Il posto fisso: verità ed errore di Monti

Paolo Bonetti
www.italialaica.it

03.02.2012 | Le parole di Monti, nel corso del programma televisivo Matrix, sulla monotonia del posto fisso, che tante polemiche stanno suscitando nel web, contengono contemporaneamente una verità e un errore. Ma, alla fine, l’errore, nelle particolari condizioni in cui si trova oggi la società italiana, finisce con l’oscurare inevitabilmente quella parte di verità che pure c’è nelle affermazioni del primo ministro. Una società aperta è necessariamente una società mobile, nella quale c’è un continuo ricambio dal basso verso l’alto, senza che ci siano caste ereditarie e corporazioni chiuse e in cui le capacità degli individui sono incoraggiate e premiate.

La società italiana è, al contrario, come tutti sanno, una società chiusa, dove l’appartenenza a un certo ambiente sociale, la solidarietà familiare e amicale, la raccomandazione autorevole, finiscono col contare più del talento e dell’impegno personali. Non è sempre così, non in tutti gli ambienti è così, ma certamente questi comportamenti sono largamente diffusi. Il governo Monti, con le liberalizzazioni, ancora troppo prudenti, cerca di aprire dei varchi nel muro di gomma delle corporazioni, che però non cedono e reagiscono con un’asprezza che può diventare socialmente pericolosa.

È perciò vero che ci sono, a tutti livelli della società italiana, tendenze conservatrici e parassitarie, volontà di mantenere ad ogni costo diritti che sono in realtà privilegi ingiustificati. Ed esiste anche, sebbene non bisogna confonderlo con la totalità dei giovani italiani, il fenomeno dei cosiddetti bamboccioni, il rifiuto di uscire da una comoda condizione di tutela, da una adolescenza protratta all’ombra dei genitori. Ma ci sono anche molti ragazzi e ragazze (e sono la maggioranza) che soffrono per questa condizione di dipendenza e cercano, con pochissime speranze, un lavoro stabile che li faccia uscire da una situazione non solo psicologicamente umiliante, ma tale da non consentire loro di programmare una vita di affetti che non sia insidiata dal timore continuo di dover tornare a fare i figli di famiglia.

Dire a costoro che il posto fisso è monotono significa non rendersi conto che si tratterebbe, in questo caso, di una monotonia che permette finalmente di uscire da una condizione di insopportabile disagio. Cambiare lavoro è un’esperienza utile e perfino divertente, se c’è un’effettiva possibilità di scelta, ma quando la scelta è fra la disoccupazione e il precariato, un’affermazione come questa può apparire perfino una specie di scherno che fa il paio con gli “sfigati” di Martone.

Poiché certamente Monti non è né un sadico né un cinico, le sue parole tradiscono una certa mancanza di consapevolezza, da parte delle nostre élites tecnocratiche, di quelle che sono le effettive condizioni di vita e di lavoro (o di non lavoro) di tanti giovani italiani. Bisogna certamente, in tutti i settori, semplificare le procedure, creare migliori condizioni per l’iniziativa economica privata, incoraggiare il rischio non speculativo ma produttivo, sciogliere insomma la rigidità burocratica e corporativa che paralizza la società italiana. Ma pensare di potere, per decreto, introdurre nel nostro paese una mentalità di tipo anglosassone, è un errore che rischia di essere pagato con la ribellione sociale.

Una società democratica di massa ha bisogno di una classe politica che non governi consultando esclusivamente i sondaggi e abbia anche il coraggio delle scelte impopolari, ma il dramma della disoccupazione giovanile, in Italia come in altri paesi europei, non è una semplice questione psicologica di resistenza al cambiamento. Il giovanilismo, o, peggio ancora, la contrapposizione dei giovani ai vecchi, lo scontro fra le generazioni non portano lontano. Ma neppure una politica depressiva, che miri solamente al pareggio del bilancio e alla riduzione del debito pubblico, può creare consenso nelle centinaia di migliaia di giovani che sono pronti a cambiare e a muoversi, solo che non riescono a capire in quale direzione, dal momento che si offrono loro soltanto lavori malpagati e di corta durata.

Tanto per fare un esempio che il professor Monti può sicuramente apprezzare: sarebbe bene che nelle categorie dei professori universitari ordinari e associati ci fosse, come in altri paesi, una maggiore mobilità. L’ideale sarebbe che ogni estate tutti quanti tornassero sul mercato, alla maniera dei calciatori, per essere “comperati” dalle varie facoltà e dipartimenti e pagati in base alla qualità delle loro prestazioni. Ma lo stesso sistema non potrebbe essere adottato per i milioni di maestri elementari e di professori di scuola media inferiore e superiore, che costituiscono l’ossatura del nostro sistema educativo e hanno bisogno di ragionevoli certezze per poter svolgere utilmente la loro funzione.

Anche il sacrosanto principio della concorrenza va applicato con la misura del buon senso, che però troppo spesso si nasconde, come diceva Manzoni, per paura del senso comune. Non si può pretendere, con la scusa della mobilità, che gli uomini corrano come topi impazziti in un labirinto, senza riuscire a individuare una via di uscita. Bisogna che la politica indichi loro questa via, ponga un traguardo che sia anche emotivamente persuasivo . E per questo la tecnica non basta.