F-35, tutte le bugie del ministro

Silvia Cerami
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«Un ripensamento, ma è un programma di elevato valore operativo che garantirà molti posti di lavoro». Con queste parole il neo ministro della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, ha risposto ad un’interrogazione in merito al controverso programma Joint Strike Fighter F-35.

Un programma che prevede l’acquisto di 131 cacciabombardieri a una cifra di 15 miliardi di euro e una risposta che, per Massimo Paolicelli e Francesco Vignarca, esponenti della campagna ‘Taglia le ali delle armi’, «non è una notizia». Perché «ridurre di 20 o 30 velivoli non avrebbe senso», perché i 10 mila posti di lavoro di cui parla il ministro «sono stati smentiti dalla stessa Aeronautica Militare», perché i costi sono ben più alti e Di Paola continua a presentare «dati smentiti dallo stesso Pentagono».

Non solo F-35. Secondo Paolicelli e Vignarca, autori de ‘Il caro armato’, un testo che cerca di ricomporre un quadro coerente delle spese, degli affari e degli sprechi delle Forze Armate italiane, nel nostro Paese la spesa militare è poco trasparente, non si comprendono le modalità con cui vengono scelti i sistemi d’arma e troppo spesso emergono conflitti di interesse.

Il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola ha parlato di un ripensamento. Siete soddisfatti?
«No, noi chiediamo la cancellazione della partecipazione italiana al programma F-35. Ripensare era già nell’ordine delle cose, non mi sembra una notizia. Secondo la tabella di marcia, l’Italia avrebbe dovuto sottoscrivere il contratto a dicembre 2009, ma non l’ha ancora fatto. Il ripensamento c’è già stato, del resto il programma è fatto da nove Paesi e almeno cinque hanno avuto ripensamenti forti o hanno sospeso la partecipazione a causa del lievitare dei costi e dei ritardi. Ridurre di 20 o 30 velivoli non avrebbe senso e non avrebbe senso nemmeno per i militari. La versione più in dubbio infatti è la ‘F-35 B’, quella a decollo corto e atterraggio verticale che vorrebbero per la portaerei ‘Cavour’. E’ la versione più problematica del programma, tanto che l’anno scorso la Gran Bretagna ha deciso di ritirarsi».

Secondo le vostre analisi quali sono i costi già spesi e quali quelli a cui andiamo incontro? E con quali i ritorni industriali?
«Finora abbiamo partecipato alla fase di sviluppo e di pre-industrializzazione per un costo di 2 miliardi di euro, costo confermato dall’Aeronautica Militare. Oltre a questo occorre aggiungere 700 milioni di euro stanziati per costruire la struttura di Cameri, dove dovrebbero essere assemblati i velivoli e dove Alenia dovrebbe costruire l’ala sinistra del velivolo. Stimiamo poi in 15 miliardi, cifra che oramai tutti accettano e confermata dai documenti ufficiali statunitensi, i costi d’acquisto di 131 cacciabombardieri. A fronte dei 2,7 miliardi già spesi i ritorni di cui si è sentito parlare, a seconda delle stime, vanno dai 350 ai 570 milioni. Insomma un misero 20 per cento di rientro industriale, che se parametrato sui 15 miliardi che andremmo a spendere in caso di acquisto vorrebbe dire commesse per poco più di 3 miliardi di euro. Ma in un programma aeronautico, il costo vero è quello successivo, ossia quello di mantenimento, gestione e addestramento del personale. Un costo complessivo che uno studio del Parlamento canadese ha stimato in tre volte quello d’acquisto».

Vignarca, su ‘Altreconomia’ lei ha recentemente rivelato che non ci sono penali in caso di ritiro. Pensa che ci siano comunque altri interessi? Proprio Di Paola nel 2002 ha firmato la partecipazione al programma.
«Non penso che Di Paola abbia ritorni personali, ma di certo ha sposato il programma dall’inizio e lo sta difendendo ancora adesso, tirando dritto, come nella migliore tradizione militare. In Parlamento ha presentato una slide con i dati di dicembre 2010, non tenendo conto del report del Pentagono, capofila del progetto, che ha messo in luce i flop delle fasi di collaudo e i ritardi. Penso che un militare che ha seguito i programmi di armamento non può essere quello che oggi decide proprio sui programmi d’armamento».

Il ministro ha parlato in ogni caso «di un programma di elevato valore operativo che garantirà molti posti di lavoro, nell’ordine di 10 mila unità». Secondo i vostri studi è così?
«Un dato irreale e smentito da valutazioni sindacali, industriali e dalla stessa Aeronautica Militare. Il dato di 10 mila unità è riferito alle stime di otto anni fa, quando è partito il progetto. Alenia stessa parla di 2 mila persone occupate e l’Aeronautica di 600 nella fase standard. Inoltre è ovvio che se investo soldi porto anche lavoro, ma la domanda è se l’investimento è efficace. Con 15 miliardi di investimento si possono avere ben più di 2.600 posti di lavoro».

Cacciabombardieri come gli F-35 possono essere contrari ai principi della nostra Costituzione?
«Gli F-35 possono portare testate nucleari e questo vuol dire prima di tutto contravvenire al Trattato di non proliferazione nucleare che l’Italia ha firmato. Inoltre ci sembra che rispettare la Costituzione e ripudiare la guerra non significhi comprare armamenti d’attacco in grado di portare testate nucleari».

Nel 2011 il nostro Paese, secondo il bilancio della Difesa, ha speso oltre 20 miliardi all’anno in armamenti, a cui vanno aggiunti però altri 3 miliardi di euro iscritti nei bilanci di altri ministeri. E’ vero che è molto difficile avere dati corretti e trasparenti sulla spesa?
«C’è un problema e lo ha riscontrato anche l’Istituto di ricerca internazionale SIPRI, che colloca nel 2010 l’Italia al decimo posto nel mondo per le spese militari, ma parla di stime e non di dati certi. Le spese per armamenti nel nostro Paese sono collocate ovunque, in qualsiasi provvedimento. In particolare oltre al bilancio della Difesa abbiamo un fondo per le spese delle missioni nel bilancio del ministero dell’Economia e poi le spese per i sistemi d’arma pluriennali a carico del ministero dello Sviluppo Economico. Per le missioni è stato appena approvato un decreto che prevede uno stanziamento di 1 miliardo e 400 milioni per il prossimo anno, 700 messi nella Legge di Stabilità e 700 nella manovra Monti. I soldi della Difesa diventano così il gioco delle tre carte. Quando fa comodo si leggono in un modo, altrimenti in un altro».

Oltre ai cacciabombardieri F-35, l’Italia ha investimenti per altri 40 miliardi. Quali altri interventi secondo voi sarebbe necessario apportare?
«Va rivista la modalità con cui vengono scelti i sistemi d’arma. Ad esempio la portaerei ‘Cavour’ sembra di fatto inutile, visto che l’unica missione che ha fatto è stata quella di Haiti. Chi l’ha scelta? C’era già la ‘Garibaldi’, che per le nostre funzioni poteva bastare. Bisogna evidenziare che il costo maggiore dei sistemi d’arma è la manutenzione e infatti non è casuale che fino a pochi anni fa per le missioni si spendeva circa 1 miliardo, mentre, da quando è arrivato il ministro Ignazio La Russa, siamo passati a 1 miliardo e mezzo».

Può spiegare meglio?
«Perché aumentando i fondi delle missioni ha ricavato dei soldi per la manutenzione e la movimentazione dei sistemi d’arma. Si fanno muovere degli strumenti militari anche se non sono utili. Emblematico in tal senso l’ultimo intervento in Libia, in cui si è spostata la ‘Garibaldi’, con i soldi della missione in Libia, per poi farla rientrare e far partire gli aerei da terra. Lo spostamento della ‘Garibaldi’ era inutile, ma abbiamo saputo che serviva per movimentare la nave, perché come tutte le macchine non può rimanere ferma».

Quindi non è chiaro perché vengono fatte certe scelte?
«Nessuno ha spiegato al Parlamento qual è il nostro modello di difesa. Anche recentemente è stato approvata la spesa di mezzo miliardo di euro in sistemi d’arma. Al Parlamento si chiede un parere, presentando costi iniziali sottostimati, e se non viene dato entro 60 giorni vige il silenzio-assenso. Spesso accade che si dica: ‘300 pezzi per l’azienda X, sovente italiana, non convengono e allora prendiamone 600’. Come se non si trattasse di spese ingenti. Molti militari poi, terminata la carriera, sono andati a finire nei Consigli di amministrazione di Finmeccanica o associati e qualche dubbio, rispetto al conflitto d’interesse e alle scelte che vengono fatte, è legittimo averlo».