Italia corporativa e clericale di M.Vigli

Marcello Vigli
www.italialaica.it

Al ritorno dal suo giro di rapidi incontri con i partners europei il Presidente del Consiglio è chiamato ad affrontare, con i suoi ministri, le reazioni delle categorie interessate all’avvio della “seconda fase” dell’azione governativa volta a creare le condizioni di libertà d’iniziativa in tutti i settori della società. Essa è destinata ad incidere sulle normative che assicurano, a chi esercita attività professionali, commerciali e imprenditoriali, condizioni privilegiate.

A difenderle sono schierate corporazioni più o meno organizzate; alcune, come gli ordini professionali, legalizzate in strutture con funzioni istituzionali di controllo. Sono in corso trattative, più o meno trasparenti, accompagnate da campagne di stampa finalizzate a coprire, con nobili intenti di tutela di interessi generali, la difesa di interessi particolari. L’Italia delle corporazioni si integra perfettamente con la casta dei suoi amministratori pubblici: nazionali o locali che siano.

Molto opportunamente, quindi, si denuncia il carattere strumentale della demonizzazione, con ascendenze qualunquistiche, della casta dei “politici”. Altrettanto opportuno sarebbe derubricare l’operazione da liberalizzazione a eliminazione di privilegi. Produrrebbe chiarezza, come quella avviata dal momento in cui gli evasori fiscali hanno cominciato ad essere chiamati ladri, distinguendo l’eliminazione, o il ridimensionamento, degli ordini professionali dalla privatizzazione dei servizi pubblici. Funzionale la prima all’introduzione di reale concorrenza con l’eliminazione di tariffe vincolanti e di rendite di posizione, garantirebbe ai giovani di entrare in attività a parità di condizioni con chi ha solo il merito di essere nato qualche anno prima.

Destinata la seconda a garantire, invece, possibilità a privati di gestire servizi pubblici non deve interessare settori in cui la concorrenza non è possibile (acqua, energia, autostrade …) e deve imporre rigide norme per garantire ai fruitori di altri servizi (ferrovie, trasporti …) dal rischio che il diritto a lucrare di guadagni sicuri non si trasformi occasione di discriminazione o di “disservizio”. Finora le corporazioni hanno avuto la meglio su forze politiche e governi che si sono impegnati a eliminare privilegi e monopoli di fatto.

C’è da augurarsi che il Presidente Monti, non potendo fallire perché obbligato a costruire equità nei sacrifici mentre continua a pretendere dai sindacati sostanziosi arretramenti nella difesa dei diritti del lavoro e della dignità dei lavoratori, non si contenti di compromessi di facciata.

Analogo augurio c’è da fare sull’altro baco di prova che lo attende: la “trattativa” in corso con la gerarchia ecclesiastica, che avrà il suo momento forte con l’udienza con il papa prevista per sabato 14 febbraio. Sulla carta si tratterà di una visita istituzionale di rito, ma c’è da giurare che si discuterà della manovra economica e di come il Vaticano dovrà fare la “sua parte”. Il primo tema sul tavolo sarà l’Ici. Assicurano i bene informati.
A dire il vero da più parti si chiede una radicale revisione delle diverse e numerose forme di finanziamento dello Stato alle strutture e organizzazioni della Chiesa cattolica. Numerose e multiformi, esplicite o nascoste sono ormai ampiamente pubblicizzate: dall’otto per mille ai contributi della protezione civile ad iniziative promosse dalla Santa Sede o dalla Conferenza episcopale.

Delle necessità di porre mano a rivedere la situazione si è detto consapevole il cardinale Bagnasco, dichiarandosi disponibile a discutere un aggiornamento della normativa sull’Ici. Ha mostrato di esserlo anche il Presidente del Consiglio che ha dato un segno. Ha infatti stabilito che i fondi della quota di otto per mille attribuiti allo Stato siano suddivisi fra protezione civile e emergenza carcere, evitando che tornino, come in passato, in parte alla Chiesa attraverso elargizioni a istituzioni religiose le cui strutture, come beni culturali, rientrano nelle finalità dell’otto per mille.

I due hanno già cominciato a trattare e il contenzioso sull’Ici, oggi Imu, potrebbe venire risolto dall’obbligo di pagamento per la sola parte degli immobili di proprietà ecclesiastica destinata a fini commerciali. Nessuno si nasconde le difficoltà pratiche derivanti per i Comuni dalla complessità del lavoro necessario per realizzare un censimento credibile di beni finora, magari, fin qui ignoti al catasto.

Non è certo, neppure, quanto su queste disponibilità della Cei abbia influito il calo di fiducia verso la Chiesa, documentata da un recente sondaggio, di 2 punti meno di un anno fa, ma di 14 rispetto al 2001. Più pressante forse è la pendenza alla Corte di Giustizia di Lussemburgo di un ricorso presentato dai Radicali italiani sulla congruità della legislazione italiana, che consente di fatto alle strutture ecclesiastiche di eludere le direttive comunitarie sulla concorrenza.

Forse l’augurio che abbiano successo entrambe le manovre del governo Monti – per ripristinare la legalità sul pagamento dell’Ici e per sconfiggere le corporazioni – sarebbe meglio fondato se le autorità ecclesiastiche italiane e vaticane impegnassero altrettante energie a divulgare quanto si legge nel Catechismo della Chiesa cattolica recentemente aggiornato: a non pagar le tasse si fa peccato.