Il super cattolico che da presidente non baciò mai l’anello al papa

Gian Antonio Stella
www.corriere.it, 30 gennaio 2012

«Rappresento anche i laici». Chiamato «Ostia» o «Oscar Maria Goretti» mantenne fermezza nel rapporto con la Chiesa. Infilzato dai nomignoli di «Ostia» Luigi Scalfaro e «Oscar Maria Goretti», portava immense sciarpe bianche che parevano la stola d’un prete e chiamava la Madonna «mia bellissima, dolce, incantevole, affascinante mamma». Da Capo dello Stato, però, non si inginocchiò mai a baciare l’anello. Neppure al Papa. E’ stato davvero uno strano incrocio, il presidente che se n’è andato ieri. Per metà piemontese e per metà calabrese, diceva di essere devoto insieme alla bagna cauda savoiarda e al peperoncino, che sosteneva d’usare in dosi atomiche. Più temeraria ancora, tuttavia, è stata la sua capacità di tenere insieme una fede così tradizionalista da tirargli addosso il marchio del bigottone e una fermezza assoluta sulla laicità dello Stato.

«Un papa si riprende il palazzo dei Papi», ironizzò Vittorio Sgarbi il giorno dell’elezione al Quirinale. E quella era la fama. Se l’era guadagnata mettendosi di traverso, da sottosegretario, alla scelta di mandare a Cannes un capolavoro come «L’oro di Napoli», reo di raccontare la storia di una «Maddalena», Silvana Mangano, che non poteva piacere ai custodi della moralità. Manifestando le sue «perplessità» sulla «Dolce Vita» al punto che Federico Fellini era convinto che ci fosse stato lui dietro i durissimi attacchi dell’ Osservatore Romano . Dando un ceffone al ristorante «Chiarina» alla scollata Edith Mingoni Toussan: «Le ordino di rimettersi il bolero!» Episodio che spinse Totò a lanciargli una sfida a duello e Curzio Malaparte a dire: «A giudicare dai lamenti, dalle minacce, dalle esortazioni, dalle preghiere e dai progetti dell’onorevole Scalfaro, si direbbe che l’Italia sia un sobborgo di Sodoma, la Bestia dell’Apocalisse, un museo dei vizi, una scuola di depravazione, una sentina di impurità». Non bastasse, non perdeva occasione per manifestare la sua devozione alla Madonna. Da ministro. Da presidente della Camera. Da capo dello Stato. La chiamava «la Padrona, la Splendidissima, la madre del bell’Amore, la castellana d’Italia, la Corredentrice, l’Ancilla».

Raccontava orgoglioso di essersi fatto a settant’anni un pellegrinaggio a piedi, cinque ore di fatica e dolori ai calli, dal circo Massimo al Santuario della Madonna del Divino Amore. Faceva conferenze dal titolo «Santa Brigida profeta dei tempi nuovi». Si faceva vanto di avere scritto libri come «La lezione di S. Francesco all’uomo d’oggi», «Il significato e il valore della penitenza evangelica», «Amen», «Il Pio Transito di Francesco», «Il valore del Rosario»… E non bastasse ancora ricordava che il suo nome veniva da «Os» (dio) e «geirr» (lancia), frequentava riservatamente i conventi dei trappisti e professava umiltà dicendo: «Io sono un broccolo ma è meglio essere un broccolo nel campo del Signore che un fiore piantato fuori dal campo».

Sulla separazione tra Stato e Chiesa, però, negli ultimi decenni, nessuno probabilmente è stato netto quanto lui. Forse perché sapeva che nessuno avrebbe potuto spacciarlo per un anticlericale e men che meno per un mangiapreti. O perché aveva mandato a memoria la lettera con cui Alcide De Gasperi, saputo che Pio XII gli aveva annullato una visita privata per punirlo di non avere imbarcato i missini, aveva scritto che «come cristiano» accettava «l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla» ma come presidente del Consiglio «la dignità e l’autorità» che rappresentava gli imponevano di chiedere un chiarimento ufficiale. Certo è che negli anni in cui il postpannelliano Francesco Rutelli faceva sapere che i rapporti col Papa erano «stati la cosa più bella» dei suoi mandati da sindaco e confidava di «aver sempre sentito il fascino di Padre Pio», in cui il postpioniere togliattiano Massimo D’Alema apriva la Bicamerale invocando «Dio ce la mandi buona» per poi diventare addirittura «Nobiluomo di Sua Santità», in cui Silvio Berlusconi teorizzava che il programma di Forza Italia si ispirava «ai valori della tradizione cristiana richiamata dal Pontefice» e successivamente si inchinava a baciare l’anello a Ratzinger, in cui perfino il celtico Umberto Bossi si convertiva a invocare «il Polo dello spiritualismo contro il Polo del materialismo», Oscar Luigi Scalfaro ha sempre tenuto la barra diritta.

«Sono il capo di uno Stato dove c’è un popolo che ha questa formidabile tradizione millenaria cattolica, dove c’è un popolo che ha una tradizione meno millenaria di radice socialista, dove c’è un popolo che ha una tradizione laica…», rispose nel ’98 quando amorevoli pressioni lo consigliavano di non dare l’incarico a D’Alema. Insomma lui rappresentava anche «persone che non accettano e non desiderano avere un credo religioso di alcun genere e hanno diritto al loro spazio e al rispetto che gli compete». «La laicità dello Stato è un presupposto che nulla toglie alla fede di chi crede nei valori cristiani», ribadì durante la visita di papa Wojtyla in Quirinale, «Nella nostra diretta responsabilità sono le scelte politiche, l’amministrare la cosa pubblica, il compito di governare e di decidere. La voce della Chiesa che prega è per noi lampada che dà luce e forza ma non può togliere né alleggerire il nostro carico». La corsa di tanti politicanti a mettersi il distintivo di cattolici, alla vigilia del Giubileo, lo infastidì: «La laicità dello Stato è sacra e non accetto facilmente delle scene di contaminazione che, sulla piazza San Pietro, sono capitate qualche settimana fa. Non le accetto perché vi è una dignità dello Stato ed una dignità della Chiesa».

La laicità dello Stato, avrebbe cocciutamente ripetuto mille volte, «è un principio che mi è stato insegnato nell’Azione cattolica, non me l’ha insegnato un capo massone. Me lo hanno insegnato i preti, benedetto il Cielo! E nessuno ha titolo per metterci la sua impronta sopra. La Chiesa ha il diritto di parlare. Ha il diritto di farsi ascoltare soprattutto dai suo credenti, ma il parlamentare cristiano, se non ha la libertà di decidere, non ha neanche la dignità e non ha neanche l’assunzione di responsabilità. E a questo punto non serve a nessuno, tantomeno alla Chiesa». Ricordate? Erano tanti a far finta di non sentire, con un filo di imbarazzo, quando diceva queste cose. Meglio il silenzio. «Presidente, è come se avesse parlato di coleotteri a Telepannocchia», lo provocai un giorno. Piegò appena la testa. Sorrise. Sospirò.