Il vescovo di Ragusa: “Ho votato sulla legge 40, bisogna riconoscere giuridicamente le coppie omosessuali”

Giovanni Panettiere
Quotidiano nazionale, 12 gennaio 2012

Se il paradiso si conquistasse costruendo chiese, i ragusani l’avrebbero già in tasca. Solo scendendo fino alla punta estrema della Penisola, si può ascoltare la sinfonia barocca della più sontuosa orchestra di luoghi sacri in Italia. La strada per arrivarci è lunga, ma ne vale la pena. Non solo chiese, non solo muri. A Ragusa è l’Estetica che trasuda dalla storia e si spande lungo il reticolato di viuzze accavallate sulla roccia di Ibla. La città antica, con le sue case brune, gialle, rosa, a picco su un’impervia distesa di ulivi, in un’arlecchinata di colori.

La Ragusa della fede ha il nome di Santa Maria delle Grazie, della Madonna dell’Idria, della Chiesa del Purgatorio. Il cuore, invece, riposa in piazza Duomo. Qui il passo si fa pendenza, gli occhi alzano il tiro e l’aria si frantuma davanti alla vertigine di San Giorgio. Il prospetto a tre ordini, tempestato di colonne, conferisce al duomo slancio e armonia. In certi casi la bellezza è un foglio bianco, non si descrive. Si ammira, in silenzio. Per secoli la città ha convissuto con la dialettica, anche aspra, tra i fedeli di San Giorgio e quelli di San Giovanni, la cui cattedrale impreziosisce la parte nuova del capoluogo. Dietro il campanilismo religioso ardevano i contrasti tra i nobili iblei e i massari sangiovannari. Da una parte, i ragusani storici, dall’altra, i cosentini, approdati a Ragusa nell’XI secolo al seguito dei normanni. Oggi quella diatriba va stemperandosi per farsi memoria condivisa, come sottolinea il vescovo Paolo Urso: “Ogni anno, il 29 agosto, giorno del martirio di San Giovanni Battista, la statua del patrono percorre le vie di Ragusa. Sangiovannari e sangiorgesi sono insieme, senza rivalità, animati da una fede sana che non cede al folklore né al devozionismo”.

Originario di Acireale, classe 1940, monsignor Urso è un uomo semplice, dai tratti garbati. Alla sera è facile incrociarlo per strada, chiuso nel suo pastrano nero. I ragusani raccontano che per tutti ha una parola di saluto e l’orecchio pronto all’ascolto. Lontano anni luce dalla figurina del vescovo ieratico, tutto incenso e anello pastorale, Urso é riuscito a entrare nelle simpatie anche di chi non crede. Sarà perché è un pastore intraprendente, sempre attento a cogliere le esigenze della gente per provare a seminare segni concreti della presenza cristiana a fianco degli ultimi. “Sono convinto – dice – che la Chiesa debba essere una casa dalle porte aperte per tutti. Per gli immigrati, che sbarcano sulle coste di Pozzallo, per le donne in fuga da mariti violenti, per chi è omosessuale e si sente escluso”.

Monsignor Urso, lei disegna una Chiesa dalle braccia larghe. Ma a Ragusa si respira ancora una religiosità diffusa o sono rimasti solo i templi?
“La fede dei ragusani è convinta e affonda le sue radici in una formazione seria delle coscienze. In diocesi abbiamo due chiese, dove è possibile partecipare all’adorazione eucaristica perpetua, trecentosessantacinque giorni all’anno. Ad ogni ora c’è sempre qualche fedele in preghiera. È il segno di un bisogno corale di trovarsi in silenzio davanti a Gesù eucarestia”.

Una delle due chiese è quella di San Vito, nel centro di Ragusa città, che lei ha riaperto per permettere la contemplazione del Santissimo. Perché dà così importanza all’adorazione eucaristica?
“Quest’anno abbiamo intitolato il piano pastorale Educhiamoci alla libertà. Introducendo il tema, ho citato una frase di papa Benedetto XVI: ‘Se adoriamo Gesù e ci inginocchiamo davanti a lui, non dobbiamo adorare e inginocchiarci davanti a nessun potere’. L’adorazione educa l’uomo al riconoscimento dell’unico primato, quello di Dio, e spinge il fedele alla donazione di sé agli altri, come Cristo eucarestia che non ha esitato a offrire la sua vita per la salvezza di tutti, anche di chi l’ha ammazzato”.

Non crede che l’adorazione eucaristica rischi di scivolare nel devozionismo?
“È un pericolo vero, per scongiurarlo occorre unire alla contemplazione un’attenta opera di evangelizzazione. Ovvero bisogna aiutare la gente a capire come l’adorazione del Santissimo implichi una ricaduta nella vita di tutti i giorni. Il Cristo, che adoriamo nell’eucarestia, ci esorta a testimoniare nei fatti, in special modo nella carità, il Vangelo. Altrimenti i nostri sono solo sterili riti”.

Quando lei è entrato in diocesi ha subito potenziato l’attività della Caritas diocesana. State raccogliendo qualche soddisfazione?
“La nostra Caritas è una realtà molto bella e vivace. Pensa e opera per cercare di colmare i bisogni della gente. È chiaro, come Chiesa non siamo in grado – non è neanche il nostro compito – di risolvere i problemi sociali del territorio. Possiamo offrire solo dei segni di speranza”.

Come opera la struttura?
“Fondamentali sono i centri di ascolto e le parrocchie che ci permettono di toccare con mano le difficoltà delle persone. Per esempio, in questi anni siamo entrati a contatto con donne in fuga dalle famiglie, perché vittime di violenze perpetrate dai mariti o dai conviventi”.

Come siete intervenuti?
“Una parrocchia ha messo a disposizione dei locali e così é nato un centro di accoglienza per mogli o, più in generale, donne, con bambini e non, che hanno bisogno di un momento di pausa e tranquillità nella loro vita. Qui trovano quella pace smarrita in famiglia”.

Proprio a Ibla cinquant’anni fa si girò il film Divorzio all’italiana. Che cosa resta di quella Sicilia, con le mogli sottomesse ai mariti?
“L’emancipazione femminile è arrivata un po’ dovunque, anche dalle nostre parti. C’è da chiedersi, però, che tipo di emancipazione, che tipo di inserimento è reso possibile oggi alle donne. Ho l’impressione che talvolta enfatizziamo troppo le dichiarazioni di principio, mentre le scelte concrete vanno in tutta altra direzione”.

A che cosa si riferisce?
“Nella nostra società affermiamo il valore della donna in alcuni ruoli. Tuttavia, non si riesce ancora a metterle nelle condizioni di provvedere, una volta tornate a casa dal lavoro, anche alle faccende domestiche. Nel nostro tempo la donna non solo assume determinati incarichi nella vita civile, ma deve assolvere pure i compiti che già prima le erano attributi. Su di lei si caricano pesi aggiuntivi”.

Meglio rimettere indietro le lancette della storia?
“Non si tratta di negare l’eguaglianza della donna in linea di principio. Tutt’altro. Il problema è come tradurre questo valore nella vita di tutti i giorni”.

Facile a dirsi, difficile a farsi.
“Eppure il rapporto tra l’uomo e la donna, se vuole avere un futuro, deve fondarsi sulla parità. Molti drammi nascono proprio perché concretamente non si è riusciti ancora a stabilire un’eguaglianza”.

E nella Chiesa c’è parità tra Adamo ed Eva?
“Provocatoriamente direi che nessuno ha difeso la donna come la Chiesa. Basti pensare al modo in cui Gesù ha valorizzato il ruolo della donna. È a Maria Maddalena, non a Pietro, che viene dato il primo annuncio della Resurrezione. Che poi nella storia ecclesiale ci siano state pagine di arretramento sul versante dell’eguaglianza ciò fa il palo con quanto è accaduto in altre comunità”.

Si può discutere di accesso delle donne al diaconato e al sacerdozio?
“Sul sacerdozio credo che il dibattito, anche alla luce della lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis (1994), sia chiuso. Tuttavia, personalmente preferisco che la questione dei ministeri sia affrontata teologicamente e sotto il profilo storico. Chiediamo ai teologi e agli storici della Chiesa che cosa ne pensano”.

Altra emergenza, quella migratoria. Pozzallo, dopo Lampedusa e Mazara del Vallo, è il terzo polo di sbarco per gli immigrati in Sicilia: in che modo la Chiesa iblea è vicina agli immigrati che giungono sulla costa?
“A Vittoria abbiamo un centro di accoglienza per i migranti. In più, la Fondazione San Giovanni, la Caritas diocesana e alcune cooperative hanno attivato tutta una serie di progetti per offrire soluzioni di lavoro e alloggio a chi decide di fermarsi in Sicilia”.

Avete mai avuto problemi di ordine pubblico?
“No, non ci sono mai stati episodi apprezzabili, solo qualche caso isolato”.

Quali segni dei tempi si celano dietro il fenomeno migratorio?
“Innanzitutto, emerge la necessità di mettere ogni popolo nelle condizioni di poter vivere in un contesto di serenità, libertà e rispetto. I migranti sono fratelli e sorelle, che per lo più scappano dai loro Paesi, non possiamo dimenticarlo. Alla logica dei respingimenti bisogna lasciare spazio ai valori dell’accoglienza e del rispetto”.

Rispetto di chi riceve i migranti, ma anche rispetto di chi arriva in una terra straniera.
“L’azione educativa va indirizzata pure nei confronti degli immigrati. In quanto vittime di violenza, spesso queste persone non riescono a relazionarsi con gli altri se non in un’ottica di prepotenza”.

Che cosa ne pensa del reato di immigrazione clandestina, voluto dal ministro degli Interni, Roberto Maroni?
“Il reato comporta una situazione molto diversa da quella di chi è in fuga dal proprio Paese. Mettere sullo stesso piano il criminale e il clandestino è un errore sotto il profilo intellettuale, culturale e giuridico”.

Nel 2005, in occasione del referendum sulla fecondazione assistita, lei dichiarò al Corriere della Sera che sarebbe andato a votare, lasciando libertà di coscienza ai fedeli. Eppure l’allora presidente della Cei, cardinale Camillo Ruini, era stato molto chiaro nel richiamare la Chiesa all’astensione. Rifarebbe quella scelta?
“Senza dubbio la rifarei. Sono stato educato alla laicità dello Stato e al rispetto delle leggi civili. Quando il cittadino è chiamato a compiere delle scelte concrete, il compito della Chiesa è quello di offrire ai fedeli degli strumenti per decidere in autonomia e consapevolezza. Per questo ho detto alla mia gente: ‘Informatevi, documentatevi, vedete se questo tipo di soluzioni sono giuste e giudicate voi’”.

Quella di Ruini fu una mossa politica?
“È stata un’azione di strategia politica. Ma io credo che i vescovi con la politica e le sue logiche non debbano avere nulla a che fare”.

Sei anni fa il dibattito era sulla fecondazione assistita. Oggi tiene banco, specie tra i giovani, quello delle convivenze. Quale è la sua opinione?
“Il tema è molto complesso, anche perché potrebbe essere il segno di una paura di assumersi delle responsabilità. Allo stesso tempo potrebbe testimoniare una disistima nei confronti del matrimonio. In ogni caso la convivenza mi sembra un elemento di poca sicurezza”.

Davanti al quale che atteggiamento deve tenersi?
“Se il problema è la scarsa considerazione del matrimonio, come Chiesa avremo il dovere di sottolineare la bellezza e l’importanza delle nozze; se, invece, alla base c’è una paura, occorrerà spingere i giovani ad avere coraggio. Scrive Louis Sepulveda: ‘Vola solo chi osa farlo’”.

Per gli omosessuali la convivenza civile è l’unica soluzione possibile per poter vivere stabilmente una relazione. Non crede che l’Italia abbia bisogno di un riconoscimento normativo per queste situazioni?
“Quando due persone decidono, anche se sono dello stesso sesso, di vivere insieme, è importante che lo Stato riconosca questo stato di fatto. Che va chiamato con un nome diverso dal matrimonio, altrimenti non ci intendiamo”.

Siamo in ritardo sulla tabella di marcia?
“Uno Stato laico come il nostro non può ignorare il fenomeno delle convivenze, deve muoversi e definire diritti e doveri per i partner. Poi la valutazione morale spetterà ad altri”.

Per Il Catechismo cattolico l’omosessualità resta ‘oggettivamente disordinata’.
“La Chiesa fa le sue valutazioni, ma ciò non toglie che deve sempre essere una casa dalle porte aperte, anche per i gay e le lesbiche. Non va confuso il peccato con il peccatore”.

Proprio nel solco di un impegno al rispetto e alla valorizzazione di tutte le componenti ecclesiali può leggersi la sua scelta di collocare al vertice di molteplici uffici della Curia di Ragusa dei laici. Che cosa l’ha spinta a questa scelta, abbastanza inedita nella Chiesa italiana?
“Ci sono ambiti nei quali i laici acquisiscono delle competenze particolari che possono essere d’aiuto all’azione della diocesi. Per questo ho affidato ai laici la responsabilità della Pastorale giovanile, delle Comunicazioni sociali, della Caritas, della Pastorale sociale del lavoro e della Consulta delle Aggregazioni laicali”.

Implicitamente il suo è anche un modo per fronteggiare l’emergenza lavoro nella provincia. Secondo gli ultimi dati della Cisl, l’occupazione a Ragusa, tra i ragazzi di età compresa fra i 15 e i 24 anni, è scesa nel 2009 al 17,7% (nel 2007 era al 31%), Che segni offre la diocesi sul versante dell’avviamento al lavoro delle nuove generazioni?
“Stiamo pensando di realizzare a Ibla, in un antico convento, un centro enogastronomico del Mediterraneo. Sostanzialmente si tratta di una scuola di alta cucina, con annesso un ristorante. Abbiamo già restaurato i locali per gli alloggi. In questo centro i ragazzi potranno avere una formazione enogastronomica di livello, restando nella loro terra e guadagnandosi il pane lavorando. Dobbiamo capire che, quando un ragazzo va via di casa, il territorio si impoverisce”.

Uno dei volani per l’economia ragusana potrebbe essere l’aeroporto civile di Comiso. Inaugurato nel 2007 dall’allora ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, non è mai entrato in funzione.
“Spero che possa finalmente decollare nel vero senso della parola. E nel più breve tempo possibile. È sotto gli occhi di tutti l’urgenza di un aeroporto nella nostra provincia. La popolazione ci spera, così come si augura che possa essere costruito un raccordo stradale migliore tra Ragusa e Catania”.

Vent’anni fa la base missilistica di Comiso fu al centro di forti contestazioni pacifiste. Che ricordo ha di quel periodo, segnato da scontri e incomprensioni tra la Curia e quei giovani – anche cattolici – soprattutto quando il suo predecessore, monsignor Angelo Rizzo, impartì la benedizione alla cappella della struttura militare?
“Allora non ero nel Ragusano, ma non mi trovavo neanche troppo lontano. Ricordo quel periodo come un momento particolarmente doloroso per la diocesi in quanto si crearono all’interno del mondo ecclesiale posizioni diversificate. Per sanare la ferita, nel 2005, ho chiesto ed ottenuto, da Pax Christi e dalla Conferenza episcopale italiana, di far partire proprio dalla base di Comiso la marcia nazionale per la pace”.

Che cosa voleva indicare?
“Il nostro intento era quello di far vedere come fosse possibile trasformare strumenti e luoghi di morte in strumenti e luoghi di pace e crescita civile”.

Missione compiuta?
“A distanza di anni ho ancora amici di Bolzano che mi telefonano per ringraziarmi di quella marcia. Posso dire che è stata un’occasione molto bella: noi siciliani siamo di nostro accoglienti e anche in quel frangente riuscimmo ad imbastire uno straordinario evento di condivisione per chiedere al Signore il dono della pace”.