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. … Occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato”
[Volume III dei Quaderni dal Carcere]

Ben altro rispetto alle sciocchezze di Maragliano che pensa ad una scuola che non sa di scuola, fosse anche con l’ausilio didattico di videogiochi.

Cosa hanno fatto Berlinguer ed il suo staff di pedagogisti e psicologi? L’operazione in uso in regimi liberisti: iniziare la fase della liberalizzazione della scuola preparandola per la privatizzazione. E questa non è una boutade perché Berlinguer ha seguito pedissequamente ciò che voleva l’OCSE le cui nefandezze vedremo più oltre.

Sul fronte della scuola i nostri sinistri politici avevano letto da qualche parte che la scuola sarebbe una potenziale fonte di infiniti guadagni (la seconda fonte dopo la sanità) se solo si fosse riusciti a renderla privata. Chissenefrega di quell’idiozia di scuola pubblica come istruzione garantita almeno (almeno!) fino ai 16 anni! Costi, solo costi dai quali i potenti non guadagnano nulla (gli idioti sono sempre ricchi). La scuola così come è costa troppo ed è una spesa superflua per i fini che si vogliono conseguire. Occorre pensare una scuola che costi molto meno e che prepari dei cittadini a livello di buoni consumatori in questa società tecnologica.

Occorre che i cittadini conoscano, ad esempio: digitale, satellitare, DVD, Laser, Hi Tech, PC, Internet, Provider, CD, masterizzatore, Ipod, …; non è invece in alcun modo necessario che conoscano i meccanismi scientifico-tecnologici che sono dietro questi nomi.

Per intenderci: occorre che si abbia la preparazione tecnologica sufficiente per essere consumatori ma non tale da essere creatori di scienza e tecnologia.  Questo almeno a livello di impegno di scuola pubblica, di quella che è pagata dalla fiscalità generale.

Vi è naturalmente necessità di cittadini preparati a livelli superiori, ma è del tutto inutile e soprattutto è un vero spreco di risorse pensare di formare tutti in modo che possano pensare all’accesso a queste superiori specializzazioni. Chi serve per tali fini verrà preparato in scuole speciali. La selezione per accedere a queste scuole la faranno: le stesse scuole private e le imprese. Non ha senso continuare a dissipare denaro nell’istruzione pubblica.

Il mercato è buono e gli interventi dello Stato sono cattivi: deregulation anziché controllo statale, liberalizzazione di commercio e capitali, privatizzazione di ogni cosa abbia il sapore del pubblico (come sosteneva l’economista protoliberista americano Friedman, grande ispiratore del Cile di Pinochet).

E come si privatizza la scuola? Così come era, l’impresa sembrava impossibile. Nessun privato si accolla tanti insegnanti utili per un’istruzione di qualità ma non per i profitti. E chi si accolla i ragazzi con handicap che richiedono insegnanti di sostegno (le scuole confessionali, ad esempio, già respingono l’handicap)? Chi edifici, laboratori, trasporto, preparazione docenti (quest’ultima cosa è oggi altra fonte di guadagno per potentati collaterali al potere politico)? Nessuno fa questo, di modo che l’affare sfuma ed i tanti soldini che si tirano fuori dalla scuola, ad esempio negli USA, da noi niente!

Ma anche se ci fosse stato qualcuno che avesse voluto acquistare in blocco tale sommo bene non avrebbe rischiato di fare lui l’operazione finalizzata al profitto perché sarebbe stato chiaro che si veniva meno in servizi e qualità con proteste popolari importanti. Berlinguer e i pedagogisti buoni per ogni stagione hanno risolto il problema con le seguenti operazioni. Primo: destrutturare, cioè togliere ogni rigidità al sistema e renderlo liquido (un poco come D’Alema pensava il suo partito che tutti sappiamo la fine indegna che ha fatto). In tale situazione, poiché si aveva a che fare con giovani fanciulli e non con idrocarburi o caselli autostradali insensibili a scelte politiche, gli utenti giovani della scuola hanno iniziato a credere che si potesse giocare a scuola così come teorizzavano i pedagogisti di regime (Vertecchi, Maragliano, Tagliagambe, Bertagna, Ribolzi, Ceruti & C) che volevano una scuola che non sapesse di scuola, che inventavano l’autonomia scolastica (ogni scuola fa per sé ed è in concorrenza con l’altra), che caparbiamente insistevano su di essa, che introducevano i percorsi educativi per gli studenti (ognuno si fa il suo curriculum e studia ciò che vuole) e che se ne fregavano dell’impegno e dell’indispensabile fatica.

E gioca oggi e gioca domani, con i genitori di tali sfortunati fanciulli (formatisi negli anni del rampantismo craxiano) che hanno creduto di partecipare al gioco facendo i sindacalisti dei figli, la scuola si è completamente dequalificata tanto da dare risultati completamente insoddisfacenti (e non mi riferisco solo alle indagini internazionali ma a quello, ad esempio, che lamentavano sempre con maggior forza gli insegnanti del primo anno di università, quella indegna del 3 + 2: i ragazzi non sanno leggere, scrivere e far di conto; e neppure capire concetti elementari).

Cosa aspettarsi del resto di diverso se è iniziata una caduta verticale della credibilità della scuola fino a situazioni che paiono ormai irrecuperabili? Si è permesso da legislatori incompetenti che la magistratura decidesse chi deve essere promosso o meno, si è permesso che i genitori sindacassero tutto, si sono resi responsabili gli insegnanti, si sono assunti sempre più insegnanti senza verifiche adeguate, si sono fatte sanatorie con apporti sindacali vergognosi (abilitazioni e passaggi di cattedra del 2001, ad esempio) ed in definitiva si è lasciata marcire la scuola.

Poi è arrivata Moratti, altra ignorante degli argomenti in discussione, che ha spinto con maggiore decisione verso la dequalificazione (tagli di risorse continui e pedagogista cattolico Bertagna che tagliava pezzi culturali fondamentali come l’evoluzionismo) e che partiva dal volere una scuola libera (insieme a vari intellettuali come Adornato ed Antiseri, … che fine hanno fatto, oggi? ed anche Dino Boffo, Innocenzo Cipolletta, Emma Marcegaglia, Antonio Martino, Angelo Panebianco, Sergio Romano, Cesare Romiti, Marco Tronchetti Provera, Giorgio Vittadini, …) per arrivare alle scuole confessionali, sempre e comunque da foraggiare alla faccia di chi paga le tasse, che notoriamente non vanno alle scuole di lusso dei preti (Nazzareno, Massimo, San Giuseppe di Merode, San Leone Magno…).

Quindi tal Fioroni che è emerso alle cronache solo per i finanziamenti tolti alle scuole pubbliche e dati (con lettera di accompagnamento ammiccante) alle scuole dei preti (ancora ed ancora!). Un vero disastro la scuola dopo anni come questi. L’istituzione non riesce a preparare gli studenti ed in più costa un mare di soldi per tutto il personale che impiega. È qui che arriva Gelmini che più ignorante non si può (ma ha dietro le spalle una tal Aprea che ignorante non è pur rappresentando i mal protesi nervi e la clientela meridionale al servizio dei padroni del dané del Nord).

Gelmini non ha riformato la scuola, ha semplicemente tirato una linea in fondo al bilancio fallimentare degli ultimi anni ed ha detto, con l’avvocato Tremonti aleggiante come un vampiro, che la scuola va ridotta drasticamente al nulla. Ed è ovvio che il degrado può resistere fino ad un certo punto, dal quale poi le famiglie iniziano a pensare alla scuola seria che Berlinguer ha cancellato (con il sostegno di tanti ignavi furbacchioni e profittatori di corsi d’aggiornamento come CGIL Scuola, CIDI, Legambiente Scuola, Proteo, …).

Nel frattempo, tagliando e riformando a modo loro, mai si sono occupati di salari, diventati un contributo per non morire di fame (a parte quelli degli insegnanti di religione che, dopo il miracolo dell’immissione in ruolo senza concorso, godono di aumenti incredibili, mai sognati da altri insegnanti), così sempre più la scuola è diventata appetibile ai cercatori del secondo lavoro. Al suo interno ormai andiamo ad una popolazione docente che all’85% è femminile e ciò vuol dire che gran parte degli insegnanti è (al di là della preparazione che può ed anzi è certamente eccellente) soprattutto fatto di madri e mogli di professionisti che non hanno la scuola medesima come primo lavoro perché la famiglia è la famiglia, altrimenti Ruini e Bagnasco di Santa Romana Chiesa che ci stanno a fare ?

Gli ultimi sciagurati interventi sulla scuola sono di Gelmini-Tremonti. Gelmini non sa nulla di scuola ed è inutile pensare al recupero di encefalogrammi piatti. Faceva pena vederla pontificare in una situazione che la vedrà presto indicata nella storia d’Italia come quella che ha fatto il maggior danno al Paese compatibilmente con le sue capacità (cioè: meno male che ne ha poche).

La scuola non si riforma per decreti legge decisi in fretta dentro il Ministro dell’Economia che era retto da un avvocato che neppure era in grado di capire un economista che gli parla di derivata seconda e che quindi non è in grado di leggere curve e concavità di esse (crescite e decrescite, per intenderci). E costui doveva interpretare il comune sentire degli italiani ammazzando il primo bene di un Paese? Costui doveva dare l’indirizzo al declino completo del Paese portandolo ad essere un Paese non industriale ma di servizi da offrire a padroni localizzati altrove ed alla cui corte va rubizzo l’avvocato con il cappello craxista in mano.

Qualche dettaglio lo posso dare in attesa di avere uno scritto in cui le bestialità di tali intelligenze siano raccontate nel consueto disordine, approssimazione, incomprensibilità, incongruenze ed idiozie varie.

La scuola non serve molto se non punta ad una preparazione ampia e non direttamente e strettamente finalizzata ad un qualche uso. Spiego meglio. Vi sono alcuni bipedi che credono sia possibile insegnare l’uso di una macchina e con questo di aver risolto il problema. Il giovane sa tutto su quella macchina ed è insostituibile… fino a che quella macchina non è sostituita, dopodiché la rigida preparazione di quell’ex ragazzo non serve più ed è conveniente assumerne un altro lasciando il primo come un vecchio arnese, a quel punto non più riciclabile (eccheglienefrega del capitale umano al padrone liberista? Si tratta di massa eccedente!).

Gli avvocati, sia tributaristi che divenuti tali a Reggio Calabria, non sanno che questa operazione di preparazione specialistica su tecniche precise è fallimentare soprattutto per lo studente che deve diventare un lavoratore. Una preparazione meno specialistica e più umanistica rende molto più flessibili ed in grado di riciclarsi continuamente.

Una scuola insomma (ed ormai non so se ridere o piangere di fronte ad una reiterazione che da parte mia ha almeno 45 anni) che più che insegnare nozioni insegni come imparare, come essere educatori di se stessi per tutta la vita. Non è un caso che più la preparazione scolare è spinta in un settore tecnico e meno successi di studio superiore si hanno (i dirigenti ministeriali dovrebbero studiare le esperienze avute nel mondo, come quelle disastrose delle scuole che dovevano preparare alla fabbrica di occhiali nella ricca Baviera in Germania).

Le sperimentazioni, buttate con fare negligente ed ottuso da Gelmini e non solo, avrebbero dovuto servire a questo ed io che ho lavorato per molto tempo alla teoria ed alla pratica di sperimentazioni so che non vi è mai chi legge i risultati per trarne conseguenze. E chi doveva farlo? Un preteso ministro che non sapeva di cosa parlava, se parlava? O chi entra in istituti come Invalsi o BDP/INDIRE? Se il merito non c’è in tali assunzioni, e non c’è, si ingenera una catena di cattiva trasmissione dei processi che porta al disastro e noi siamo al disastro. Possibile che, ad esempio, non si sappia che per apprendere la matematica, per diventarne non solo uno che conosce a memoria i teoremi ma uno che la pratica con divertimento e successo, serve prima di tutto conoscere la lingua italiana ed essere stato educato a ragionare attraverso le più disparate discipline non matematiche? Se non si capiscono concetti elementari, connessioni logiche semplici, è impossibile imparare la matematica. E Gelmini, con cavalcata di barbari a lato, ha lavorato per insegnare più matematica tagliando proprio ciò che permette il suo apprendimento. Non hanno capito un tubo e, lor signori medesimi, sono l’esempio dei disastri che provocano culture abborracciate e finalizzate al successo e non alla formazione. Intanto cedono i nostri studenti tecnici e professionali direttamente a Confindustria perché li utilizzi gratis al fine, dicono gli ipocriti, di formarli.

E VENIAMO ALLA PRIMA DOMANDA DELLA UE

13. Quali caratteristiche avrà il programma di ristrutturazione delle singole scuole che hanno ottenuto risultati insoddisfacenti ai test INVALSI?

Questa prima domanda, come le altre, parte dal dare per scontata l’oggettività e la giustezza dell’approccio liberista alla scuola e quindi delle valutazioni INVALSI. Per carità, niente di più errato, indipendentemente dal grado di preparazione degli studenti. Per raccontare cosa è l’INVALSI serve premettere qualcosa sul suo papà, l’OCSE.

L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) è stata istituita con la Convenzione di Parigi firmata il 14 dicembre 1960 ed entrata in vigore il 30 settembre 1961.

Attualmente aderiscono all’OCSE una trentina di Paesi industrializzati, che rappresentano i due terzi dell’intera produzione mondiale di beni e servizi ed i tre quinti delle esportazioni complessive. La possibilità di diventare membri dell’OCSE è condizionata all’impegno da parte dello Stato richiedente di avere un’economia di mercato ed una democrazia di tipo pluralistico, come quella di Berlusconi, per intenderci.
In base al proprio statuto, l’OCSE si occupa delle più rilevanti questioni in campo economico e sociale. Uno spettro di questioni molto ampio.

L’OCSE è anche l’agenzia che promuove, come visto, le indagini comparative sulla scuola dei vari Paesi membri. L’interesse per la scuola di un’agenzia per lo sviluppo economico è tutto un programma finalizzato ad armonizzare i sistemi d’istruzione con un mondo globalizzato. È d’interesse rendersi conto di cosa raccomandava l’OCSE nel 1967, e come vi sia stata una non casuale identità di vedute con Bassanini, Berlinguer e liberisti comunisti, con la CGIL Scuola come mosca cocchiera.

È inutile soffermarsi sul fatto che l’OCSE è interessata al massimo profitto mediante persone che siano educate ad essere brave nel produrre e/o brave nel consumare. Con queste finalità interessa la scuola, almeno una scuola di un certo tipo, ma è indifferente, almeno in prima battuta, che la scuola sia pubblica o privata.
Possiamo ora discutere dell’INVALSI, Istituto Nazionale per la VALutazione del Sistema d’Istruzione. Esso nasce per produrre in Italia le famigerate prove PISA-OCSE. Vediamo con ordine:

PISA (Programme for International Student Assessment) è l’acronimo che definisce un programma di valutazione degli apprendimenti degli studenti quindicenni lanciato dall’OCSE nel 1997.

In quanto ‘programma’, PISA è qualcosa di più e di diverso rispetto alle tante indagini internazionali attraverso le quali i Paesi hanno finora misurato e confrontato gli esiti dei loro sistemi educativi in determinati ambiti disciplinari e in diversi momenti del percorso formativo. PISA, infatti, è lo strumento di cui i Paesi OCSE si sono dotati per acquisire, a scadenze regolari, dati affidabili su cui calcolare gli indicatori di risultato degli studenti.

La produzione degli indicatori internazionali dell’istruzione è stata avviata dall’OCSE alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, attraverso il progetto INES (Indicators of Education Systems), quando l’esigenza di fronteggiare i gravi problemi della recessione economica e della disoccupazione spinse i Paesi più sviluppati a guardare con interesse diverso alle questioni dell’istruzione e della formazione e a considerarle come leve essenziali dello sviluppo economico.

In questa prospettiva furono avviate significative azioni di riforma dei sistemi formativi e, in molti Paesi, furono impiantate strutture di valutazione dell’efficacia ed efficienza dei sistemi stessi. Parallelamente si rafforzarono la cooperazione e la comparazione internazionale nei Paesi dell’area OCSE, anche attraverso la costruzione di un sistema di indicatori internazionali dell’istruzione. Da circa 15 anni, quindi, gli indicatori dell’istruzione forniscono informazioni sull’organizzazione e sul funzionamento dei sistemi educativi così come informazioni sulla realtà socioeconomica dei Paesi membri sono fornite dagli indicatori economici che l’OCSE pubblica da diversi decenni e che sono ben più noti al vasto pubblico.
Gli indicatori dell’istruzione sono pubblicati, in media ogni due anni, nel volume intitolato Education at a Glance (Regards sur l’éducation nella versione francese), nel quale gli indicatori sono presentati non isolatamente, ma raggruppati in modo da rappresentare le caratteristiche strutturali, il funzionamento e i risultati dei sistemi formativi.

Così nell’edizione del 2001 di Education at a Glance (EAG 2001) i 31 indicatori sono raggruppati nei seguenti sei ambiti:

  • contesto dell’istruzione (3);
  • risorse umane e finanziarie investite in istruzione (6);
  • accesso e partecipazione all’istruzione (6);
  • ambiente educativo e organizzazione degli istituti scolastici (7);
  • risultati dell’istruzione in termini di risultati individuali, sociali e come sbocchi sul mercato del lavoro (5);
  • risultati dell’istruzione in termini di ‘apprendimento’ degli studenti (4).

Dei 4 indicatori presenti nell’ambito dei risultati di apprendimento degli studenti, tre sono stati calcolati su dati forniti dalle indagini TIMSS (Third International Mathematics and Science Study, la terza indagine internazionale su matematica e scienze) e TIMSS R (Third International Mathematics and Science Study Repeat, la seconda fase della stessa indagine), rispettivamente nel 1995 e nel 1999. Queste indagini sono state condotte dalla IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement), un’organizzazione privata cui aderiscono istituti di ricerca educativa di diversi Stati che dal 1959 conduce studi internazionali sui risultati degli studenti in matematica, scienze, composizione scritta, lettura, educazione civica.

Il quarto indicatore è stato elaborato su dati forniti dall’indagine IALS (International Adult Literacy Survey), condotta negli anni 1994-98 da Statistics Canada. La popolazione di riferimento è nel caso di TIMSS quella dei tredicenni, mentre nel caso di IALS è quella adulta oltre i 25 anni.

In alcuni ambiti sono compresi indicatori ‘solidi’, quelli, cioè, calcolati su dati che per lunga tradizione sono raccolti in tutti i Paesi (spese per l’istruzione, tassi di scolarizzazione, numero degli insegnanti, dei diplomati e dei laureati); nell’ambito relativo ai risultati di apprendimento degli studenti, invece, non è stato possibile costruire fino al 2001 indicatori pienamente affidabili per mancanza di una solida base di dati.

Si è cercato di sopperire alla lacuna utilizzando, di volta in volta, i dati acquisiti in precedenti indagini internazionali condotte prevalentemente dalla IEA, indagini che hanno riguardato, nel corso degli anni, gli ambiti più diversi (dalla Reading Literacy alla Computer Education) e le popolazioni scolastiche più diverse (dalla scuola della prima infanzia alla secondaria superiore). La produzione regolare degli indicatori, invece, richiede un altrettanto regolare produzione di dati, proprio quella che il programma PISA intende assicurare.

Ebbene i cosiddetti ricercatori dell’INVALSI sono intercambiabili con IEA-PIRLS e OCSE-PISA. Si tratta di persone con studi in statistica (il responsabile del gruppo di ricerca) che hanno lavorato per analizzare i risultati dei test OCSE-PISA o di insegnanti comandati che si occupavano di cose come il disagio educativo (ed io so, per mia conoscenza dei comandi al Centro Europeo Educazione, poi Centro Europeo Dell’Educazione, presso Villa Falconieri prima che ivi si insediasse l’INVALSI o all’Ufficio IV del Ministero degli Esteri, come si ottengono tale comandi, in modo spesso indipendente dalle singole abilità). In ogni caso, in linea generale si tratta di pedagogisti e docimologi, il peggio dei fornitori di ogni giustificazione al sistema di potere regnante. Se si aggiunge a questo il clamoroso errore nelle griglie di valutazione del giugno 2011, ci si deve chiedere con molta ragione chi valuta chi?

Costoro sanno, perché se non lo sapessero sarebbero da scalciare e cacciare con disonore, che non esiste una valutazione interna al sistema d’istruzione indipendente dai fini (obiettivi) che ci si è prefissi. Altra cosa è la valutazione che farebbe un datore di lavoro che volesse assumere. Altra dallo Stato che deve garantire una corretta e sana preparazione e non si deve occupare delle esigenze di chi vuole assumere (se non in seconda battuta). Dico meglio. Nonostante la quantità spropositata di pedagogisti, sociologi e docimologi al servizio dei vari governi (non importa quali), nessuno ha mai osservato che una valutazione risponde ad una data finalità che ci si è data per raggiungere determinati obiettivi.

NON HA ALCUN SENSO INTERVENIRE DALL’ESTERNO su processi didattici in corso con dei test preparati altrove che ingannevolmente vorrebbero misurare le conoscenze in determinati ambiti. In realtà questi test servono per modificare il piano di intervento dell’educazione formale che, non a caso, è decaduta da quando sono iniziati gli interventi OCSE ed UE a partire da Berlinguer, attraverso i test PISA. Sono anni che sentiamo i vari ministri dell’istruzione, che ignorano l’ABC della didattica in senso lato, affermare che occorre modificare l’insegnamento in modo da rendere i nostri studenti in grado di rispondere a quei test.

Si vogliono pian piano creare degli ubbidienti a stimoli predefiniti, con risposte uguali negli oltre 30 Paesi industrializzati aderenti all’OCSE. Gli addetti ai lavori sanno di cosa parlo. Per i non addetti valga un esempio semplice. Per risolvere un problema di matematica dello scientifico sono necessarie alcune abilità, per risolvere un test OCSE di matematica ne servono altre.

Tutti sanno che lo studente dello scientifico ha bisogno di un paio di mesi per imparare a risolvere un test OCSE mentre uno che risolve agevolmente i test OCSE ha bisogno di qualche anno per imparare a risolvere i problemi dello scientifico. Allora che facciamo? Bocciamo i nostri studenti dello scientifico? Evidentemente non si vuole più uno studio approfondito e critico ma solo l’impadronirsi di alcune tecniche molto meno dispendiose per la società che bada solo al dané. Ma nessuno lo dice e ci fanno sembrare ineluttabile ciò che accade demoralizzando studenti ed insegnanti.

Provo ad argomentare ancora di più poiché conosco i trascorsi dell’INVALSI, fin dal 1970 quando Gozzer mise su Villa Falconieri a Frascati. L’inizio era buono, poi quel luogo divenne rifugio di quegli insegnanti che per scappare dalla fatica della scuola si fecero comandare. Non avendo mai o poco insegnato e comunque girando intorno ad improbabili discipline, costoro spiegavano a chi lavorava senza raccomandazioni nella scuola, come si faceva scuola. Hanno dedicato una vita ai test e, poveretti, non ci hanno mai capito un tubo. Ora fanno gli idraulici e si lanciano verso questa scelta non perché le cose siano cambiate rispetto alla bestialità della prova ma perché il padrone OCSE ordina e lor signori, sempre ubbidienti, eseguono.

Poiché il test dovrebbe avere una valenza epistemologica superiore al rapporto o scritto o orale che nella massima parte si è sempre tenuto nelle nostre scuole, chiedete ai docimologi qual è tale valenza epistemologica superiore, quali prove sono state fatte con quali risultati, quante classi, quante di controllo, a che livello, con test preparati da chi e su quali discipline. Insomma: dove si fanno i test? Come funzionano? Le scuole dove si fanno test forniscono risultati migliori nella preparazione degli studenti? Se sì, dove, come e quando? I docimologi di oggi, che si suppone abbiano letto Gattullo, hanno l’obbligo di dire tutte queste cose ed aggiungere: chi prepara i test? Chi li testa? Dove si testano? Sono state previste classi di controllo? Oppure andiamo, come sempre, random?

Ma assumiamo un tono didascalico prendendo il discorso da lontano. Un insegnante preparato, come la gran parte degli insegnanti che lavorano in Italia (il riferimento è a mia conoscenza almeno fino a 10 anni fa), sa che non esiste un programma a priori da somministrare ad una data classe di una data scuola di una data città. Quella classe, quella scuola, quella città, … qualificano i fruitori del servizio scuola e l’insegnante non può partire come se nulla fosse.

Anche i patiti dei test, coloro che hanno letto letteratura anglosassone inutilmente perché non hanno appreso nulla, devono sapere che esistono le prove di ingresso, DOPO le quali, è possibile capire cosa fare e come farlo. Esemplifico per tutti. Se si è in una città con nefaste influenze di camorra occorre recuperare i ragazzi riportandoli anzitutto alla conoscenza ed al rispetto della legalità. Questo tempo è perso rispetto allo studio delle poesie ma è fondamentale per il Paese. Alla fine del ciclo di studi i ragazzi riconquistati vanno premiati su valutazioni che non siano fiscali sulle poesie. Che facciamo, questa scuola la vendiamo ai privati, cioè alla camorra che potrà educare a suo modo i pargoli? Se in alcune zone del Paese la scuola deve occuparsi di inserire stranieri, extracomunitari o no, farà inizialmente più fatica e non dovrà essere penalizzata per questo rispetto al Collegio delle Fanciulle frequentato (inutilmente) dalla Moratti.

Ogni persona pensante capirebbe questo ragionamento.

Ma oltre ai casi citati vi sono motivazioni molto più interne all’insegnamento. Ogni classe è differente e ve ne sono alcune che ti tirano e ti portano rapidamente molto avanti nei programmi, negli approfondimenti, nelle discussioni extra programmi (per tranquillizzare Garagnani, l’esimio fustigatore di insegnanti della CGIL, che merita l’encomio del pernacchio di Eduardo; esemplifico sulle domande del tipo: che ne pensa del film ultimo uscito? e di quel libro?…). Insomma il programma di un insegnante si costruisce lungo la strada e, attenzione!, la prova di valutazione deve avvenire su ciò che si è fatto in sintonia con quegli obiettivi prefissati e che, alla fine del percorso educativo, possono trovare una qualche modifica.

Che senso ha, a questo punto, che arrivi una prova INVALSI? Che ricercatori sono quei personaggi che lì lavorano (?)?

Purtroppo so rispondermi anche per averlo appreso da quella virago di nome Moratti che fece il Ministro dell’Istruzione. Ma prima occorre dire che queste prove furono richieste proprio dall’OCSE nel 1997 in un documento indirizzato all’Italia. Leggiamo:

Abbiamo dedicato un po’ di tempo all’esame delle implicazioni che i principi dell’autonomia e del decentramento e il processo di valutazione potrebbero avere per le scuole, e ciò al fine di rendere comprensibile gli effetti delle riforme.
Il punto critico è, a nostro avviso, il miglioramento delle scuole e siamo persuasi che i principi dell’autonomia possano essere utili a questo scopo. In effetti, alle istituzioni scolastiche è stata conferita l’autonomia affinché esse possano migliorare, e non perché possano “fare le proprie cose” in maniera disinvolta. Abbiamo anche visto che il decentramento della presa delle decisioni, poniamo, in campo finanziario o della responsabilità gestionale potrebbe anche, se non fosse strettamente legato al miglioramento pedagogico, non avere successo e non recare alcun beneficio alle scuole.
L’autonomia è stata conferita alle istituzioni scolastiche italiane nel quadro di una legge sul decentramento. Essa resta tuttavia un concetto distinto e deve essere concepita come un mezzo per migliorare l’insegnamento, implicando quindi la necessità di rendere conto, di sottoporsi alla valutazione e di beneficiare di un sostegno [si noti come Berlinguer sia stato alunno diligente dell’OCSE, ndr].
[…]
Sosteniamo l’opportunità di creare un sistema nazionale di valutazione indipendente con il compito di esaminare l’efficacia delle riforme una volta che queste siano attuate. Riteniamo, inoltre, che sia molto valida l’idea di istituire un centro indipendente di ricerca che intraprenda un programma a lungo termine di indagini in campo educativo, come ad esempio il monitoraggio di una particolare classe di età nel passaggio dalla scuola al lavoro, o progetti di ricerca per conto di alti enti interessati ai problemi della scuola, come le associazioni imprenditoriali.
Noi raccomandiamo che sia istituito un sistema di valutazione indipendente, che incentri la sua attività sulla definizione di parametri di valutazione, per mettere le scuole nella condizione di autovalutarsi con riferimento a tali parametri, sviluppi test, svolga verifiche ai vari livelli scolastici e fornisca consulenza su come devono essere allocate le risorse perché si ottengano risultati più equi e migliori.
Raccomandiamo altresì che il Governo consideri l’opportunità di istituire un ente indipendente incaricato di svolgere ricerche indipendenti in materia di istruzione utilizzando sia fondi pubblici che fondi provenienti da altre fonti, se c’è interesse ad avere un parere indipendente sul funzionamento del sistema formativo.
[…]
Raccomandiamo la creazione di un sistema di testing per valutare gli alunni in determinati momenti del corso di studi o in determinate classi, specialmente al termine della scuola dell’obbligo. Spetta al governo decidere quale tipo di estensione debba avere la valutazione: se a campione o per l’intera coorte, in modo che ogni allievo e la sua famiglia possano conoscere il livello medio di rendimento della scuola frequentata.
Raccomandiamo, inoltre, che i risultati di questa valutazione vengano messi a disposizione dei genitori e della comunità, in genere sotto forma di media delle scuole, in modo che si possa decidere come le singole scuole possano migliorare e come le pratiche che hanno successo possano essere disseminate a favore di un maggior numero di insegnanti.
Passiamo ora alle sciocchezze che la virago Moratti è riuscita a dire. Innanzitutto occorre lavorare a scuola per preparare i ragazzi alle prove OCSE-PISA. Quindi che occorrono insegnanti più preparati ed infine che, per vincere l’abbandono scolastico serve avere più scuole professionali. Un campionario davvero incredibile. Nel 2002, così Paola Tonna, in Scuola e Didattica n° 1, 2003, riassumeva le posizioni della Moratti:

Il Ministro Moratti, dal canto suo, ascrive i modesti risultati dell’Italia, alla prevalenza di una cultura delle procedure, del processo e dell’economicità, piuttosto che di una cultura della valutazione dei risultati. È necessario perseguire quella trasparenza dei risultati (accountability) per fornire i risultati attesi. […][…] Da ultimo, la Moratti ha posto l’accento sul fatto che una maggiore qualificazione degli insegnanti può essere un fattore determinante alla risoluzione del problema. Rispetto al problema, anch’esso emerso dai risultati presentati, dell’abbandono scolastico che vede l’Italia in una posizione di netto svantaggio rispetto alla media europea, il nostro Ministro risponde che la via del rafforzamento del canale della formazione professionale, come sta avvenendo nella U.E. dove molti Paesi stanno già e da tempo investendo moltissimo, va proprio nel senso di rimediare a questa pesante situazione.
Roma 29 maggio 2002
Insomma mi pare sia chiaro cosa si vuole fare attraverso uno strumento, il test INVALSI, che con la didattica, con l’insegnamento in una scuola di un Paese democratico, non c’entra nulla.
In definitiva, le scuole che hanno dato risultati negativi alle prove INVALSI resteranno lì perché non vi è alcuna autorità che sappia come intervenire se non punendo insegnanti e Dirigenti su pretese colpe di leso liberismo. Io manderei a dirigere tali scuole dirigenti come quell’alto funzionario del MIUR che riuscì a pensare a tunnel fantastici per neutrini, tunnel che collegherebbero Ginevra ed il Gran Sasso, o quei funzionari Invalsi che hanno preparato le griglie di valutazione di matematica agli esami di Terza Media nel giugno 2011.

ED ORA RISPONDIAMO ALLA SECONDA DOMANDA UE

14. Come intende il governo valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Quale tipo di incentivo il governo intende varare?

Sugli insegnanti, in questi anni, si è scatenato un fuoco di fila di attacchi che hanno chiari secondi fini ed in questa guerra svetta per impegno la TreeLLLe, un’organizzazione che lavora per la Confindustria e nella quale lavorano gomito a gomito Tullio De Mauro e Giuliano Ferrara. Nel Quaderno 3 di questa organizzazione si legge: “Realizzare una Agenzia nazionale di valutazione, autonoma e indipendente, con funzioni di authority per la valutazione esterna della ricerca, della didattica e degli atenei, mediante la trasformazione, entro un tempo ragionevole, degli attuali organismi di valutazione – Cnvsu e Civr.” Quando si parla del sistema di valutazione, dei Dirigenti che dovrebbero controllare, e di ammenicoli simili, si mente spudoratamente anche perché non si sa bene chi valuta coloro che dirigono la TreeLLLLe.

Un insegnante, in Italia, passa attraverso prove molto selettive (laurea, abilitazione, concorso, frequenza di due anni di corsi di Scienze dell’Educazione e varie altre prove come tirocinio, tutoraggio…). Si tratta di esami di Stato per l’abilitazione all’insegnamento e non di sciocchezze, come fare gli esami facili a Teramo (Brunetta) ed a Reggio Calabria (Gelmini), e screditare questi corrisponde a screditare quelli che generano avvocati, ingegneri ed architetti. Ultimamente erano entrate in funzione le scuole di perfezionamento SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Superiore) che coloro che parlano di impreparazione degli insegnanti e di merito, hanno subito chiuso. I nostri precari sono persone preparate che hanno fatto innumerevoli prove che nessuno però prende ora in considerazione. La loro denigrazione passa attraverso quella pletora di pedagogisti che hanno il ruolo di eseguire ciò che i governi vogliono senza verifiche finali (per costoro è così, altrimenti i Vertecchi e Maragliano li dovrei incontrare a chiedere l’elemosina in un angolo di strada).

Le valutazioni le preparano loro e loro dovevano prepararle per il famigerato concorsone Berlinguer-Panini. Ora un professionista in fisica può accettare di essere valutato da un fisico ma da un pedagogista no, perché non si sa bene cosa il pedagogista deve accertare e quale preparazione avrebbe per farlo. Se è la capacità di fare l’insegnante, indipendentemente dalla disciplina, vi erano quei corsi delle SSIS e cose simili, anche universitarie.

Se si ritiene che non basta conoscere la fisica per insegnare io acconsento ma debbo dissentire che sia mio giudice, in quanto insegnante, un pedagogista che sa di didattica del nulla ma non di fisica (più volte ho chiesto ai pedagogisti di turno come introdurre il concetto newtoniano di forza visto che la definizione nasce da concetti non tutti definiti. La risposta è sempre stata che questo problema lo dovevo risolvere io. Caspita!). Se solo si pensa che alla fine di ogni ciclo di studi, quando vi sono gli esami, ogni commissario DEVE fare una relazione sulla preparazione media degli studenti… Dove valutare meglio gli insegnanti di quel corso? Io di relazioni ne ho fatte varie decine, sia di lode all’insegnante sia di sua stroncatura, ma non sono a conoscenza di ricadute che abbiano promosso o bocciato l’insegnante del quale parlavo.

La valutazione degli insegnanti ha in realtà altri fini tra cui, il più importante è rendere la persona dipendente sempre più dal suo diretto Dirigente e quindi sempre più ubbidiente. Ancora non a caso: quando partirono le mamme di tutte le riforme destrutturanti la scuola, quelle del 1997-99 realizzate da Berlinguer e Bassanini, ad esse si accompagnava la legge sulla dirigenza e sulla parità scolastica. I Presidi e Direttori Didattici divennero Dirigenti senza colpo ferire, niente esami con promozione generalizzata (il candidato, dopo aver autocertificato il collegamento di 300 ore ad internet, poteva andare all’orale o con il suo avvocato o con il sindacalista di fiducia).

Costoro possono non essere preparati perché servono come capireparto da cui dipende (è recentissimo) anche la punizione diretta dell’insegnante e da cui dipenderà (prestissimo) l’assunzione degli insegnanti (Basta con il modello iper accentrato della scuola italiana. Una scuola più snella e meno burocratizzata è quanto chiede TreeLLLe al governo. Dove le assunzioni dei docenti siano fatte direttamente dalle istituzioni scolastiche. Sarebbe auspicabile poi, secondo TreeLLLe, istituire nuovi organi di governo della scuola autonoma: un consiglio di istituto come unico organo di indirizzo e controllo che delibera lo statuto della scuola, nomina il capo di istituto, approva il POF, i bilanci, l’organico e le assunzioni). La scuola si destruttura, si perde la fiducia e si apre la strada alla privatizzazione sulla quale sono d’accordo tutti i partiti in Parlamento, i Sindacati confederali, la Chiesa (gli altri parlano ma sono cialtroni che non conoscono i problemi e non fanno alcuno sforzo).

Come si valorizzeranno allora gli insegnanti? Credo che ora servirebbe l’opera diretta di Dio. Andiamo tutti in pellegrinaggio da qualche parte e, mossi da incrollabile fede, chiediamo l’intervento diretto di Dio, poiché un santo qualunque non basta.
Quali incentivi si daranno? Una mancia sul salario? Da ridere! Hanno tagliato tutto il tagliabile e non hanno mantenuto alcuna promessa (i tagli servivano a pagare meglio i meritevoli). E su quali meriti da misurare? Se gli studenti del tale insegnante hanno ben risposto ai test INVALSI quest’ultimo avrà 100 euro in più l’anno? O, per caso, non si daranno i soldi ad una data scuola, a disposizione del Dirigente per le sue clientele interne? Questo sarà l’incentivo agli insegnanti! Se non si cambia tutto alla radice le cose andranno in questo modo indegno.

Con salari per gli insegnanti che sono i più bassi in Europa, con il blocco dei salari realizzato nel 2010, con la contrattazione collettiva, unica fonte titolata a decidere le retribuzioni, bloccata fino al 31 dicembre 2014, con il taglio di ogni minimo sostegno accessorio, con la creazione del discredito sociale, come si può seriamente pensare ad un qualche reale incentivo che cambi la situazione? Non dico altro perché credo sia chiaro a tutti.

LE ULTIME DUE DOMANDE UE SULL’UNIVERSITÀ

15. Il governo potrebbe fornirci ulteriori dettagli su come intende migliorare ed espandere l’autonomia e la competitività tra le università? In pratica, che cosa implica la frase “maggior spazio di manovra nello stabilire le tasse di iscrizione”?
16. Per quanto riguarda la riforma dell’università, quali misure e quali provvedimenti devono essere ancora adottati?

Poiché l’Università rappresenta interessi materiali più immediatamente toccabili, i problemi sono molto più complessi e di difficile lettura. Provo a dire, oltre a quanto già detto, alcune cose, sperando siano utili.

Il 10 novembre 2008 è stato approvato il Decreto Legislativo (180/08) riguardante l’Università, decreto nato anche su suggerimenti degli economisti Perotti e Giavazzi dell’Università privata Bocconi. Perotti ha scritto un libro, L’università truccata, in perfetta sintonia con il governo, del quale è l’unico fondamento teorico. Egli, con un’operazione spregiudicata in cui utilizza numeri che stimano la produzione del sistema di ricerca italiano ma non la sua produttività, tende a screditare il nostro sistema di ricerca manipolando i numeri tanto da sembrare lo sprovveduto che non è.

Il solo modo di operare sui dati della ricerca è stato quello di Ugo Amaldi che con aritmetica elementare ha mostrato che l’operazione di Perotti è funzionale come solo sostegno ideologico al governo (il suo libro è uscito per la casa editrice Einaudi dell’ex Presidente del Consiglio Berlusconi il 30 settembre). Giavazzi, l’editorialista del Corriere della Sera, ha invece suggerito con estrema chiarezza a Gelmini e Tremonti il DL 180 dalle pagine di quel giornale il 3 e 5 novembre di quell’anno (Tre segnali da dare in una settimana, Ma il Pd ora si impegni per favorire un rinvio), affermando che tutti i concorsi sono truccati (meno quello che lo ha riguardato). Garavaglia, ministro ombra del PD per la scuola, e Modica, responsabile università del PD, in un articolo sullo stesso Corriere del 5 novembre, Concorsi, sì a nuove regole. Bene i segnali del governo, mostrando apprezzamento per le indicazioni di Giavazzi, gli hanno fornito alcuni consigli tecnici dei quali è stato fatto un uso parziale.

Nel Decreto 180 ci si rifà ancora ad una delle leggi Bassanini (449/97) per non permettere più assunzioni e non assegnare più fondi a quelle Università che eccedano per spese fisse il 90% di quanto gli assegna lo Stato (nessun riferimento alla qualità). È opportuno osservare che con i tagli ai finanziamenti e con questa norma sempre presente, presto molte università, anche se al momento virtuose, rischieranno la chiusura. Si fissano alcune norme per i concorsi universitari e per la valutazione per il reclutamento dei ricercatori che mantengono le cose come stanno in termini di possibilità di pilotare i concorsi da parte delle deprecate baronie. Giuliano Cazzola del Pdl ha detto che: “Si complicano le procedure senza mutarne la sostanza”.

A partire dall’anno 2009 il 7% dei fondi assegnati all’Università andrà per sostenere l’efficacia e l’efficienza della ricerca e dell’offerta formativa con criteri che la Gelmini fisserà entro il 2008. Si stanziano dei fondi per il diritto allo studio. Ma si individua un nemico nell’università, il povero studente fuoricorso. Vi è nelle Linee Guida il progetto di aumentare loro le tasse universitarie e la cosa sarà realizzata in un disegno di legge organico di riforma.

In una Italia dove nel 2006 il 66% dei 271.115 laureati era fuori corso, dove da almeno dieci anni non si hanno agevolazioni per gli studenti lavoratori, dove il lavoro giovanile è precario e al nero, dove lo studente fuori sede ha spese ingenti e dove il diritto allo studio non è mai realmente esistito, Gelmini ha individuato i nemici nei fuoricorso, in quegli studenti che hanno scambiato l’università per un parcheggio. Stessa opinione doveva avere per i precari che, pur avendo titoli maturati da anni e concorsi già vinti, chissà perché, vengono considerati come dei postulanti e comunque tali da non essere neppure presi in considerazione.

Questo è uno degli ultimi decreti ma l’Università resta colpita dall’articolo citato della finanziaria che la riguarda, il quale prevede che “dall’attuazione […] del presente articolo, devono derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa, non inferiori a 456 milioni di euro per l’anno 2009, a 1.650 milioni di euro per l’anno 2010, a 2.538 milioni di euro per l’anno 2011 e a 3.188 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012”. Un totale cioè di 7 miliardi ed 832 milioni di euro dei quali, in modo ancora non definito, 1 miliardo e 800 milioni saranno a carico dell’Università (lo sanno i legislatori che in Italia la ricerca è quasi tutta fatta nell’Università e che se si tagliano i fondi a quest’ultima si uccide la ricerca ? Forse sì, ma la cosa non li interessa).

I provvedimenti del governo, rintracciabili negli articoli 16 e 66 della finanziaria (Legge 133/08), con l’assenso del ministro ombra del PD, la teodem Garavaglia che, dopo aver sostenuto su AprileOnLine.info del 4 novembre 2008 che al PD le Fondazioni vanno bene a patto che si diano loro adeguati finanziamenti statali (sic), incontratasi con Gelmini, ha dato l’OK del PD, prevedevano il blocco del turn over, il taglio dei finanziamenti, la trasformazione degli atenei in fondazioni private (con la conseguente sottrazione degli atenei alle regole del diritto pubblico) come dall’articolo 16 della 133 scritto dall’ex diessino poi democratico ed ora nel gruppo misto Nicola Rossi.

Ma il PD, tramite Garavaglia, ha difeso sia l’attacco di Gelmini all’autonomia dell’università che allo stato giuridico dei docenti, affermando sul Sole 24 Ore (24 luglio) che le proposte Gelmini sono insufficienti perché non bastano le fondazioni per sbarazzarsi degli organi accademici. E, con l’accordo del PD, sparisce circa il 25% del FFO entro il 2012 ma, in compenso, anche in finanziaria sono spuntati conflitti d’interesse: infatti al fine di sbaragliare tutti i favoritismi e le clientele, vengono trasferite risorse alla fondazione IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Genova il cui presidente è dal dicembre 2005 Vittorio Grilli che dalla stessa data è, a 500 mila euro/anno, anche direttore generale del Tesoro, al ministero dell’Economia e della Finanze (oggi è il vice di Monti).

Ricordo che questo ITT nacque su spinta Moratti per accogliere i cervelli fuggiti e che nonostante la montagna di soldi che gli è arrivata non risulta abbia messo in piedi qualche ricerca di rilievo. Di fondi per la ricerca neanche a parlarne. Solo tagli sul già da molti anni tagliato. La formazione di un ricercatore costa allo Stato 250 milioni. Noi li formiamo e li facciamo emigrare (solo il CNRS, l’analogo francese del CNR, ha in ruolo il 50% di ricercatori italiani). Geniale!

Chiunque sappia di ricerca sa che questi tagli suonano come la fine dell’università e della ricerca pubbliche. Se la cosa si realizzasse occorrerebbe passare a finanziamenti privati (fondazioni) con contributi pubblici (alle fondazioni). E chi sta operando per realizzare questo fine mostra totale ignoranza delle dinamiche che fanno crescere la sana economia, lo sviluppo e la conoscenza. Al solito, in questo Paese, usiamo bistrattare i Galileo, i Fermi, i Dulbecco, le Montalcini, gli Ippolito, i Marotta, i Maiani. Mentre abbiamo persone senza pubblicazioni a capo di enti di ricerca e predicatori laici come Enrico Medi, nominati vicepresidenti dell’Euratom, che arricchirebbero l’uranio “Just a bit”.

Dal punto di vista dell’Università come massimo ente deputato alla formazione, si deve denunciare con molta forza la bestialità del 3+2, bestialità, anch’essa, tutta di Bassanini-Berlinguer. L’effetto è stato perverso perché questa riforma si è sommata alla scarsa preparazione offerta dalla scuola secondaria che subiva la Riforma dell’autonomia con i suoi POF ed i suoi percorsi. I livelli di preparazione degli studenti che si iscrivono all’Università risultano notevolmente più bassi di quelli della pre-riforma.

Le facoltà scientifiche della Sapienza per un quinquennio hanno fatto test a cinquemila studenti degli ultimi anni delle superiori che intendevano iscriversi a uno dei tanti corsi per conseguire la laurea di primo livello: solo il 5% aveva una conoscenza di base della geometria, appena il 12,7% sapeva rispondere a 8 domande facili su 10, su 100 studenti appena 15 erano in grado di centrare risposte sul lessico, e poco più di 27 sapevano di ortografia, sfiorava il 17% la quota di studenti che riusciva a completare correttamente le frasi con il verbo giusto… Vi sono poi analoghe ricerche di Alma Laurea di Bologna con medesimi risultati. Ciò vuol dire che il primo anno di università se ne va per alfabetizzare gli studenti che in maggioranza mostrano lacune, queste sì, alla base del gran numero di abbandoni.

La laurea triennale diventa quindi una sorta di super liceo con l’aggravante del sistema dei crediti, mediante i quali è possibile saltare qualche esame o renderlo molto più semplice, che ha introdotto elementi clientelari nel sistema universitario degli esami. Per far laureare tutti prima, si diceva, la laurea di primo livello è triennale. Poi, chi vuole, può passare alla specializzazione magistrale con un altro biennio. Così la laurea triennale è un liceo robusto che non c’entra nulla con la laurea del passato. L’idea di questa riforma nasce, su sollecitazione OCSE, a Parigi nel 1998 tra Francia, Germania, Gran Bretagna ed Italia con seguito in un incontro dei Ministri dell’Istruzione a Bologna nel giugno 1999 (questi Paesi forti, hanno aggregato gli altri e Berlinguer prese spunto da questo per promuovere la riforma).

Il corso di studi di uno studente è stato calcolato in ore annuali di impegno che sono risultate 1500 per lo studio (studio individuale, lezioni, laboratori, stage). Queste ore sono state suddivise per i crediti formativi (CFU) ai quali ogni studente ha diritto e 1500 ore corrispondono a 60 CFU. Con ulteriore calcolo si è stabilito che un CFU corrisponde a 25 ore di impegno, delle quali ore almeno la metà deve essere di studio individuale. Ogni esame universitario, a seconda della sua mole, dell’impegno richiesto ecc., dà diritto ad un certo numero di CFU. Superato un numero di esami che fanno cumulare 180 CFU, si è laureati (primo livello).

Se si aggiungono altri 120 CFU si è laureati (secondo livello). Vi sono poi ulteriori traguardi raggiungibili con altri CFU (i Master, ad esempio, che durano un anno, valgono altri 60 CFU, ecc.). Data poi l’autonomia, ogni università deve allettare la clientela con qualcosa di più accattivante, più gradevole di ciò che offre l’università concorrente, ad esempio con nuove professioni da inventare mettendo insieme un certo blocco di discipline che aumentano ancora i corsi di laurea e le cattedre creando spesso, oltre al fatto in sé, grossi danni agli studenti per la loro vacuità e stravaganza rispetto al mercato. Ed in questa rincorsa alla cattedra, a parte vicende da codice penale in genere da assegnare alle facoltà di medicina, vi è la proliferazione dei massimi cantori di queste riforme liberiste, i pedagogisti. Costoro hanno instaurato una sorta di perverso sistema epistemologico senza verifiche, potendo cambiare i loro postulati in corso d’opera al fine di essere graditi dal governo in carica. Costoro, con questi meriti, si sono costruiti infiniti feudi nelle facoltà di Scienze dell’Educazione e/o della Formazione inventandosi cattedre fantasiose di ogni tipo. Se un gruppo sociale ti permette di giustificare risparmi e lavora per il consenso, merita di essere premiato.

Anche qui la scuola/università diventa azienda cambiando radicalmente la sua natura. Rinforzare la linea gerarchica, procurare che le funzioni logistiche prendano il sopravvento e controllino le funzioni dei professionisti, è una strategia che è necessario chiamare, con ragione, aberrante dal punto di vista stesso della gestione aziendale. Il controsenso sull’atto pedagogico, negato nella sua complessità, non può che provocare una perdita della ricercata efficacia.

Colui che in tutto questo ci rimette di più è lo studente sistemato non più in un progetto educativo ma nell’economia aziendale, dove ciò che conta è solo l’accumulo dei crediti. Ed i crediti hanno anche snaturato lo studente che oggi vede in ogni sua attività una possibilità di reclamarla a credito o, peggio, che si dedica solo ad attività che producono crediti. Conta solo il raggiungimento del 180 dopo di che sono tutti felici a cominciare dalle statistiche che danno un laureato in più indipendentemente dalla sua preparazione. Anche i docenti, quelli non miracolati, hanno problemi con questo sistema per il carico burocratico (gestionale, amministrativo, organizzativo…) che è ricaduto nelle loro attività, analogo a quello avvenuto nella Scuola Secondaria. E l’analogia si estende anche al discredito sociale conseguente.

È un mio perfido giudizio quello che parla di dequalificazione? Neanche per idea. Chiunque cerchi lavoro (si leggano i bandi) cerca lauree “vecchie” con ordinamenti quadriennali o quinquennali. L’esperienza mia personale è quella del rispondere a inchieste e sondaggi. Alla fine si chiede il titolo di studio. Si tratta di varie possibilità disposte in crescendo. Arrivati alla laurea c’è: “laurea triennale e specialistica” e, dopo, “laurea quinquennale”. Solo i ciechi non vedono quanto sta accadendo in termini di dequalificazione totale della gran parte degli studenti fino ai più elevati livelli di studio. Vi è un generale appiattimento dell’università verso i gradini più bassi del sapere. Da questo generale appiattimento del “tutti promossi” è difficile saper estrarre coloro di cui ha bisogno chi fornisce il lavoro. Solo chi è in grado di fare quei famosi master all’estero ha una qualche possibilità. Da cui, naturaliter, il sistema è diventato un perfetto prodotto per i ricchi. E Berlinguer o non l’ha capito perché non capisce in genere o è stato (è) in completa malafede.
Umberto Galimberti scriveva nel 2002:

la formazione della personalità, l’autovalorizzazione, il riconoscimento, senza il quale nei giovani non si costruisce alcuna salda identità sono tutti valori spazzati via dalla riforma universitaria, perché sono valori che appartengono ad un’altra economia che non è l’economia aziendale, dove ciò che conta è solo l’accumulo dei crediti e la parziale remissione dei debiti. L’università, infatti, come fanno le banche con i debitori in procinto di fallire, pratica sconti, e a chi aveva trascinato gli studi senza speranza scrive una letterina per dirgli che può farcela ancora, perché con la riforma la strada è più breve e più spianata, basta che si procuri una calcolatrice e traduca tutti gli esami sostenuti, quando era in corso e fuoricorso, in crediti, fino a raggiungere la fatidica quota 180 che gli concede la laurea di primo livello per la gioia delle statistiche che in questo modo attestano la produttività dell’istituzione”.

Ed aggiungeva Vittorio Coletti:

Se i professori non studiano più o studiano meno; se i loro corsi sono inevitabilmente più ripetitivi e meno vitalizzati dalla ricerca; se le loro mansioni sono sempre più burocratiche, scuole e atenei vedranno emergere una tipologia di docente burocrate e logorroico, intellettualmente ammuffito, che si rianima solo nelle mille riunioni come un solitario pensionato del condominio che si eccita nelle assemblee annuali per il rifacimento delle scale“.

Dal punto di vista dell’Università come creatrice di potere a vari livelli, il discorso è quindi diverso e l’Università, per i suoi padroni-baroni, può essere qualunque cosa dal punto di vista formativo, per lor signori le cose stanno allo stesso modo. La “riforma” Gelmini, altro non è che “tutto il potere ai rettori” che, al solito non rappresentano altro che potenti interessi anche e soprattutto esterni all’Università. I delegati dei Rettori ormai la fanno da padroni; i delegati sono come quei piccoli manager politicamente qualificati che hanno diretto e portato al disastro le ASL della sanità.

Questi delegati non sono poi quasi mai professori qualificati che, come nelle ASL, se sono qualificati, non entrano in beghe da sottogoverno ma portano avanti le loro ricerche generalmente con successo. Anche qui il richiamo, improprio come mai, è all’esperienza anglosassone. Cosa ha a che fare la nostra Università con il sistema piramidale per ricchi delle Università britanniche o degli Stati Uniti? Davvero si tende ad una Università per pochissimi ricchi, costosissima, affiancata da una Università dequalificata pubblica che dà un qualche contentino dequalificato, magari a pagamento via internet, ai meno abbienti? Ad una Università che dovrebbe vivere di miracoli con mancanza di incentivi veri alla ricerca, alla promozione di giovani studiosi e all’assenza di vera autonomia. E ciò che ho appena detto è relativo ad una critica alta perché la critica dovrebbe andare al suk inaugurato da Berlinguer e fortemente potenziato dalla Gelmini.

Altrimenti a che serve il proliferare di Università alla carta che danno lauree anche agli analfabeti, in cambio di quel dané che la fa da padrone in ambienti nordisti? Soldi ai privati, alla Chiesa, anche qui, con tagli indegni alle Università pubbliche.

E quando si taglia, dato il livello dei sarti, si toglie quanto di meglio fanno le Università ed i nostri giovani, per dare sostegno a coloro che, in un’ipotetica classifica INVALSI, dovrebbero essere cacciati in malo modo. Cosa vuol dire altrimenti il numero chiuso se non l’ubbidienza supina al liberismo sfrenato? Soprattutto in Italia dove l’accesso alle Facoltà avviene con criteri di selezione che nulla hanno a che fare con la preparazione scolastica (oppure si dica qual è l’abilità di chi sa dove si trova un certo chiosco che fa i gelati rispetto alla professione di chirurgo…). Infine il precariato dei cervelli è ormai legalizzato con l’art. 12, comma 4, della famigerata riforma: per i ricercatori a tempo determinato i contratti hanno durata triennale e possono essere rinnovati una sola volta per un solo triennio previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte. Da qui si può facilmente capire che le vecchie sparate della abilitata a Reggio Calabria contro i baroni, in realtà erano una vera crociata contro le nostre migliori speranze, ovvero i giovani ricercatori.

Dal punto di vista dei concorsi per acquisire la docenza, non serve io dica nulla. Le cronache raccontano di un potere baronale accresciuto con nomine ditocratiche ormai a figli, mogli, nipoti ed amanti. Si faccia comunque attenzione ad un piccolo ma non insignificante dettaglio. La corruzione universitaria riguarda sempre le facoltà intorno alle quali gira denaro, molto denaro: medicina ed ingegneria principalmente. Non a caso la maggioranza dei rettori di potere proviene da queste facoltà.

Con queste premesse, che risposte dare se la prima delle due domande implica una Università che diventa ancora più costosa di quello che già è? Se dà per scontato il proseguire sul fallimentare cammino di derivazione berlingueriana ma di esecuzione Gelmini-Tremonti?
Che vuol dire la competitività tra le Università? Nel nostro Paese abbiamo nostre peculiarità. Se le migliori Università sono quelle che aveva indicato la Gelmini su parametri, da lei e “costruttori di Tunnel”, inventati al fine di dare più soldi alle Università del Nord, non ci siamo. Non ci siamo tanto da reclamare la guerra. Con l’Università non si può fare lo spezzatino che tanto piace ai palati barbari. Non si mescolano pere con aragoste mediando cose che non sono compatibili. Quando si dice che tra le prime Università italiane nelle graduatorie universitarie vi è La Sapienza di Roma che pure si trova oltre il duecentesimo posto, si dice che la media tra le prestazioni tra le varie facoltà ci porta a quel livello.

Ma se si discutesse di fisica, matematica, … allora saliremmo ai primi posti. Come rimediare a questo, ce lo dicono coloro che si occupano di Università? Inoltre in questo disgraziato Paese dobbiamo sorbirci favole per tranquillizzarci e queste favole sono anche nella realizzazione del governo Monti? Qualcuno vi ha detto mai che nessuna Università cattolica è classificata per eccellenza nelle graduatorie di merito? E che non vi è LUISS o Bocconi che possano tener testa alle facoltà economiche delle Università pubbliche? Eppure i nostri informatissimi giornalisti non ci dicono mai nulla in proposito e i bocconiani Giavazzi e Perotti possono imperversare solo perché nessuno ha spiegato agli italiani che, a proposito di merito, sono molto indietro rispetto a tutti coloro che provengono da Università di Stato (tra cui – serve ricordarlo? – vi è la Normale di Pisa che non ha rappresentanti al governo).

Piuttosto le Università in genere sono un buco nero in cui far cadere ogni protezione e privilegio di potenti e politici. Il bravo ministro della Pubblica Istruzione, Matteucci, di uno dei primi governi italiani, dopo l’Unità, un governo della Destra Storica, disse amareggiato, quando volle razionalizzare il sistema universitario non riuscendoci, che in Italia è più facile spostare la capitale che non riformare l’Università. Infatti crescono le Università senza che ve ne sia necessità e più crescono e più l’insieme risulta dequalificato perché i fondi ed i migliori cervelli che debbono preparare le nostre giovani speranze non sono infiniti. Eppoi, diciamoci la verità: meno Università ma un sistema di borse e case dello studente che aiuti i fuori sede sarebbe la vera primaria soluzione.

Da ultimo il problema del salario e del sostegno al ricercatore-docente. Una persona che inizia a dedicare se stesso all’insegnamento deve poter essere pagato in modo degno e, soprattutto, deve poter accedere facilmente alla ricerca con i finanziamenti adeguati necessari. Tutto questo in Italia non esiste più e per questo paghiamo la fuga dei migliori cervelli all’estero che ringrazia per tanta generosità a costo zero. E che vuol dire “paghiamo”?

La scuola nel suo insieme, per quanto noi paghiamo per utilizzarla, rappresenta un costo economico enorme per lo Stato. Quest’ultimo ne trarrà vantaggio sia nel disporre di cittadini preparati ed in grado di interagire positivamente per la crescita morale e civile dell’intero Paese sia nell’avere alla fine persone preparate che producono beni e servizi per il Paese. È un comportamento idiota dei governi il preparare cittadini a livelli anche di eccellenza e poi farli utilizzare da altri Paesi che li prendono rivendendo poi a noi i prodotti delle loro ricerche.

CONCLUDENDO

Stupisce il fatto che i commenti che ho letto, relativi a queste domande UE, commenti di persone anche in ottima fede, partano dall’esistente.

Non si ha il coraggio (spero non la capacità) di fare la rivoluzione copernicana che riporti i liberisti alle brutte figure che Galileo imponeva agli aristotelici. Insomma difendere la scuola pubblica ed i suoi valori per avere dei cittadini evoluti deve diventare il nostro imperativo categorico.

Non si può cedere al liberismo come se lo sfruttamento bestiale dell’uomo sull’uomo sia ineluttabile.

Non si deve entrare nei tecnicismi di importazione riferiti a scuole che hanno ben altre tradizioni. Per esperienza personale non empirica i nostri studenti della scuola pre-Berlinguer riuscivano bene ad inserirsi in ogni università e/o centro di ricerca negli USA, in Francia, in Germania, in Canada… divenendo in breve tempo dirigenti qualificati. Il viceversa non era (ora, dopo le cure destrutturanti iniziate da Berlinguer, non so più).

Chi ha avuto a che fare con studenti di High School britannici, americani e canadesi, sa bene che i loro livelli erano molto più bassi dei nostri studenti omologhi per età e classe di studio.

Luigi Olivieri de lavoce.info dice: “Il governo in questi anni non ha fatto altro che parlare di scarsa produttività dell’amministrazione pubblica, di costo troppo elevato dei dipendenti e del loro numero eccessivo. In Europa, per coerenza, si aspettano concrete riduzioni di questi indicatori. Come spiegare ora che era solo propaganda?” E che, aggiungo io, i pretesi esperti non sanno proprio cosa è scuola, cosa è intervenire su di essa, cosa sui suoi operatori?

Data questa situazione, se qualcuno mi chiedesse Che fare? non saprei rispondere. Mi sembra che noi si sia già al punto di non ritorno. Ci siamo persi un bene eccellente per le fregole di quattro cialtroni per non dire del cane. Risento ancora le parole del mio maestro Giorgio Salvini (1968): “Renzetti, per distruggere una scuola ci vuole pochissimo, per costruirla possono non bastare cento anni!”.