Enzo Mazzi di V.Gigante

Valerio Gigante
Micromega, n°8 dicembre 2011

Nella Chiesa istituzionale quasi nessuno lo ha ricordato. E quando qualcuno lo ha fatto, è stato a mezza bocca, bisbigliando, in modo insomma quasi clandestino. Anche sulla stampa laica, pochi i trafiletti a lui dedicati. Eppure con la morte di Enzo Mazzi, storico animatore delle Comunità Cristiane di Base Italiane, non se ne è andato solo uno tra i più autorevoli di quelli che una volta venivano definiti – con una punta dispregiativa – “i preti del dissenso”, ma una figura cardine per comprendere l’origine del ’68 cattolico e di tutto quel movimento post conciliare che ha tentato, e tenta ancora, di cambiare in senso democratico, progressivo ed “orizzontale” la Chiesa e la società.

Il nome di Enzo Mazzi è infatti indissolubilmente legato al “caso Isolotto”, cioè alla ribellione di una intera comunità (quella della parrocchia fiorentina di S. Maria delle Grazie) anzi, di un intero quartiere (quello dell’Isolotto appunto, periferia sud-occidentale di Firenze, sulla riva sinistra dell’Arno), al proprio vescovo ed alla Chiesa gerarchica in nome di una Chiesa più autentica, perché in ascolto ed in dialogo con il mondo contemporaneo ma, soprattutto, perché più vicina agli oppressi. Una ribellione aperta e massiccia, scoppiata nel dicembre del 1968, che ottenne un’eco vastissima, raccolse il consenso di molte parrocchie e comunità ecclesiali in Italia ed all’estero e suscitò simpatia e vicinanza anche in larghi settori del mondo laico. E, soprattutto, sancì una volta per sempre che i cattolici non erano più il “gregge” che il vescovo-pastore poteva pascolare e condurre dove voleva. Erano invece parte attiva (e critica) di un “popolo di Dio in cammino”, come lo aveva definito il Concilio Vaticano II, con una propria autonomia, propri carismi specifici, propri diritti. “Cattolici adulti”, li definiremmo con una espressione forse oggi più “à la page”.

La lunga genesi del ’68 cattolico

Certo, qualcuno potrebbe non senza ragione affermare che il ’68 della Chiesa cattolica comincia in effetti già nel 1967, con l’occupazione dell’Università Cattolica di Milano (l’ateneo verrà occupato 4 volte e l’ultima durerà 15 giorni con il Rettore chiuso nel suo ufficio). Altri, come ha rilevato più volte Raniero La Valle, già senatore della Sinistra Indipendente e tra i protagonisti indiscussi della stagione conciliare e post conciliare, potrebbero invece sottolineare che il “vero” ’68, nella Chiesa, era cominciato già nel 1965, quando, con la chiusura del Vaticano II, si era innescato quel processo di rinnovamento che a fatica – e al prezzo di una durissima repressione – era riuscito a mettere in discussione un apparato rimasto sostanzialmente immutato dai tempi della Controriforma.

E ancora, c’è chi potrebbe ricordare figure come quelle di Camilo Torres, il prete rivoluzionario colombiano che aveva deciso di imbracciare il fucile a difesa del suo popolo oppresso, e che era morto nel febbraio del 1966, divenendo presto una icona internazionale della Parola che si fa Storia, del Vangelo che si incarna nelle contraddizioni del reale per trasformarle, della Chiesa che si fa tutt’una con i popoli crocifissi della Terra. O, per restare in Italia, qualcun altro potrebbe ricordare l’enorme risonanza che ebbe l’opera e la testimonianza di don Lorenzo Milani, morto nel maggio del 1967, solo poche settimane prima che vedesse la luce Lettera ad una professoressa, il testo che squassò dalle fondamenta il classismo della scuola, della società ma anche della Chiesa italiana.

Insomma, “scintille” del ’68 cattolico si possono individuare un po’ ovunque: la nascita, a Torino, della comunità del Vandalino (autunno 1967) e a Genova del movimento dei Camillini (dal nome della chiesa di S. Camillo, che iniziò la contestazione al cardinale ultraconservatore Giuseppe Siri); a Udine, la stampa de I quattro gatti, un giornale fatto da credenti posizionati sulla linea del dissenso; a Napoli (1964), la pubblicazione de Il tetto, un bimestrale nato per iniziativa di un gruppo di giovani universitari e laureati, credenti e non credenti, uniti dall’intento di dar vita ad una rivista critica, di confronto e di dialogo; a Verona, la contestazione alle logiche mondane del proprio Ordine fatta dai giovani francescani di San Bernardino porta alla chiusura del loro convento. Il 25 giugno, 53 frati minori del Veneto e della Lombardia si recano a Roma per protestare contro la decisione delle gerarchie ecclesiastiche.

Proteste che assumevano a volte connotazioni schiettamente “politiche”; addirittura “di classe”: a novembre del 1968, il Consiglio pastorale della diocesi di Ivrea si pronuncia contro la partecipazione azionaria del Vaticano alla Lancia. A Roma, intanto, sin dal 1967 muove i primi passi l’agenzia di informazione politico-religiosa Adista, voce della sinistra cristiana e in seguito del “dissenso” cattolico tout court, ma anche dei movimenti popolari, della Teologia della Liberazione, delle Comunità di Base. Senza dimenticare che di lì a poco nella Chiesa l’onda lunga del sessantotto scuote anche l’associazionismo cattolico “istituzionale”: le Acli, in uno storico congresso nazionale che si svolge a Torino, dal 19 al 22 giugno 1969, sanciscono la fine del “collateralismo” con la Dc (l’anno dopo, a Vallombrosa, faranno quella “scelta socialista” che comprometterà per lungo tempo i rapporti con la gerarchia cattolica), mentre l’Azione Cattolica di Vittorio Bacheletsi preparava alla grande svolta della “scelta religiosa” (1969), che intendeva dare all’associazione che era stata guidata da Luigi Gedda, quella mobilitata nei comitati civici e nel collateralismo alla Dc, una maggiore indipendenza rispetto alla politica democristiana, in modo da garantire ai laici cattolici una certa autonomia nella sfera sociale e politica.

Il “caso Isolotto”: la “Valle Giulia” cattolica

Ma nulla, anche dal punto di vista simbolico, ebbe carica rivoluzionaria più dirompente di ciò che avvenne nel dicembre 1968 all’Isolotto di Firenze. La vicenda, che si consumò tutta nel capoluogo toscano, nacque per la verità a Parma. Lì, il 14 settembre 1968 alcuni giovani cattolici avevano occupato la cattedrale di Parma con l’obiettivo di denunciare i finanziamenti delle banche alla Chiesa destinati anche alla costruzione di una nuova cattedrale. Gli occupanti spiegarono le loro ragioni in sei lettere circolari che ebbero forte eco mediatica. «Non vogliamo che la chiesa di S. Evasio – scrivevano in una di esse – sia costruita con i soldi della Cassa di Risparmio. È ora che la gerarchia ecclesiastica abbia il coraggio di fare una scelta discriminante a favore dei poveri contro il sistema capitalistico… Denunciamo il divario economico esistente tra i sacerdoti della diocesi. Non è concepibile che si ripetano all’interno della gerarchia le tipiche situazioni di ingiustizia della società borghese… Riteniamo urgente la riforma dei seminari per evitare che continuino ad uscire preti culturalmente plagiati».

L’occupazione di una cattedrale cattolica, per di più da parte di giovani impegnati nei gruppi e nell’associazionismo cattolico, era un fatto inedito e clamoroso, che aveva destato forte scandalo nell’istituzione ecclesiastica. Ma mentre i vescovi italiani lanciavano anatemi e preparavano messe riparatrici per il sacrilegio compiuto, la parrocchia dell’Isolotto di Firenze, insieme ad altre due parrocchie fiorentine, decise di esprimere solidarietà agli occupanti. Il card. Ermenegildo Florit, lo stesso che aveva esiliato don Milani a Barbiana, sperando di disinnescare la carica rivoluzionaria della sua scuola popolare, colse al volo l’occasione: chiese al parroco dell’isolotto, don Enzo Mazzi e agli altri due preti della parrocchia, don Sergio Gomiti e don Paolo Caciolli di ritrattare la loro solidarietà. I tre però (17 ottobre) resero pubblica la lettera del vescovo, indissero per il 31 ottobre un’assemblea pubblica per discutere collettivamente, con tutta la comunità, la richiesta di Florit. L’assemblea iniziò alle 21,30 ma si protrasse fino a notte fonda a causa della quantità degli interventi, spesso fatti a nome di interi caseggiati e strade. Erano presenti migliaia di persone, forse diecimila. Al termine venne approvato un documento in cui la Comunità parrocchiale chiedeva al vescovo di recarsi all’Isolotto per discutere apertamente con loro, respingendone di fatto il diktat.

Florit scelse, ancora una volta, la via dello scontro, emettendo (4 dicembre) un decreto di rimozione di don Mazzi da parroco dell’Isolotto e confidando nella tradizionale obbedienza che vincola preti e laici cattolici ai loro vescovi. Ma quella volta non funzionò. Come era accaduto il primo marzo 1968 a Valle Giulia, quando per la prima volta gli studenti reagirono alle cariche della polizia (“non siam scappati più” cantava Paolo Pietrangeli in una canzone divenuta inno generazionale), così anche all’Isolotto, per la prima volta, una comunità parrocchiale decise di non tacere; di reagire; di disobbedire compattamente e massicciamente al proprio vescovo.

Anzitutto, due imponenti manifestazioni, il 5 e l’8 dicembre, inondarono le strade del centro di Firenze, arrivando fin sotto l’Arcivescovado. L’11 dicembre la protesta arriva a Roma, con un corteo pro Isolotto che giunge in piazza San Pietro. Poi, abbandonando quello che ormai non era più la parrocchia, ma solo un simulacro di cemento “requisito” dall’autorità ecclesiastica, l’Isolotto cominciò a celebrare il proprio essere Chiesa-comunità viva nella piazza antistante S. Maria delle Grazie. Presero così avvio quelle celebrazioni in piazza dell’Isolotto che, domenica dopo domenica, testimoniarono in maniera eclatante il sorgere nella coscienza dei credenti di un nuovo modo di essere Chiesa. L’Isolotto divenne il centro di una cristianità che, dopo avere a lungo atteso, cominciava a realizzare una reale condivisione e sinodalità. In una dimensione “internazionalista”: infatti, ad alternarsi sull’altare non erano quasi mai don Mazzi, don Gomiti e don Caciolli: arrivano preti da tutta Italia, ma anche dalla Spagna, dalla Francia, dall’Inghilterra, dall’Olanda, dalla Germania. E non solo dall’Europa: anche dall’America Latina, dal Vietnam, dalle Filippine e dagli Stati Uniti laici e preti venivano in visita alla Comunità, si confrontavano, celebravano e con-celebravano il pane e il vino spezzato e versato finalmente “per tutti”.

Poi arrivò anche la “seconda rivoluzione”: quella che portava l’Isolotto (e dopo di esso molte altre realtà ecclesiali in Italia ed all’estero) definitivamente fuori dal “recinto del sacro”: «Ci chiamavamo comunità parrocchiale – scrisse Mazzi nel libro collettivo Il mio ‘68 – e tentavamo in tutti i modi di esserlo, ma ogni volta sbattevamo contro l’evidenza: una vera comunità non può esistere finché al centro c’è uno che ha tutto il potere e non per volontà sua ma per “volontà di Cristo” e per una seconda natura, quella sacerdotale, di cui non potrà mai spogliarsi». Cominciò così il percorso orizzontale, declericalizzato e desacralizzato delle Comunità Cristiane di Base, che tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 cominciarono a fiorire in tutta Italia: nei grandi centri urbani, come nelle realtà di provincia.

Fuori dai “recinti del sacro”…

Limitare la portata dell’esperienza di Mazzi e della Comunità dell’Isolotto a quei fatti sarebbe comunque riduttivo. L’Isolotto in tutti questi decenni ha continuato a produrre contributi, a prendere posizioni, ad elaborare documenti che sono stati occasioni di riflessione, di dibattito e di confronto dialettico dentro e fuori il mondo ecclesiale e della sinistra.

A partire dal celebre “Catechismo dell’Isolotto” (si intitolava Incontro a Gesù), pubblicato il 28 novembre 1968 e condannato già il giorno successivo dalla Curia di Firenze. Quel testo, che proponeva una metodologia di lettura e di esegesi biblica partecipativa ed esperienziale, costituì una novità a livello mondiale, tanto che fu tradotto in diverse lingue. Scardinava tre capisaldi della catechesi tradizionale: la centralità del dogma, sostituita dalla centralità del Vangelo; la trasmissione della “verità” attraverso una serie di domande e risposte preconfezionate (il modello del catechismo di Pio X) cui veniva preferita la condivisione partecipata della ricerca; l’autosufficienza della cultura cattolica che veniva innervata dalla apertura alle culture contemporanee, compresa quella operaia. Finì con L’Espresso che dedicò a quel catechismo un intero numero (il 48, datato 1 dicembre 1968) e che Incontro a Gesù, nonostante la condanna dell’autorità ecclesiastica, fu utilizzato in molte parrocchie italiane e straniere. Addirittura, la Commissione che nel 1970 avviò un ampio progetto per rinnovare il vecchio Catechismo a domande e risposte di Pio X, che diede il primo frutto nel 1981 conSignore, da chi andremo?, riconobbe ufficialmente di essersi ispirata anche ai contenuti di Incontro a Gesù.

… dentro la Storia

L’Isolotto, in cui parrocchia e quartiere, mondo laico e cattolico, democristiani e comunisti, comunità e fabbrica si erano già saldati fin dalla fine degli anni ’50 (memorabile, nel novembre del 1958 l’assemblea con i rappresentanti sindacali delle Officine Galileo mobilitata contro il licenziamento di 1000 operai, che si tenne in chiesa, con la partecipazione sia di cattolici, che di laici e comunisti, poiché quello era lo spazio più grande del quartiere), fu parte del movimento anticoncordatario, sostenne le lotte operaie, partecipò alla campagna contro la guerra in Vietnam, a quella referendaria a favore del divorzio e dell’aborto, alle manifestazioni per il disarmo, a quelle contro il nucleare civile e militare.

In tempi più recenti, Mazzi e la Comunità dell’Isolotto furono in prima fila per la difesa dei diritti sindacali e dell’articolo 18 (febbraio 2003) e contro l’invasione dell’Iraq (marzo 2003). Mazzi fu poi tra i preti che aderirono all’appello lanciato dall’agenzia Adista per la libertà di coscienza al referendum sulla fecondazione assistita, che tentava di spezzare il diktat del card. Ruini che intendeva obbligare tutti i cattolici alla scelta astensionista per boicottare la consultazione evitando che essa potesse raggiungere il quorum. Una scelta che Mazzi replicò qualche anno dopo, nel 2008, ai tempi del caso Englaro. Anche lì, la gerarchia cattolica era tutta compattamente schierata contro il diritto di papà Beppino di porre termine alla non-vita della figlia in nome di quella che don Enzo definiva una visione della vita ridotta a feticcio. E sottoscrisse, insieme ad altri 40 preti e religiosi, un appello “per la libertà sul fine vita”. Si trattava, spiegò in una lettera firmata successivamente insieme a don Raffaele Garofalo, don Giovanni Franzoni e don Paolo Farinella, «di esprimere solidarietà ad Eluana, al padre di lei, gravemente offeso da ambienti ecclesiastici che lo accusavano di assassinio, e a quanti si trovano nella loro drammatica situazione. Infine volevamo dare testimonianza concreta di una Chiesa-comunità, Popolo di Dio in cammino, non identificabile, come invece comunemente accade,con la gerarchia, la quale ha un carisma e un ruolo di unità, ma non è tutta la Chiesa».

Anche sul tema della pedofilia don Mazzi assunse da subito (da quando cioè i primi casi scoppiarono, nel 2002, negli Stati Uniti) una posizione di radicale critica al modo con cui non solo la Chiesa aveva coperto lo scandalo, ma soprattutto al fatto che era la formazione stessa della Chiesa maschile gerarchica e patriarcale a favorire, di fatto, la pedofilia tra il clero. Parlò di “pedofilia strutturale” di una Chiesa che non educa ad una sessualità pienamente vissuta, che reprime e mortifica i suoi seminaristi, che inculca una modalità di relazioni intrinsecamente pedofila, perché non matura né adulta, ma fondata sull’esercizio del potere e sul dominio delle coscienze.

L’eresia che salva

Posizioni scomode. “Eretiche”, secondo alcuni. Di eresia in un senso positivo parlava però proprio Mazzi, in uno dei suoi ultimi libri, (Il valore dell’eresia, 2010, Roma, Manifestolibri). Perché l’eresia, secondo Mazzi, consiste innanzitutto nella liberazione dal dominio del sacro, inteso come “astrazione, separazione e contrapposizione fra le varie dimensioni della nostra esistenza”. Perché il sacro separa la vita dalla sua finitezza. Assolutizza ciò che è relativo. Tenta, quindi, di dare una risposta all’angoscia di morte. Ma in questo modo, paradossalmente, disumanizza la vita. Il sacro rappresenta quindi una sorta di nevrosi sociale, cui Mazzi contrappone la strada faticosa dell’eresia, della rigorosa rivendicazione della propria autonomia contro ogni modello, autorità o autoritarismo. È l’eresia l’energia creativa della storia: «Uno studio pubblicato qualche anno fa su Nature spiega che la sopravvivenza del formicaio  è dovuta a un delicato equilibrio tra conformismo e creatività, fra obbedienza e disobbedienza, fra sequela e ribellione». Ebbene, «le formiche tendono inizialmente a seguire in fila indiana il percorso scelto dalla formica che per prima ha scoperto il cibo. I feromoni rilasciati dalla esploratrice sul percorso impediscono di deviare. Ma ad un certo punto si crea un ingorgo che impedisce di giungere al cibo. Il principio istintivo della sequela acritica mette a rischio la sopravvivenza del formicaio. Scatta un altro principio, anch’esso iscritto nell’istinto: la creatività, la disobbedienza, la ribellione. Una o più formiche si ribellano alla legge dei feromoni. E prendono un’altra strada. Il cibo è di nuovo assicurato, il formicaio è salvo».

Ma l’eresia di don Mazzi, ha scritto Giovanni Franzoni sul manifesto (25 ottobre 2011), era finalizzata non alla ricerca di «un’altra ortodossia da opporre all’ortodossia e alla sacralizzazione del pensiero, dei gesti rituali, dei servizi e dei carismi, ma una ortoprassi che giorno per giorno veglia sulla fedeltà del discepolo nel seguire l’Evangelo». E Gesù, sul «cammino di salvezza dei poveri, dei senza voce, dei diseredati e dei perseguitati».

Un cammino che Mazzi non ha mai voluto compiere da solo. Schivo, alieno da qualsiasi tentazione di compiacimento di sé o di autocelebrazione, ha sempre inteso la sua lotta come quella di un io-collettivo, all’interno della comunità che non ha mai abbandonato e che mai lo ha abbandonato. La forza di quella esperienza, e degli effetti di quella straordinaria rivoluzione nel modo di intendere la Chiesa, la fede, l’impegno nella società che maturò nella Chiesa dal 1968 in poi, è ben testimoniata dalle parole di una donna dell’Isolotto – Almafida – che faceva parte di un gruppo di cernitori di spazzatura della discarica che sorgeva a ridosso del quartiere, nella zona detta della “Montagnola”. Erano chiamati “la tribù dei serpenti gialli”, perché costretti a lavorare dalla mattina alla sera nella melma maleodorante e giallognola della spazzatura in decomposizione. Ormai in età avanzata, Almafida chiamò il nipote Francesco, consegnandogli un pacchetto con tre oggetti, che il giovane consegnò poi all’Archivio storico della Comunità dell’Isolotto (www.comunitaisolotto.org): «Qui c’è tutta la vita della nostra famiglia», gli disse. «Quei due attrezzi – spiegò indicando con il dito – sono un forcone e un marraffio e servivano al tuo babbo, ai tuoi zii e ai tuoi nonni per scegliere la spazzatura. Servivano a comprare il pane e poco altro. In questo incarto – proseguì – c’è un libro. Questo è servito per un altro tipo di pane: quello della dignità e della speranza». Era Incontro a Gesù: «Gesù – disse l’anziana cernitrice – era amico di noi poveri e nessuno ce lo aveva mai detto! S’era schiavi dell’ignoranza e della miseria, si mangiava pane e moccio. Quando si era fortunati ad avere il pane! Abbiamo vissuto l’inferno, l’inferno quello vero, non quello inventato. Com’era lontano Dio! Come si tenevano a debita distanza coloro che nel tempio predicavano in suo nome! Poi arrivò un soffio di vento e un brivido di speranza, sembrava che dall’inferno si potesse uscire: qualcuno si era messo a cercare Dio proprio nell’inferno tra la gente come noi».