Il mondo è già entrato nella seconda fase della crisi

Armando Boito JR.
Jornal da Unicamp, 15.12.2011

L’economista francese Gérard Duménil è autore di vari testi e saggi sul capitalismo contemporaneo. Quest’anno ha pubblicato, in collaborazione con Dominique Lévy, il libro “The crisis of neoliberalism” (Harvard University Press, 2011). Dumenil ha tenuto all’Unicamp una conferenza sulla crisi attuale nel Centro di Studi Marxisti (Cemarx) nell’ambito del programma post-laurea di scienze politiche dell’Istituto di Filosofia e Scienze Umane (IFCH) dell’Unicamp. In questa occasione, ha concesso un’intervista al politologo Armando Boito Júnior, professore titolare dell’IFCH.

Jornal da Unicamp – Lei sta analizzando il capitalismo neoliberista da molto tempo. Nella sua analisi, come si caratterizza la fase attuale del capitalismo?

Gérard Duménil – Il neoliberismo è la nuova tappa in cui è entrato il capitalismo dopo la transizione degli anni ‘70 e ‘80. Con Dominique Lévy parliamo di un nuovo “ordine sociale“. Con questa espressione designiamo la nuova configurazione dei poteri tra le classi sociali, delle dominazioni e delle difficoltà incontrate. Il neoliberismo si caratterizza con il rafforzamento del potere delle classi capitaliste in alleanza con la classe dei dirigenti (quadri), in modo particolare quelli che sono in cima alla gerarchia sociale e nel settore finanziario.

Nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, le classi capitaliste videro diminuire il proprio potere e i propri redditi nella maggioranza dei paesi. Semplificando, potremmo parlare dell’esistenza di un ordine “socialdemocratico” durante questo periodo. Le circostanze create dalla crisi del 1929, la Seconda Guerra Mondiale e la forza internazionale del movimento operaio avevano portato all’introduzione di un ordine sociale relativamente favorevole allo sviluppo economico e al miglioramento delle condizioni di vita delle classi popolari, operaie e degli impiegati subalterni. Il termine “socialdemocratico” usato per caratterizzare questo ordine sociale si applica, evidentemente, più all’Europa che agli Stati Uniti.

Con l’introduzione del nuovo ordine sociale neoliberista, il funzionamento del capitalismo venne radicalmente trasformato: fu imposta una nuova disciplina in materia di condizioni di lavoro, potere di acquisto, protezione sociale, eccetera, oltre alla deregolamentazione – fondamentalmente finanziaria – all’apertura delle frontiere commerciali e alla libera mobilità di capitali nel piano internazionale (libertà di investire all’estero). Questi ultimi due aspetti hanno posto i lavoratori di tutto il mondo in una situazione concorrenziale, indipendentemente dai livelli salariali dei diversi paesi.

Sul piano delle relazioni internazionali i primi decenni del dopoguerra, ancora nel vecchio ordine “socialdemocratico”, furono segnati dalle pratiche imperialistiche dei paesi centrali: sul piano economico, con la pressione sui prezzi delle materie prime e l’esportazione dei capitali; sul piano politico, con la corruzione, la sovversione e i conflitti. Con l’arrivo del neoliberismo le forme imperialiste furono rinnovate. È difficile giudicare nei termini di intensità per poter fare paragoni. In termini economici, l’esplosione degli investimenti diretti all’estero negli anni ‘90 moltiplicò certamente il flusso dei profitti estratti dai paesi periferici dalle classi capitalistiche del centro. Il fatto che i paesi della periferia desiderassero ricevere questi investimenti non modifica la natura imperialista di queste iniziative, in quanto sappiamo che tutti i lavoratori “preferiscono” essere sfruttati al rimanere disoccupati.

Quando a metà degli anni ‘90 proponemmo quest’interpretazione del neoliberismo in termini di classe suscitò ben poco interesse. In seguito, l’esplosione delle disuguaglianze sociali ha dato a quest’ipotesi la forza dell’evidenza. La particolarità dell’analisi marxista è il riferimento alle classi più che ai gruppi sociali. Il carattere di classe è inscritto in tutte le pratiche neoliberiste e perfino i keynesiani di sinistra ora si esprimono in questi termini. Tuttavia, rimangono opinioni negative per questa interpretazione; molti non accettano il ruolo importante che noi attribuiamo ai dirigenti e ai quadri nell’ordine sociale neoliberista.

Tra i marxisti si continua a rifiutare l’idea che il controllo dei mezzi di produzione nel capitalismo moderno sia assicurato sia dalle classi capitaliste che da quella dei dirigenti, e che ciò rende quest’ultima una seconda componente delle classi superiori. Questo rifiuto è ancora più sconcertante, considerando che nel neoliberismo gli introiti delle categorie superiori dei dirigenti sono aumentati ancor di più di quelli dei capitalisti.

JU – Per alcuni autori il neoliberismo fu un aggiustamento inevitabile provocato dalla crisi fiscale degli Stati; per altri fu il risultato, anche in questo caso inevitabile, della globalizzazione.

Gérard Duménil – La spiegazione del neoliberismo – a causa della “crisi fiscale” e spesso anche dell’inflazione – è la spiegazione della destra; è una difesa degli interessi capitalisti. Specula sulle inconsistenze dei blocchi politici che hanno diretto l’ordine sociale del dopoguerra. Questi blocchi sarebbero stati incapaci di gestire la crisi degli anni ‘70 e per questo siamo giunti al neoliberismo. Succede la stessa cosa con la spiegazione che presenta il neoliberismo come conseguenza della globalizzazione. Quest’argomento riguarda invece le causalità. Il neoliberismo si orienta verso la globalizzazione, una tendenza antica, per aprirsi nuove strade e per accelerare il suo corso, aprendo la via alla “globalizzazione neoliberista”. Il movimento altromondista lottò per un’altra globalizzazione, solidale, e non basata sullo sfruttamento al profitto di una minoranza.

JU – Lei ha appena pubblicato, insieme al collega Dominique Lévy, un libro sulla crisi economica attuale. Secondo la sua analisi, qual è la natura di questa crisi?

Gérard Duménil – La crisi attuale è una delle quattro grandi crisi – crisi strutturali – che il capitalismo ha attraversato dalla fine del XIX secolo: la crisi della decade del 1890, la crisi del 1929, la crisi degli anni ’70 e quella attuale iniziata nel 2007/2008. Queste crisi sono episodi di perturbazione della durata di una decina di anni, almeno le prime tre. Si susseguono con una cadenza di circa 40 anni e separano gli ordini sociali ai quali mi sono riferito nella risposta alla prima domanda. La prima e la terza di queste crisi, quelle dei decenni del 1890 e del 1970, sono successive a periodi di caduta nel tasso di profitto e possono essere designate come crisi di rendimento. Le altre due crisi, quella del ‘29 e l’attuale, le designiamo come “crisi” di egemonia finanziaria. Sono grandi esplosioni che hanno la sua origine nelle pratiche delle classi superiori che cercano l’aumento delle proprie entrate e del proprio potere. Qui si possono individuare i dispositivi basilari del neoliberismo: deregolamentazione finanziaria e globalizzazione. Il primo aspetto è evidente, ma la globalizzazione è stato, come indico, un fattore chiave della crisi attuale.

Caduta del tasso di profitto ed esplosione senza controllo delle pratiche delle classi capitaliste sono due delle principali spiegazioni delle grandi crisi nell’opera di Marx. La prima è ben conosciuta. Nel Libro III del Capitale Marx difende la tesi della necessità del cambiamento tecnologico nel capitalismo, la difficoltà di aumentare la produttività del lavoro senza realizzare investimenti molto costosi, quello che Marx descrive come “aumento della composizione organica del capitale“.

Va notato che Marx confuta esplicitamente che la caduta del tasso di profitto si debba all’aumento della concorrenza (la seconda grande spiegazione per le crisi appare già abbozzata negli scritti di Marx a partire dal 1840). Nel Manifesto del Partito Comunista Marx descrive le classi capitaliste come apprendisti stregoni, che sviluppano meccanismi capitalistici in forme e dimensioni rischiose e che perdono, alla fine, il controllo sulle conseguenze delle loro iniziative. Gli aspetti finanziari della crisi attuale rimettono direttamente alle analisi del “capitale fittizio” che Marx sviluppa largamente nel Libro II del Capitale e che erano già presenti in certo modo anche nel Manifesto. Stranamente alcuni marxisti accettano la spiegazione delle grandi crisi solo per la caduta del tasso di profitto, escludendo qualunque altra spiegazione.

Ma la crisi attuale non è una semplice crisi finanziaria. È la crisi di un ordine sociale insostenibile, il neoliberismo. Questa crisi al centro del sistema sarebbe comunque arrivata un giorno o l’altro, ma è giunta in modo molto particolare nel 2007/2008 negli Stati Uniti. Si sono congiunte due circostanze. Da una parte, la fragilità indotta in tutti i paesi neoliberisti a causa delle pratiche di finanziarizzazione e di globalizzazione fondamentalmente finanziaria, motivata dalla ricerca sfrenata di rendimenti crescenti da parte delle classi superiori e rafforzata dall’assenza di regolamentazione. La banca centrale degli Stati Uniti, in questo caso, perse il controllo dei tassi di interesse e la capacità di condurre politiche macroeconomiche a causa della globalizzazione finanziaria. In secondo luogo, la crisi fu l’effetto della traiettoria economica statunitense, una traiettoria di squilibri cumulativi, che gli USA possono mantenere grazie alla loro egemonia internazionale, contrariamente all’Europa che, presa nel suo insieme, non ha squilibri di questo tipo.

Dal 1980 il ritmo di accumulazione di capitale negli Stati Uniti è calato all’interno, mentre crescevano gli investimenti diretti all’estero. A questo va sommato un deficit crescente del commercio estero, un forte aumento dei consumi da parte dei settori più agiati e un indebitamento sempre maggiore delle famiglie. Il deficit del commercio estero e l’eccesso di importazioni in rapporto alle esportazioni hanno alimentato un flusso di dollari in tutto il pianeta che aveva come unico utilizzo possibile l’acquisto di titoli statunitensi, portando al finanziamento dell’economia nordamericana da parte degli attori stranieri.

Per ragioni economiche che non spiegherò qui, la crescita del debito estero doveva essere compensata da quella del debito interno, quello delle famiglie e quello dello Stato, al fine di sostenere l’attività nel territorio nazionale. Ciò fu fatto incoraggiando l’indebitamento delle famiglie grazie alla politica creditizia e alla deregolamentazione. L’indebitamento del governo avrebbe potuto sostituire l’indebitamento delle famiglie, ma ciò andava contro le pratiche neoliberiste anteriori alla crisi. I creditori delle famiglie – le banche e altri – non trattennero i crediti da loro creati, ma li rivendettero sotto forma di titoli, di cui circa la metà fu comprata dal resto del mondo.

A furia di prestare alle famiglie oltre le loro capacità di saldare i debiti, gli inadempimenti si sono moltiplicati dall’inizio del 2006. La svalutazione di questi crediti destabilizzò il fragile edificio finanziario, negli Stati Uniti nel mondo intero, senza che la banca centrale degli Stati Uniti fosse in grado di ristabilire gli equilibri in un contesto di deregolamentazione e di globalizzazione che lei stessa aveva favorito. Questo fu il fattore scatenante, ma non quello fondamentale della crisi: una combinazione di fattori finanziari (la follia neoliberista in questo settore) e reali, la globalizzazione (il sovra-consumo statunitense e il suo deficit nel commercio estero).

JU – Lei ha suggerito nelle sue conferenze in Brasile che la crisi economica sarebbe entrata in una seconda fase. Come si sta sviluppando la crisi?

Gérard Duménil – Il mondo è gia entrato nella seconda fase della crisi. È facile comprenderne le ragioni. La prima fase ha raggiunto il suo apice nell’autunno del 2008 quando fallirono le grandi istituzioni finanziarie statunitensi, si avviò la recessione e la crisi si diffuse al resto del mondo. Le lezioni della crisi del 1929 sono state ben apprese. Le banche centrali sono intervenute in modo massiccio per sostenere le istituzioni finanziarie (per timore di una replica della crisi bancaria del 1932) e il passivo di bilancio degli Stati ha raggiunto livelli eccezionali. Ma queste misure keynesiane, stimolando la domanda, potevano dar forma a una sostenibilità economica temporanea. Ma ancora oggi i governi dei paesi centrali non hanno preso coscienza del carattere strutturale della crisi. Agiscono come se la crisi fosse unicamente finanziaria e fosse gia superata; nel frattempo, le misure keynesiane hanno permesso solo di guadagnare tempo. Nessuna iniziativa anti-neoliberista è stata introdotta nei paesi centrali. Sono solo politiche che cercano rafforzare lo sfruttamento delle classi popolari.

Negli Stati Uniti l’amministrazione di Obama ha elaborato una legge, la Dodd-Frank, per regolamentare le pratiche finanziarie, ma i Repubblicani hanno bloccato completamente la sua applicazione. In altri campi –gestione delle imprese, esportazioni, deficit del commercio estero – non è stato fatto niente. In Europa la crisi non viene identificata con la crisi del neoliberismo. La Germania viene presentata come la prova della solvibilità della via neoliberista. La crisi viene imputata all’incapacità di gestione di alcuni Stati, principalmente quello greco e quello portoghese.

La destra ha ripreso l’offensiva in tutti i campi. Si sta aggrappando alla questione dei deficit di bilancio e alla dimensione del debito pubblico. Finge di non vedere che l’austerità, oltre a rappresentare un trasferimento del peso del debito alle classi popolari, non può far altro che provocare una ricaduta verso una nuova contrazione dell’attività. Questa è la seconda fase della crisi ma non l’ultima. La nuova ricaduta recessiva renderà necessarie nuove politiche. Diversamente dall’Europa, gli Stati Uniti si sono diretti speditamente verso il finanziamento diretto del debito pubblico tramite la banca centrale. Nonostante le posizioni della destra, sarebbero necessarie altre misure. Noi riusciamo a vedere come l’Europa possa evitarlo.

JU – È noto che la crisi economica ha colpito in maggior misura, per lo meno finora, gli Stati Uniti e l’Europa. Negli anni ’90, al contrario, la crisi economica fu più forte nella periferia. Perché questa differenza? Come si manifesta la crisi attuale nelle differenti regioni del globo?

Gérard Duménil – Fino alla seconda metà degli anni ’90 il neoliberismo ha prodotto stragi in tutto il mondo, principalmente in America Latina e in Asia. Lo stesso avviene oggi, i tassi di crescita in America Latina rimangono inferiori a quelli dei primi decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale e ciò malgrado la forte riduzione dei salari reali che, in alcuni paesi della regione, furono ridotti della metà dalla crisi degli anni ’70. Nel decennio degli anni ’90, e nel 2001 in Argentina, lo sviluppo del neoliberismo ha provocato una forte crisi, della quale quella argentina rappresenta un esempio emblematico.

Il mondo è entrato in una nuova fase. La transizione al neoliberismo ha provocato una specie di “divorzio” nei paesi del centro tra gli interessi delle classi superiori e quelli del paese come ambito economico. Il caso degli USA è spettacolare. Come ho già detto, le grandi imprese di questa nazione investono sempre meno nel proprio territorio e sempre di più nel resto del mondo. La globalizzazione ha portato a una delocalizzazione della produzione industriale verso le periferie: Asia, America Latina e perfino verso alcuni paesi dell’Africa sub-sahariana.

JU – Le politiche proposte dai due grandi dell’Unione Europea per superare la crisi ripetono le formule neoliberiste. I mercati intimoriscono i governi; Sarkozy e Merkel richiedono sempre più tagli al bilancio. Perché insistono su una politica che, per molti osservatori, è proprio all’origine della crisi? Che risultato si può ottenere con l’applicazione di queste politiche?

Gérard Duménil – In nessun modo penso che la mancanza di rigore sui bilanci sia stata una delle cause della crisi. È invece l’espressione di un’ingenua valutazione keynesiana, tanto ingenua quanto quella che i keynesiani hanno nei riguardi della capacità di queste politiche di permettere di uscire dalla crisi senza prendere in considerazione le necessari trasformazioni anti-neoliberiste. Anche in questo caso, le politiche che cercano eliminare i deficit non hanno ostacolato una nuova flessione della produzione.

JU – Molti analisti hanno evidenziato che i partiti, siano di destra o di sinistra, non si differenziano molto nelle proposte per affrontare la crisi. Inoltre, in vari paesi europei – come Inghilterra, Spagna e Portogallo – la destra è stata favorita elettoralmente dalla crisi economica. I movimenti sociali potrebbero costruire un’alternativa di potere? Quale potrebbe essere un programma popolare per affrontare la crisi attuale?

Gérard Duménil – Non abbiamo ancora parlato degli aspetti politici del neoliberismo. L’alleanza della vetta della gerarchia sociale tra la classe capitalista e quella dei dirigenti è riuscita, con diversi meccanismi, ad allontanare le classi popolari dalla politica. Le ha allontanate dal campo dei partiti e dai gruppi di attivismo. Per le classi popolari è rimasta solo rimase solo la lotta nelle piazze.

È necessario rimettere in primo piano i gruppi sociali che si trovano nella “periferia” delle classi dei dirigenti (quadri): gli intellettuali e i politici professionisti. Nel compromesso sociale dopo la Seconda Guerra Mondiale, frazioni relativamente importanti di questi gruppi erano a favore dell’alleanza con le classi popolari a cui non appartenevano. Nel contesto del collasso del movimento operaio mondiale, le classi capitaliste sono riuscite, col neoliberismo, a sancire un’alleanza con le classi dei dirigenti, utilizzando principalmente la risorsa della remunerazione, portando gradualmente questi gruppi periferici (l’università ci porta esempi calzanti di questo fenomeno) verso l’attività di conquista sociale tipica del neoliberismo. La quantità dei gruppi sociali stretti in un’alleanza con le classi popolari è diminuita sempre più, riducendosi ad alcuni gruppi di “illuminati”, gruppi ai quali io stesso appartengo.

Le sofferenze delle classi popolari non arriva al gruppo dei dirigenti e, sul piano politico, non esistono più grandi partiti di sinistra. In Francia abbiamo già visto quello che è diventato il Partito Socialista, completamente arruolato nella “globalizzazione”, un termine usato per occultare il neoliberismo. Qualcosa simile di potremmo dire dei Democratici negli Stati Uniti e lascio a voi giudicare la situazione in Brasile.

La vita politica si riduce all’alternanza tra partiti non equivalenti; ma il partito che si dice di sinistra è incapace di proporre un’alternativa, per non parlare della sua capacità di implementarla. Il voto costituisce ormai quello che noi in Francia chiamiamo “voto punitivo“. La destra si alterna alla sinistra in Spagna, per fare un esempio, perché la sinistra era al potere durante la crisi; la destra non ha, evidentemente, nessuna capacità superiore di gestire la crisi.

JU – Molti osservatori hanno suggerito la possibilità che l’euro si estingua. Lei ritiene che ciò possa avvenire? In base alla sua analisi, quali sarebbero i risultati più probabili della crisi attuale?

Gérard Duménil – È possibile che alcuni paesi escano dall’eurozona. Ma ciò non risolverà il problema del debito, che torneranno ad essere impagabili dopo la svalutazione della nuova moneta in sostituzione dell’euro. Il problema è quello della cancellazione del debito o dell’accorpamento da parte della banca centrale. La crisi del debito ora ha colpito anche i paesi centrali dell’Europa, e sarà necessario che questi prendano coscienza dell’ampiezza e della vera natura del problema.

Ciò ci fa tornare alle caratteristiche di quella che chiamiamo la “terza fase della crisi”. Quali politiche saranno adottate per far fronte alla nuova recessione? Come sarà digerita la crisi in Italia e poi in Francia? Come risponderà la Germania alla pressione dei “mercati”, le istituzioni finanziarie internazionali? Una cosa la sappiamo: questi debiti non devono essere pagati, bisogna che questi debiti vadano portati fuori dalle banche o che ci sia un forte intervento nella loro gestione.

Ora, il punto fondamentale è dato dalla volontà dei governi dei paesi più potenti in ‘Europa – principalmente la Germania – di rafforzare l’integrazione europea invece di porre fine all’eurozona che si oppone alla volontà di “deglobalizzazione” di alcuni? Questo dibattito nasconde la questione fondamentale: quale Europa? Un’Europa delle classi superiori o quella di un nuovo compromesso di sinistra?