Chiesa e capitalismo

Raniero La Valle
Rocca n. 4/2012

C’è una novità nella Chiesa italiana. Uscita dall’ “attonito sbigottimento” enunciato a settembre dal cardinale Bagnasco di fronte alle ultime convulsioni del governo Berlusconi, la Chiesa italiana a livello dei vescovi ha ritrovato la lucidità necessaria per sottoporre ad analisi l’attuale “capitalismo sfrenato” e la finanza internazionale, giungendo a un giudizio estremamente severo, cui nemmeno la sinistra storica è ancora pervenuta in Italia.

Per il cardinale presidente, che ne ha fatto oggetto della sua prolusione al Consiglio permanente della CEI il 23 gennaio scorso, la crisi del sistema va ben oltre la crisi economica, anzi la stessa parola “crisi” è inadeguata ad esprimerla, quando piuttosto siamo “entrati in una fase inedita della vicenda umana”. Ma, al contrario di quanto di buono avrebbe dovuto esserci nell’ “uomo inedito” intravisto a suo tempo da padre Balducci, questo “inedito” che oggi si affaccia sulla scena non ha nulla che sia più umano e promettente, anzi rappresenta uno scacco dell’idea stessa di progresso quale era stata introdotta a partire dal XVIII secolo, cioè dall’Illuminismo.

Non si potevano usare parole più gravi. Vuol dire che qualcosa di grave è avvenuto a livello profondo dei rapporti sociali. Secondo il cardinale Bagnasco è avvenuto che il sistema complessivo nel quale da poco tempo si inscrive la vita del mondo, cioè la globalizzazione, ha perduto ben presto il suo significato positivo, quando l’ “altro” (che nel linguaggio del cardinale non può che essere ciascuna persona umana), è stato “sostituito da funzioni e reti”. Dunque resta un meccanismo, ma l’uomo non c’è più: “il capitalismo sfrenato sembra ormai dare il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli, dissolvendo il proprio storico legame con il lavoro, il lavoro stabile” (che Monti ha poi definito “monotono”) “e preferendo ad esso il lavoro-campeggio: si va dove momentaneamente l’industria sta meglio come se l’ ‘altro’ non esistesse”.

Ma non si tratta solo di questo. Il cardinale conosce l’intreccio tra capitalismo e speculazione, quello che Luciano Gallino ha chiamato il “Finanzcapitalismo” (Einaudi, 2011), e sa anche lui che questo capitalismo speculativo si è mangiato la politica, ed anche la democrazia. Come ha spiegato Gallino le transazioni sui mercati finanziari globali erano giunte nel 2007 a 75 volte il PIL del mondo, cioè l’intera ricchezza prodotta, arrivando a 4050 trilioni di dollari (dollari che in realtà non esistevano), e si è prodotto un sistema che rappresenta una negazione sostanziale della democrazia in ogni settore dell’organizzazione sociale, sia a livello locale che a livello globale; esso fa sì che le chiavi di tutte le politiche (da quella economica a quella finanziaria, ambientale, del lavoro) siano in mano di organizzazioni del tutto a-democratiche quali l’OCSE, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, la Banca europea, la Banca per i regolamenti internazionali, la Commissione Europea e così via: “nel connubio tra finanza e politica – scrive Gallino – appare essersi definitivamente consumato il divorzio tra democrazia e popolo. Privatizzato sotto la spinta del nuovo capitalismo, il potere ha lasciato lo Stato sul ciglio della strada” infliggendo gravi danni “ai sistemi che sostengono la vita”, dalle pensioni, alla sanità, alla scuola.

Sulla stessa linea il cardinale Bagnasco denuncia “il formarsi di coaguli soprannazionali talmente potenti e senza scrupoli, da rendere la politica sempre più debole e sottomessa. Mentre invece dovrebbe essere decisiva, se la speculazione non avesse deciso di tagliarla fuori e renderla irrilevante, e quasi inutile…Quando il criterio è il guadagno più alto e facile nel tempo più breve possibile, allora il profitto non è più giusto, ma diventa scopo a se stesso, giocando sulla vita degli uomini e dei popoli”.

“Va detto che la politica è assolutamente necessaria” afferma invece il cardinale: “Non è possibile vivere fluttuando ogni giorno nella stretta di mani invisibili e ferree, voluttuose di spadroneggiare sul mondo. Il dubbio è che si voglia proprio dimostrare ormai l’incompetenza dell’autorità politica rispetto ai processi economici, come se una tecnocrazia transnazionale anonima dovesse prevalere sulle forme della democrazia fin qui conosciuta, dove la sovranità dei cittadini è ormai usurpata dall’imperiosità del mercato”. Contro tutto ciò, il cardinale invita la classe intellettuale del Paese a un confronto, che abbracci temi come la famiglia e il lavoro ma giunga fino a porre il tema della politica e della rappresentanza.

Pochi giorni prima una Nota del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, denunciava l’ “apriorismo economico” di un “liberismo senza regole e senza controlli” e reclamava una riforma dell’intero sistema. Segno che Bagnasco non è isolato, e c’è una Chiesa che sta prendendo coscienza della misura del problema. E in più c’è la crisi della fede, riconosciuta a tutti i livelli della gerarchia ecclesiastica.

Ma quali risposte all’altezza della sfida? Todi? I cattolici obbedienti in politica con una parure di principi non negoziabili? Le giornate mondiali della gioventù? Il catechismo da giocare contro il Concilio nell’anno della fede? La dottrina sociale pensata in un’altra fase, precedente, della vicenda umana? No, non così. Bisogna “rifondarsi su pensieri lunghi e alti”: Bagnasco lo dice ai partiti, ma questo vale anche per la Chiesa.