La crisi finanziaria dell’Eurozona

Luciano Larivera S.I.
“La Civiltà Cattolica” 2011 IV 616-625 quaderno 3876, del 17 dicembre 2011

Le decisioni prese ai Consigli europei del 23 e del 26-27 ottobre non sono state tali da fermare la fuga di capitali finanziari dall’Eurozona. Anzi hanno creato ulteriore incertezza sui mercati. Neppure il successivo G20 di Cannes (3-4 novembre) ha preso impegni per l’immediato. I principali leader extraeuropei del G20 non hanno offerto supporto finanziario diretto ai Paesi dell’Ue in crisi o al «Fondo salva Stati» dell’Unione, né si sono impegnati a espandere le dotazioni del Fondo monetario internazionale (Fmi) per andare incontro a Italia e Spagna.
L’Europa sembra proprio di fronte alla peggiore crisi dopo la seconda guerra mondiale. Entro pochi mesi l’euro, con il suo progetto progressivo di integrazione economica e politica, potrebbe cessare di esistere se la sfiducia e il panico si scateneranno sui mercati finanziari. Ma l’Unione Europea è tanto integrata nella globalizzazione che il suo fallimento (anche soltanto di una sua parte) rappresenta un rischio sistemico per tutti i Paesi del mondo, contro il quale nessuno può trovare un’assicurazione adeguata, neppure isolandosi. Non resta che aiutarsi tutti a evitare la fine dell’euro (o attutirne gli effetti globali più micidiali in termini di disoccupazione).

La crisi di liquidità nell’Eurozona

I movimenti erratici e globali di attività finanziarie a brevissimo e breve termine stanno mettendo in ginocchio l’area euro in particolare. Nel mondo c’è liquidità in abbondanza. Ma non sa dove andare, salvo restare nei confini nazionali. La domanda di prodotti finanziari a «rischio zero» (da parte di banche centrali, istituti di credito, altri operatori finanziari e privati) non trova più un’offerta adeguata, perché i titoli di debito pubblico denominati in euro e i prodotti finanziari più liquidi delle banche e delle imprese dell’Eurozona sono considerati pericolosi e, quindi, non soddisfano più tale domanda di «rischio zero» (cioè rating AAA). Il rischio è connesso alle basse prospettive di crescita economica per l’Ue; alla demografia (calo della forza lavoro, aumento della spesa pensionistica e sanitaria); ai deficit e debiti pubblici e bancari elevati e poco sostenibili; ai vizi di nascita dell’euro (i forti differenziali di produttività/competitività, la mancata integrazione dei mercati bancari e delle politiche fiscali nazionali); alla limitata credibilità dei politici europei, a livello nazionale e nei loro rapporti nell’Ue, per attuare le misure attese dai mercati.

Su questo macro-fenomeno, si è innestata la speculazione al ribasso, ma anche quella al rialzo. Addirittura, il 30 ottobre, è fallito il gestore di fondi statunitense Mf Global. Era troppo esposto sui titoli del debito pubblico europei, pensando che il loro valore sarebbe salito con un ampio intervento della Banca centrale europea (Bce). Ma rispetto al contenuto «rischio sistemico» di Mf Global, l’impatto sarebbe globale in caso di fallimento (default) di uno Stato o di una grande banca europea. Già a ottobre la Dexia è stata temporaneamente salvata spezzandola e nazionalizzando i due rami francese e belga, ma il costo sarà di almeno 90 miliardi di euro. Dal lato finanziario, molte banche d’investimento angloamericane hanno fatto prestiti interbancari a istituti europei, hanno venduto polizze per assicurarsi contro i fallimenti dei titoli di debito europei. E così avrebbero perdite ingenti dai default nell’Eurozona. Dal lato commerciale, il calo senza freni della capacità di acquisto e d’investimento europea (per la mancanza di prestiti e per le perdita dei crediti in essere) farebbe scendere la domanda di importazione dell’Ue, mettendo in crisi produttiva gli Usa e la Cina in primo luogo, che esportano in Europa (1).

Nell’Eurozona aumenta il costo per finanziarsi, e marginalmente anche per la Germania. La «quiete» per Berlino potrebbe durare poco, poiché per i titoli del debito pubblico tedesco (Bund) cala l’attrattiva, offrendo rendimenti negativi al netto dell’inflazione, e iniziano ad aumentare i prezzi delle polizze per assicurarsi dal loro non rimborso (credit default swaps). L’altra faccia di questa medaglia è il fatto che gli speculatori hanno acquistato Bund, magari con denaro ottenuto liquidando Btp italiani o titoli francesi e spagnoli, ritenendo che già a gennaio la Germania uscirà dall’euro (oppure che gli Stati in crisi lasceranno la valuta comune). Ciò significherebbe la fine dell’euro a 17, e i Bund tedeschi, ridenominati in marchi (o con un euro che lega i soli Paesi con un rating AAA), varrebbero molto di più in termini di dollari o di altre valute (incluse le nuove lire, dracme e pesetas).

Finora si è evitata la bancarotta da panico, cioè la fuga generalizzata dai prodotti finanziari in euro al di là dei rendimenti promessi. Tuttavia, se la «crisi di liquidità» europea può essere compensata pagando tassi d’interesse crescenti, la maggiore spesa di oneri finanziari porterà alla difficoltà di ripagare i debiti, cioè a una «crisi di solvibilità» di Stati, banche, imprese e famiglie. La Bce ha ridotto, con il nuovo presidente Mario Draghi, il suo tasso di sconto dall’1,50 all’1,25%. E l’8 dicembre lo ha portato all’1%. Prima, il 30 novembre, un coordinamento delle banche centrali di Usa, Ue, Giappone, Regno Unito, Canada e Svizzera ha fornito nuova liquidità in dollari a basso costo alle banche dell’Eurozona. Ma c’è il pericolo che neanche i Bund siano in futuro considerati senza rischio, se le decisioni del recente Consiglio europeo dell’8-9 dicembre saranno ritenute, dai mercati, una soluzione politica di corto respiro. Non basta che la Germania unilateralmente si assuma, attraverso uno o più «marchingegni» finanziari, l’onere di garantire i debiti dell’Eurozona, perché il rating tedesco perderebbe la tripla A. E quindi Berlino non darebbe più assicurazione credibile ai creditori e la crisi si aggraverebbe.

Con questi scenari, si è di fronte a una sorta di «protezionismo » internazionale della liquidità. I Paesi extraeuropei non vogliono finanziare l’Eurozona, perché tali risorse finanziarie potrebbero invece coprire i propri nuovi fabbisogni per un eventuale fallimento di Italia, Spagna o di altri debitori europei. Per finanziarsi a tassi d’interesse crescenti, gli Stati europei in crisi di liquidità riducono le spese e aumentano le imposte (anche per mostrare un bilancio pubblico sano e capace di rimborsare i debiti). Ciò, nel 2012, avrà effetti recessivi in alcuni Paesi come l’Italia e forse nell’intera Eurozona, e produrrà un rallentamento economico globale. Lo spettro è una nuova recessione mondiale, con il «corollario» di un euro senza più valore internazionale, sia come mezzo di pagamento sia come riserva delle banche centrali.

La Bce deve prevenire la «morte interna» dell’euro, nel caso che i Paesi ritornassero alla propria valuta o che gli operatori europei (Stati inclusi) preferissero operare con altre monete, in primo luogo dollari, nelle relazioni intra-europee. Né basta un euro molto svalutato rispetto al dollaro: darebbe vantaggi commerciali nel breve periodo, ma poi renderebbe più costose le importazioni di idrocarburi, materie prime e altro (con effetti inflazionistici). La Federal Reserve e la Banca centrale cinese potrebbero impedire la fuga di capitali dall’Eurozona (e la svalutazione dell’euro), ma ciò comporterebbe il trasferimento di risorse in Europa invece che alle proprie economie. Se ciò avvenisse, significherebbe che tali potenze finanzierebbero le importazioni europee dei propri beni e i deficit di bilancia commerciale di molti Eurostati (a scapito delle esportazioni europee). E, in seguito, per farsi rimborsare i prestiti, potrebbero essere acquistate le banche e le imprese europee troppo indebitate. Si sta quindi giocando il ruolo economico dell’Ue nel mondo, nell’ambito sia dei flussi monetari/valutari e commerciali sia degli stock di capitali.

Quali soluzioni europee?

Tutto si risolverebbe se ogni Eurostato iniziasse a crescere del 3-4% annuo. Dimentichiamolo per il 2012-14, allo stato attuale, rispetto alla crisi di liquidità, l’Eurozona ha bisogno di aiuti finanziari esteri, o per lo meno che gli operatori tornino ad acquistare i titoli in euro (non soltanto tedeschi) a tassi d’interesse sostenibili, e che pure le banche dell’Eurozona trovino come finanziarsi. Gli aiuti esteri possono venire (in tutto o in parte) anche dal Fondo monetario internazionale. Ma il Fmi, per finanziare gli europei, o presta la propria moneta (i «diritti speciali di prelievo ») creando una nuova offerta monetaria (ma non c’è consenso nel G20); e/o raccoglie nuove risorse dai mercati finanziari con propri titoli emessi da un suo nuovo fondo speciale iper-garantito e/o è finanziato dalla stessa Bce; e/o riceve nuovi contributi diretti dagli Stati membri. Tuttavia, in questo caso, se Cina, India, Brasile, Russia, Paesi del Golfo ecc. aumenteranno i loro contributi al Fondo, avranno un peso maggiore nelle decisioni del Fmi, erodendo quello degli Eurostati (e degli Usa). Un’altra strada, non alternativa ma piuttosto simultanea alle altre, è che l’Ue trovi uno o più meccanismi interni per evitare che qualche Stato o grande banca fallisca. Infatti i debitori europei (come gli Stati) in prevalenza devono rimborsare in euro i loro prestiti e gli interessi contratti.

In teoria, basta che la Bce offra tutta la nuova liquidità richiesta da banche e Stati creando moneta. Questa operazione può avvenire anche concedendo garanzie a chi sottoscrive i nuovi titoli di debito di Stati e banche. La Bce, allo stesso scopo, potrebbe anche finanziare e/o garantire il «Fondo salva Stati» (Efsf/European financial stability facility) ancora poco capiente e non del tutto operativo. Oppure potrebbe acquistare in modo più massiccio i titoli pubblici già emessi dai Paesi in crisi, per tenerne bassi (o entro una soglia massima) i tassi d’interesse di mercato. Congiuntamente potrebbero essere emessi eurobond o garanzie da parte dell’Ue o da più Eurostati per rifinanziare Spagna e Italia (o il Fmi perché li salvi). Gli eurobond potrebbero essere garantiti da un’ipoteca su riserve auree, partecipazioni e infrastrutture nazionali. Le nuove risorse servirebbero anche a rifinanziare o ricapitalizzare le banche, che riprenderebbero a fare credito alle imprese, sostenendo crescita e occupazione. Un’altra ipotesi è di conferire a un Fondo per la redenzione del debito i titoli degli Eurostati che eccedono il 60% del Pil (ed essere ripagati in 25 anni tramite imposte speciali). Tali meccanismi (e altri ancora) dovrebbero fare allentare la sfiducia dei mercati (e la speculazione ribassista), e forse operare senza attivarli in modo massiccio.

Ma tutte queste possibilità di fatto comportano che la Germania, la superpotenza economica europea, accetti di prestare i propri risparmi o almeno la propria affidabilità finanziaria internazionale agli Eurostati in crisi. Il fine sarebbe quello di salvare simultaneamente questi ultimi, l’euro, l’Ue (come realtà solidale e pacifica) e gli interessi tedeschi di lungo periodo. Anche se la Bce prestasse soldi senza limiti, alla fine la Germania (non da sola) dovrebbe intervenire per ricapitalizzare la Bce; oppure Berlino dovrebbe trasferire le proprie riserve auree come garanzia a un ipotetico Fondo monetario europeo, che sostituisca (o rafforzi) l’Efsf per emettere eurobond o stability bond. Ma se la Bce agisse come «prestatore di ultima istanza», perderebbe la sua indipendenza dai Governi, perché sarebbe obbligata a salvarli, in particolare dalla Germania, che dovrebbe garantire la Bce e ne condizionerebbe l’azione. E la Banca centrale europea perderebbe la sua credibilità internazionale. Per questo c’è chi sta speculando al ribasso, pensando che la Bce non interverrà in modo drastico.

Dal punto di vista legale, la Bce non può salvare uno Stato membro, ma sta fornendo ampia liquidità, dietro pegno di titoli, quasi illimitata alle banche dell’Eurozona, che adesso non acquistano masse di titoli del debito pubblico nazionale, come avveniva nel biennio precedente. Ma se tutti in Europa (Corte Costituzionale e cittadini tedeschi inclusi) lo volessero, alla Bce basterebbe il sostegno politico unanime per trasgredire i Trattati europei, come si è fatto in altre occasioni, magari al fine di evitare una deflazione alla giapponese. Per ora la Bce continua a fare acquisti limitati di titoli del debito pubblico italiano e spagnolo perché gli spread (differenziali dei tassi d’interesse) con quelli tedeschi non salgano troppo pericolosamente. La soluzione di acquisti illimitati non trova il sostegno della Bce, della Germania e della Commissione europea. Forse esse la considerano «l’arma nucleare» (con il rischio che «faccia cilecca») da usare all’ultimo istante prima di precipitare nel baratro di bancarotte europee a catena. La Bce sollecita invece i 17 Eurostati a rendere operativo l’Efsf dotandolo di una più cospicua capacità di finanziare o dare garanzie.

La preclusione agli interventi straordinari della Bce non è soltanto un problema di legalità o di indisponibilità tedesca a pagare i debiti altrui. C’è di mezzo l’«azzardo morale». Se la Bce (o Berlino o il Fmi) diventasse il sicuro prestatore di ultima istanza, ci sarebbe l’incentivo per Stati e banche a non essere rigorosi nella gestione, indebitandosi oltre la capacità di rimborso. Dopo il sostegno a Grecia, Irlanda e Portogallo (da rinnovare), adesso la Germania, la Bce, la Commissione e il Fmi potrebbero soccorrere i nuovi Paesi europei in crisi (Spagna, Italia, e potenzialmente Francia e Belgio). Ma essi pongono due condizioni per contrastare il rischio di azzardo morale. In primo luogo, gli Stati salvati devono attuare misure di austerità economica (taglio di spese e aumento delle imposte, per azzerare il deficit e non aumentare quindi il debito pubblico) e riforme strutturali per far ripartire la crescita economica. E questo è stato già promesso, ma mantenuto da pochi, da oltre un anno. Poi, in secondo luogo, si deve attribuire all’Ue (Commissione, o ministro delle Finanze del Consiglio europeo da creare, o Corte di Giustizia europea) la capacità di verificare i progressi degli Stati e sanzionarne gli inadempimenti. Così i mercati avrebbero fiducia e tornerebbero a far prestiti ai Paesi europei in crisi, a interessi ragionevoli.

L’idea ottimale è che quando tutti i Paesi dell’Eurozona avranno la tripla AAA (e forse basterebbe un pareggio o un avanzo di bilancio stabile nel tempo e una modesta crescita del Pil), allora non soltanto la crisi sarà risolta, ma potrà essere creata un’Agenzia del debito europeo. Essa emetterebbe titoli per tutti gli Stati, a tassi presumibilmente inferiori, e offrirebbe ai mercati internazionali titoli liquidi e sicuri di cui c’è carenza (salvo ricorrere a quelli in dollari e aspettare che la Cina liberalizzi i suoi mercati di capitali e renda convertibile la propria moneta).

Per alimentare la fiducia dei mercati, si sta chiedendo alle banche europee di rafforzare il loro patrimonio per meglio gestire crisi di liquidità e solvibilità, visto che hanno in patrimonio molti titoli di Eurostati in crisi. Ma ciò ha generato ulteriore paura nei confronti di questi istituti di credito; ha accresciuto la concorrenza con i rispettivi Stati sui mercati per procurarsi la liquidità; e, infine, ha stimolato le banche a non prestarsi i soldi tra di loro o alle imprese, a vendere o tagliare branche di attività (aumentando la disoccupazione e restringendo i prestiti nel sistema) e a svendere (e non riacquistare) i titoli dei propri Paesi in crisi.

C’è quindi il rischio che alla fine i grandi operatori finanziari o le corporations statunitensi o cinesi o dei Paesi europei più forti si comprino le banche o le società italiane, spagnole ecc. in crisi. Ma tale colonizzazione creerebbe notevoli tensioni politiche interne para-rivoluzionarie. I partiti più nazionalistici e anti-europei avrebbero la meglio nell’ottenere l’allentamento dei vincoli comunitari, nazionalizzando le politiche prima trasferite a Bruxelles, o lo stesso recesso dall’Ue. A ciò si aggiunge che Londra teme un accresciuto rafforzamento dei vincoli tra i 17 dell’Eurogruppo o tra pochi di loro. Ciò potrebbe escluderla da futuri vantaggi. Nell’immediato, però, i Paesi europei che non adottano l’euro avrebbero molto da perdere dal tracollo dell’Eurozona, come il crollo del loro export e dagli investimenti interni.

La Commissione e il presidente del Consiglio europeo ritengono che la via di uscita, credibile e duratura, sia di rafforzare la governance economica europea e di sostenere i Paesi in crisi, senza permettere che entrino in una recessione troppo grave e lunga. Ma le modifiche dei Trattati richiederanno molto tempo. Finora Germania, Paesi Bassi, Finlandia e Austria, con il sostegno della Commissione (mediante le sue «verifiche fiscali») e della Bce (tramite le sue «lettere» ai Governi e gli interventi limitati sui mercati), hanno giocato all’«instabilità controllata». Hanno permesso cioè una certa dose di panico finanziario per stimolare i Paesi periferici ad assumersi le vecchie responsabilità del Trattato di Maastricht (e per Berlino a non assumersene di nuove e poco gradite dalla propria opinione pubblica). In assenza di volontà o capacità politica dei Paesi periferici (detti «Piigs»: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, ai quali rischiano di aggiungersi Belgio e Francia, perché Nicolas Sarkozy ha problemi a ridurre il deficit di bilancio a pochi mesi delle elezioni presidenziali), si è permesso ai mercati, con le vendite accelerate dei loro titoli, di mettere pressione ai loro Governi in carica perché si dimettessero (ricorrendo alle urne o a Esecutivi tecnici) o varassero politiche di austerità di bilancio e riforme strutturali su pensioni, ammortizzatori sociali, flessibilità sul mercato del lavoro ecc., già richieste dalla Commissione europea in base agli accordi di governance economica del 2010 e alla strategia Europa 2020.

Il primo decennio di vita dell’euro doveva condurre alla convergenza economica dei Paesi della valuta comune sul modello tedesco, che si è saputo avvantaggiare (contenendo gli aumenti salariali e i consumi interni) nelle esportazioni intra-europee a discapito dei Piigs e pure della Francia. Costoro non potevano più effettuare svalutazioni competitive (e si erano illusi di crescere aumentando il debito estero ma non la produttività). Non ha quindi funzionato il Patto di Stabilità, ma neanche la Strategia di Lisbona (2000-10) per lo sviluppo dell’Ue. Adesso, per il periodo 2014- 2020, devono essere effettuati nuovi investimenti a livello nazionale ed europeo (Europa 2020) per oltre mille miliardi di euro. Ma da dove giungeranno i capitali finanziari per lo sviluppo, che sosterrà il pagamento di debiti pregressi e futuri, se la crisi di liquidità non fa arrivare neanche i finanziamenti a medio-lungo termine a tassi d’interesse sostenibili? La Bce, dall’8 dicembre, è disponibile ad allungare la scadenza oltre i 13 mesi ai prestiti alle banche dell’Eurozona fino a 36 mesi. Ma dovranno essere creati nuovi meccanismi, per dare garanzie ai capitali mondiali impauriti di investire in modo duraturo nel continente europeo. E, poi, come rendere concorrenziali le banche e le imprese dei Piigs, se quelle tedesche sostengono un costo del denaro inferiore?

Di fatto la garanzia che il mondo attende non è soltanto finanziaria ma politica. La Germania da sola (con tutta la sua eventuale buona volontà) non può risolvere i problemi dell’Eurozona. Essi richiedono una risposta «creativa» dei 17 e dei 27. E in parte, è venuta, senza l’adesione britannica, dall’8-9 dicembre. I «26» devono dimostrare tramite un rafforzamento del governo comune dell’economia, di volere l’euro e l’Unione, e di non permettere che alcuno Stato (anche se fallisse finanziariamente) venga escluso dall’Eurozona, se vi appartiene, o dall’Unione (come è pure il caso dell’Ungheria che ha appena chiesto sostegno finanziario all’Ue e al Fmi). Questo forte segnale politico potrebbe rasserenare i mercati e ridurre gli spread sul Bund. Inoltre, predisporre una procedura comunitaria per la gestione controllata di una bancarotta statale e bancaria eviterebbe il rischio Argentina 2001 o Lehman Brothers 2008. E ciò rassicurerebbe i mercati.

Purtroppo, nonostante tutto, i mercati potrebbero non riacquistare fiducia nell’Eurozona dopo il Consiglio europeo dell’8-9 dicembre. Chi presterà, allora, i capitali a un grande Stato e alle sue banche per evitarne una bancarotta imminente? Occorre un network di emergenza, strutturato proprio come una rete intessuta lungo varie istituzioni e Paesi e attraverso strumenti finanziari differenziati. Una risposta deve venire anche a livello internazionale, perché, anche se la Banca centrale europea da sola volesse intervenire, questo potrebbe non bastare. Ricordiamo che nel 2012 le banche e gli Stati dell’Eurozona (percepiti con rischi analoghi) devono rifinanziarsi per 1.900 miliardi di euro, escludendo le risorse per nuovi investimenti.

Il sostegno del Fondo monetario internazionale

Al G20 di Cannes, l’Italia e la Spagna, presente come ospite, non hanno chiesto un aiuto finanziario immediato al Fmi. Ma Roma si è impegnata a una verifica rafforzata trimestrale dei propri conti pubblici da parte del Fondo e all’esecuzione, sotto un controllo vigoroso della Commissione europea, del progetto di riforme che il premier Silvio Berlusconi aveva annunciato al Consiglio europeo il 26 ottobre. Il Fmi, con la sua indipendenza e competenza tecnica, dovrebbe garantire i mercati sull’affidabilità italiana nell’attuare le riforme per poter ripagare i suoi debiti. E purtroppo l’Italia il 9 novembre, quando i tassi sui Btp decennali hanno superato il 7%, e il 25 novembre con i titoli a tre mesi al 10%, si conferma il principale problema finanziario mondiale (se la Francia non la sostituisce).

Che cosa avverrebbe se il Tesoro italiano e quello spagnolo non riuscissero più a finanziarsi nei prossimi mesi (o a interessi inferiori al 7-9%) ed entrassero in crisi di solvibilità? È stato predisposto, comunque sia, un «piano B» capace di offrire loro almeno 800 miliardi di dollari per i prossimi 18-24 mesi, magari con finanziamenti pure dalla Federal Reserve? Per dare una risposta a queste domande, è stato creato il G20 ed esiste il Fondo monetario internazionale; entrambi si troverebbero davanti a una sfida mai prima affrontata. Il Consiglio europeo dell’8-9 dicembre e la Cina, in contemporanea, hanno operato in tale direzione. Forse serve pure un «piano C», cioè un fallimento controllato, come per l’Uruguay nel 2003.

Per tranquillizzare i mercati (e non favorire l’azzardo morale), il Fmi si è dotato di nuovi strumenti di finanziamento per Paesi in crisi di liquidità ma solvibili. Ma si tratta di cifre insufficienti, anche insieme con l’Efsf, per salvare l’Italia (soprattutto se prima si dovesse salvare la Spagna). Se la Bce non interverrà massicciamente, il Fmi, da un lato, potrebbe escogitare nuove mega-soluzioni d’urgenza, se non ne avesse di segrete; ma, dall’altro, può fare leva sulle proprie capacità persuasive di gestire i salvataggi nazionali, e di fatto «imporre» all’Italia o alla Spagna di domandare i suoi limitati finanziamenti. Il Fmi avrebbe il potere di esigere riforme economiche (minacciando il taglio degli aiuti) dallo Stato che chiede sostegno. I mercati finanziari potrebbero premiare tale Paese riaprendo i rubinetti del credito (o punirlo, reputandolo in crisi di solvibilità). Se l’Italia chiedesse una piccola quota di aiuti al Fmi per rifinanziare i 440 miliardi di euro di debito pubblico in scadenza nel 2012, dovrebbe attuare riforme che difficilmente il suo Parlamento potrebbe eludere. Questa è una freccia (l’ultima?) nell’arco del premier Mario Monti per tenere a bada i partiti (e i mercati finanziari). E ciò rafforza la credibilità nel Governo tecnico italiano nel panorama internazionale.

(1) Ma il massiccio deflusso di capitali finanziari di questi mesi da molti Eurostati, in particolare Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Italia (e pure da Francia e Belgio, che rischiano la loro tripla AAA), è parzialmente compensato dall’afflusso di capitale in Germania, considerata l’unico porto sicuro, e dal rientro della liquidità detenuta all’estero operato dalle banche dell’Eurozona. Per questo l’euro non si è molto svalutato rispetto al dollaro. Inoltre resiste una domanda precauzionale di attività finanziarie in euro, se la valuta statunitense si deprezzasse. Ciò potrebbe accadere se la Federal Reserve, per sostenere l’occupazione (le banche statunitensi e i corsi azionari), riprenderà le sue forti politiche monetarie espansive.