La vita è bella…

Enrico Peyretti
Qualevita n° 144

Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti, nostro “antico” compagno di viaggio per averci concesso di offrire anche ai lettori di Qualevita questa sua riflesssione sulla vecchiaia, apparsa sul mensile “Il Foglio”

LA VITA E’ QUESTO VIAGGIO

Ho visto luoghi belli e cose interessanti, in un paese per me nuovo, ho incontrato evocazioni toccanti, di significato universale. In ogni viaggio si spende ma si guadagna. Però, ho anche sperimentato che i viaggi mi interessano sempre meno. Da giovane vuoi vedere e sapere. Ma alla lunga ti accorgi che le novità umane non sono altrove. Sono nel nostro profondo, e nell’avvenire.
La cultura hindu vede quattro stadi della vita. Il primo: giovinezza e studio. Il secondo: matrimonio e famiglia. Il terzo: maturità, lavoro, vecchiaia. Il quarto: ascesi, vita monacale, preparazione alla morte.
A me pare di vedere che tutto si succede, nella vita, in tre fasi: illusione, delusione, dedizione. Sono tre fasi non necessarie, non automatiche, ma armoniche.

RESTITUIRE CIO’ CHE HA AVUTO

L’illusione non è male: permette di andare con coraggio ed entusiasmo nelle imprese dell’imparare, operare, costruire, amare. La delusione non è male: mostra il limite di ogni cosa ed esperienza, a cominciare da noi stessi, dal nostro lavoro, dal nostro sapere, e quindi anche il limite degli altri, più o meno vicini alla nostra vita, e le opere e i programmi dell’umanità. Intanto, la retorica provvede a coprire pudicamente la delusione, che tuttavia c’è.
C’è anche la delusione della storia, che avevamo mitizzato: oggi viviamo nell’esaurimento delle grandi narrazioni, nel postmoderno e forse nel post-umano. La dedizione è bene: supera l’illusione e la delusione cercando di dare ciò che si è ricevuto, e possibilmente immaginare e creare di più.
Un vecchio è saggio, matura la sua vita, se riesce a passare in questa terza fase: restituire con gioia tutto ciò che ha avuto, servire gli altri e le buone cause, fin quando ha un po’ di energia, col patrimonio di esperienza che ha accumulato, se ha vissuto con attenzione e riflessione. E’ la forza sociale dei pensionati, che lavorano gratis, se si tengono svegli e vivi. Dedicarsi, spendersi, regalare l’ultimo scorcio di vita, è l’unico modo per guadagnarsela, per andare leggeri al gran passaggio, e con qualche scorta di speranza per la via sconosciuta oltre il colle. Sì, dedicarsi, ma senza affanno produttivistico. Non è più l’ora. Quel che puoi dare viene da sé, anche quando stai ritirato in silenzio – e ora ne hai maggiore bisogno, e hai meno voglia di andare, di muoverti. Quello che dai è ciò che sei, più di ciò che fai.
Ogni passaggio ha il suo rischio. Si può invecchiare soltanto nel fisico, mentre si resta nello stadio dell’illusione (il ridicolo vieux garçon, con la penosa figura femminile corrispondente), o della delusione (il vecchio rancoroso). Si può invecchiare (se non si muore prima) in due modi principali: addolcirsi nella pazienza; oppure arrabbiarsi nell’intolleranza e inacidirsi nel disprezzo. Ho conosciuto vecchi e vecchie in entrambe le categorie, molto ben caratterizzati (come negli schizzi di Leonardo). Il tempo ci giudica e ci colloca di qui o di là.

LA RABBIA E IL RANCORE

Beato chi, grazie anche alla propria debolezza e lentezza, si fa più mite, più tollerante, più benevolo persino verso quei giovani e forti illusi che forza e giovinezza siano una superiorità, e che durino. Poche cose sono più ignoranti e più vili che il disprezzare la vecchiaia. Però, il peccato più facile nel vecchio è la rabbia e il rancore. La rabbia fa male alla salute, la propria e l’altrui. Procura isolamento e nuova rabbia. Rodersi il fegato da soli, senza l’aquila di Prometeo. Il rancore nasce dall’istinto di disprezzo (fratello dell’orgoglio e dell’invidia), che si rafforza nel declino. Decliniamo noi, e ci sentiamo defraudati, ci pare che tutto il mondo vada in peggio, che perda pregio, così disprezziamo ciò che perdiamo, e gli altri che vivono e fanno. Magari sbagliano davvero. E noi, forse non abbiamo sbagliato? Magari il mondo va davvero peggio, e la kakistocrazia segue all’aristocrazia e democrazia. Ma non siamo anche noi autori del mondo di oggi?
La vita è questo viaggio, coi suoi rischi, le sue spese, i suoi guadagni. Acquisti cose o acquisti vita? Resti nell’illusione cronica del ricco e del conquistatore, o procedi nella vita? Sprofondi nella delusione, o vai avanti?
Per il bambino tutto è meraviglia. Ogni giorno è una novità, se gli adulti, imponendogli un sistema tutto definito, non gli ammazzano l’intelligenza dell’immaginare e scoprire. Poi, ogni novità è meno novità, naturalmente, perché il mondo è limitato. Allora, in mano all’industria del turismo (che ha pure il suo valore), come dell’informazione sensazionale, rischi di inseguire novità sempre meno nuove. Deve salire la dose. Corri a cambiare cielo senza cambiare animo. Le folle di turisti ammassate nei luoghi di richiamo sono lì intente a proclamare questa verità che ignorano. Se la tua città diventa turistica, puoi anche compiacertene, e averne utile, ma a volte provi la sensazione del trovarsi le formiche in casa.

C’E’ ANCORA DA CAMMINARE

Ecco l’impresa davvero nuova, ecco il proseguimento del viaggio. L’anima è più grande del mondo. Il viaggio è interiore, ha molte più strade della terra. Il mondo di dentro è tanto più grande del mondo di fuori, pur con tutta la bellezza di questo (e non solo bellezza). Non te lo insegna un maestro, ma il tempo vissuto, e le strade percorse. C’è ancora tantissimo da camminare. L’evoluzione umana, se non ci distruggiamo, è tutta aperta, ed è in ritardo. Costruiamo ancora mastodontiche armi per la guerra finale. Alla mensa umana stanno due straricchi, obesi e otto poveri, affamati. La fabbrica del superfluo consuma l’unica terra.
Si potrebbe aggiungere un’altra tappa: l’umiliazione. Non intendo l’umiliazione nel senso di offesa che disconosce la dignità, e riduce la grandezza, offesa specialmente penosa per chi si crede più grande di quel che è, e si sente diminuito.
Intendo umiliazione come quel tempo (non solo alcuni momenti) della vita che ci riduce nelle nostre pretese, nelle forze, nella considerazione, nella posizione, nell’attività, nell’influenza sugli altri e sulle cose.
Humus, terra, suolo, è nella radice della parola. Come quando diciamo: «Mi sento a terra». Ma non solo come una depressione temporanea, o l’effetto di un colpo. Il tempo della vita, dopo tutte le sue stagioni, ci riavvicina alla terra, ci rifà piccoli. Chi ha buono spirito sa scherzare sul fatto che il «rimbambire» della vecchiaia è un tornare bambini (però il vangelo chiede di «diventare» bambini, che è un passo avanti, per entrare nel regno). Siamo capaci di vivere questa riduzione di forze, di azione, di posizione, non come una caduta, ma come un sedersi in terra, o sdraiarsi su un prato, o posare riflettendo, ricapitolando cammini e tempi, e ritrovare la realtà, le radici?

L’ALTRO LATO DELLA TERRA

Osservo i bambini, i miei nipotini. Il bimbo piccolo conosce due cose: il corpo della mamma e il suolo. Via via che si stacca dalla mamma, gioca a terra, poi striscia o gattona, poi si alza in piedi e cammina, ma la terra continua a dargli sicurezza e ad essa torna ad appoggiarsi con familiarità, nelle difficoltà del cammino, prima di spiccare la corsa, proprio come alla terra chiedeva nuova forza il mitico Anteo, figlio di Gea.
Anche il vecchio si appoggia di più alla terra, servendosi di tre gambe, se due non bastano più, e stazionando seduto, più di prima. L’arrivo è un ritorno, anche senza voler ridurre tutto allo schema ciclico. Tornare da un viaggio è arrivare. Compiere il cammino della vita è ritrovare un’origine.
Questa umiliazione è da accettare con sapienza. Quando abbiamo fatto quel che potevamo, offerto, annunciato, preparato qualcosa, è l’ora in cui possiamo diminuire perché altri cresca (cfr. Giovanni 3, 30). Anche questa è un’opera della vita. Tutti ricordiamo i nostri vecchi, quello che ci hanno dato e detto, e mostrato in silenzio, mentre diminuivano. Una bella pagina di Stèphane Hessel parla di questa «trasmissione intergenerazionale», che è un impegno reciproco tra vecchi e giovani (Impegnatevi!, Salani 2011, pp. 75-77). E dice anche, con speranza attiva, che la specie umana è «una specie giovane» (pp. 72 e 73).
Proprio la dedizione (per stare a quella triplice immagine della vita) si risolve in una umiliazione, un ridursi al pezzetto di terra che si occupa ancora, un impoverirsi, perché non tratteniamo altro, non ci espandiamo più. Nella terra ci fermeremo. Tutte le nostre tracce lentamente svaniranno. Ma, più piccoli e leggeri, potremo anche abbracciare la terra di dovunque, che è l’universo. Si usa dire, infatti, che «si va in cielo», l’altro lato della grande terra. L’umiltà ottenuta ci introduce alla verità.