Finché il mantra della crescita continuerà a condizionare scelte politiche e ipotesi di soluzione della crisi ambientale

Carla Ravaioli
www.womenews.net

I danni conseguenti alla crisi ecologica planetaria non sono stati ancora calcolati con esattezza relativamente al 2011, e non si hanno pertanto dati definitivi. Ciò che comunque tutti i più accreditati Istituti di ricerca specializzati in materia danno per certo è che l’anno appena concluso ha registrato catastrofi notevolmente più gravi, sia in perdite umane che in danni materiali, rispetto al “saldo” del 2010; il quale aveva parlato di circa 295mila morti, e di disastri valutati sui 130 miliardi di dollari. Motivi di ottimismo dunque non ce ne sono.

In questa situazione era ragionevole supporre, o quanto meno sperare, che il “summit” ambientale di Durban, dopo i due “nulla di fatto” di Copenhagen e di Cancun, affrontasse responsabilmente e coraggiosamente il problema, ormai non solo dai più celebri cervelli, ma da tutte le persone responsabili, dato come decisivo per il futuro dell’umanità. Non pochi – è vero – erano i sintomi che tutt’altro parevano presagire. Basti pensare in proposito (per restare a casa nostra) alle pubbliche dichiarazioni del Professor Corrado Clini, appena eletto ministro dell’ambiente del governo Monti, il quale – ripreso dai nostri principali quotidiani – aveva parlato di 250 progetti per lo sviluppo e il trasferimento di tecnologie italiane eco-efficienti, da proporre a paesi sudamericani, africani, australiani, per lo sviluppo della Green Economy…

Una dichiarazione che efficacemente sintetizza quella pericolosa distorsione della questione ecologica, ormai perseguita dalla maggioranza dei governi del mondo, la quale di fatto rovescia il problema e, assimilandolo alla logica economica dominante, vorrebbe trasformare il rischio in occasione di crescita produttiva: in tal modo di fatto alimentando le cause stesse della crisi. La quale (non dimentichiamolo) a lungo è stata ignorata, quando non negata, dai governi e dai massimi responsabili dell’economia mondiale; della quale, in seguito, in presenza di eventi sempre più sconvolgenti, inevitabilmente ci si dovette occupare, poi però puntualmente tornando a ignorarla. Trattandola insomma come un “disturbo”, certo, spesso magari pesante, ma in definitiva di poca o nessuna incidenza sulle future sorti del mondo.

Oggi lo squilibrio degli ecosistemi terrestri si pone come il rischio più grave per l’umanità, e lo afferma un numero crescente di celebri scienziati e intellettuali di tutti i paesi. Ma a Durban non s’è nemmeno tentato un confronto significativo in proposito tra i convenuti (non tanti, va detto, né di grande rilevanza politica);così come non s’è riusciti a rinnovare il Protocollo di Tokio che, pur con tutti i suoi limiti, qualche serio segnale d’allarme l’aveva lanciato, e aveva posto in materia qualche vincolo significativo nella direzione giusta. Di fatto Durban (d’altronde come già Copenhagen e Cancun) è stato soltanto un confronto su possibili provvedimenti capaci di ridurre in qualche misura l’inquinamento (tipo lampade a basso consumo, contatori “intelligenti”, plastiche biodegradabili, e simili, e soprattutto uso crescente di energie “rinnovabili”), ma senza affrontare in radice il problema, e nulla proporre di risolutivo.

Al contrario di fatto operando nella logica della crescita quale regola indiscussa, magari proponendo merci in qualche misura meno inquinanti, ma senza mai affrontare la vera radice dello squilibrio ecologico: che indubbiamente deriva dalla qualità della produzione, ma è anche, anzi principalmente, un fatto di “quantità”. Non dimentichiamo che “I limiti dello sviluppo”, il celebre libro firmato nel ’72 dai coniugi Meadows, ricercatori dell’Mit (tradotto e venduto dovunque, e dovunque riconosciuto come il primo scientificamente valido segnale d’allarme in materia), nell’originale si intitolava “Limits to growth”, cioè “Limiti alla crescita”. Questo infatti a mio parere (e non soltanto mio) rimane il nodo centrale del problema, che provo a illustrare brevemente.

Tutto quanto produciamo, e vendiamo, comperiamo, usiamo, consumiamo, distruggiamo (un tavolo, un palazzo, un abito, un’automobile, un aereo, un computer, un telefonino, un’astronave…) tutto è “fatto” di natura, minerale, vegetale, animale; tutti sono frammenti – piccoli, grossi, giganteschi – del pianeta che abitiamo. Il quale ha dimensioni certo considerevoli, ma comunque “finite”, e non dilatabili a richiesta; e non è pertanto in grado né di alimentare una produzione in crescita illimitata (quale l’economia capitalistica prevede) né di neutralizzare i rifiuti, liquidi, solidi, gassosi, che ne derivano, e si sommano, inevitabilmente squilibrando l’ecosistema.

Queste elementari verità la politica dominante le ignora, così come le ignora la cultura più diffusa. E non è un caso che l’aggravarsi dello squilibrio ambientale, anche nel Sud del mondo, vada di pari passo con il diffondersi e globalizzarsi delle logiche produttive occidentali. Così come appare evidente dal fatto che tra i possibili rimedi alle attività più inquinanti, via via proposti dall’ambientalismo più consapevole, vengano raccolte dal mondo produttivo e dal mercato soltanto quelli che non contraddicono la logica economica dominante, o addirittura di fatto possono contribuire a sostenerla.

Proviamo a considerare (per restare nell’ambito di quel poco che è stato discusso e proposto a Durban) qualcuna delle tante nuove tecnologie “verdi”, caldeggiate dai rappresentanti del Nord del mondo, e con entusiasmo suggerite a quelli del Sud. Ad esempio la raccolta differenziata dei rifiuti, e il possibile loro riuso: è una politica utile, chi può negarlo. Ma tentare di produrre meno rifiuti non sarebbe più razionale, e di fatto molto più utile? Penso (per fare un solo esempio) a quella sterminata quantità di contenitori (scatole, sacchetti, involucri vari, tra l’altro quasi sempre di plastica e pertanto destinati all’immortalità) che di fatto “vivono”, cioè svolgono una funzione, solo nei tempi del passaggio dalla fabbrica al supermercato, per finire in discarica nel giro di pochi giorni o addirittura di poche ore…

Oppure pensiamo al pressante invito a sostituire le vecchie lampade a incandescenza con le nuove “fluorescenti-compatte”: come contraddire gli esperti che ne sostengono le virtù di minor consumo? Difficile però negare che ciò comporti da un lato, quasi sempre, lo scarto di lampade ancora funzionanti (ad aumentare spreco e accumularsi dei rifiuti) dall’altro nuova produzione (con inevitabile consumo di materie prime e sempre, poco o tanto, inquinamento). O ancora: isolare tetti e mura con sistemi anti-dispersione termica, oggi in gran voga, può (ammettiamo) significare notevole risparmio in riscaldamento o refrigerazione; ma nel frattempo è difficile pensare che la messa in opera di attrezzature del genere, applicate a interi vasti edifici, magari a grattacieli, possano risultare innocui…

Analogamente i pressanti inviti a sostituire la vecchia auto con un’auto elettrica, o comunque garantita “non inquinante”, sempre di fatto si iscrivono nel segno del consumo e della crescita, e insieme, ahimè, del progressivo degrado dell’ambiente.

“Produrre inquina”, afferma Joseph Stiglitz , che non è un “verde”, ma un “Nobel” per l’economia. E John McNeil, nella sua famosa “Storia dell’ambiente”, sostiene che un’ automobile, nell’essere prodotta, inquina all’incirca quanto inquinerà in dieci anni di circolazione. Considerazioni analoghe potrebbero essere dedicate alle energie “rinnovabili”, in mille modi previste non solo per riscaldare o refrigerare uffici, appartamenti, supermercati, ecc., ma anche per far marciare intere grandi fabbriche, usando enormi estensioni di pannelli solari, i quali fatalmente causano la desertificazione del terreno sottostante…

Si potrebbe continuare. Ma sono cose che chi vuole conosce già. E che comunque non servono granché finché il “mantra” della crescita continua a condizionare scelte, progetti, politiche, ipotesi di soluzione della crisi di fatto continuando a squilibrare il mondo senza peraltro in alcun modo ridurre disuguaglianze e sfruttamenti. Anzi, senza nemmeno contemplarne l’ipotesi, parrebbe…

Riflettere su Durban significa riflettere anche su questo.