Considerare il lavoro, nelle sue dimensioni produttive e di riproduzione sociale, un bene comune

Nicoletta Pirotta – IFE (Iniziativa Femminista Europea)
www.womenews.net, 17 gennaio 2012

“Durante una trasmissione Rai molto seguita, l’attuale Presidente del Consiglio (al cui governo, purtroppo, non credo esistano per il momento alternative praticabili) tiene a precisare che considera la ricchezza un valore fondato sul merito. Dunque , aggiungo io, chi è ricco merita e chi è povero, al contrario, non merita nulla.

Però, aggiunge il Presidente, proprio per questa ragione chi è ricco dovrebbe “filantropicamente” (dice proprio così!) donare un po’ della propria ricchezza alla società, per “aiutare” chi ricca/o non è. Alla faccia, aggiungo sempre io, dei diritti individuali e collettivi, così faticosamente ottenuti.

Per un attimo ho pensato di essere tornata nella seconda metà del 1800, ma poi constatato che non c’è il fermento sociale di allora (la Comune di Parigi, la nascita di sindacati, partiti, società operaie e di mutuo soccorso, i movimenti femminili….) sono ripiombata nella drammaticità dell’oggi.

Sempre sul tema qualche sera fa un noto conduttore televisivo ha sostenuto con leggiadria che il problema non è quanto si guadagna ma se si lavora con responsabilità e senso del dovere.
Il punto di vista è a dir poco bizzarro perché mi si deve spiegare come mai, a parità di responsabilità e senso del dovere c’è chi percepisce salari intorno ai mille euro e chi guadagna centinaia di migliaia o addirittura milioni di euro.

Riflettendoci sopra sono arrivata a due conclusioni.

La prima è che forse vedo troppa televisione. Mi converrà leggere di più ed arrabbiarmi di meno.

La seconda è che dentro la crisi economica, fatta finalmente piazza pulita di bunga bunga brianzoli e di celoduristi padani, vengono riproposte, in termini antichi, differenze di classe e di genere che sembravano, se non superate, quantomeno contenute da uno dei principi fondativi della nostra carta costituzionale, quello di eguaglianza.
Per tutto ciò credo che prima di trovarci in un futuro che sa di passato remoto dovremmo, senza indugio, immaginare un diverso modello di società.

Cioè dovremmo, paradossolmente, fare di questa crisi economica e sociale un’occasione per ripensare e risignificare principi quali l’eguaglianza, la laicità, l’autodeterminazione.

Considerare il lavoro, nelle sue dimensioni produttive e di riproduzione sociale, un bene comune al quale garantire qualità e sicurezza; riconoscere ambiente e natura come beni comuni in sé, non assogettabili ad alcun profitto; promuovere relazioni sociali ed interpersonali fondati su una solida comunanza ed empatia; pensare al vivente non umano in termini rispettosi e non utilitaristici, sarebbe una bella base di partenza.

Mi piace, dunque, immaginare che le tante e i tanti di noi che ancora ci credono sappiano divenire “partigiane/i dei beni comuni”, per modificare gli attuali rapporti di potere e rompere le compatibilità date. In fondo lo dice anche uno spot pubblicitario : “Immagina. Puoi.”