Nella Tunisia dei Salafiti “velo, lavoro e preghiera”

Domenico Quirico
www.lastampa.it, 04.02.2012

È il modo in cui lo dicono che preoccupa, che mette in guardia. «Gli islamisti? tutto va bene, sono moderati, ragionevoli. Fanno le loro prove al potere». Però la voce si abbassa, e si guardano attorno, il segno di una segreta geografia spirituale che sta germogliando. Poi un amico, un tunisino gauchiste, di quelli che si sono sempre destreggiati con spirito e dignità per la laicità, visto che la democrazia era loro vietata proprio dal dittatore amico della Francia, mi ha suggerito «vai a dare una occhiata a Sejnane, il primo emirato salafita, vedrai cosa diventerà il Nord Africa tra un po’, li hanno già il veleno dell’islamismo nel sangue. A Sejnane ormai comandano loro». Sabato lui è andato in piazza a Tunisi per gridare «non rubateci la rivoluzione».

Non davano, i manifestanti, una impressione di energia; semmai c’era nella loro dedizione qualcosa dell’atteggiamento di coloro che preparano nei particolari il proprio funerale, dirigono la costruzione della propria tomba. La morte di un sogno non è meno triste della vera morte e lo sconforto di coloro che lo hanno perduto è profondo come un lutto. Quando ho visto l’imam di Sejnane ho pensato a quei preti giovani appena usciti dal seminario che popolano i romanzi di Bernanos, perduti tra le miserie del mondo a cercare di dipanare l’intricato gomitolo del peccato e della grazia.

Ajemmen ha occhi obliqui da gatto malandrino, e dimostra ancor meno dei suoi 22 anni. In città raccontano che lo hanno imposto i salafiti, con le brusche, dopo aver cacciato il predecessore «compromesso con la dittatura». L’imam indossa sul barracano la mimetica e si muove nell’ombra di un manipolo di piissimi con muscoli e grinte da lottatori. La sua moschea vigila un paesaggio di colline eteree dalla luce incontaminata del sole e dalla dolcezza soprannaturale del verde che sboccia in dicembre. Ma la città, 50 mila abitanti, è zeppa di disoccupati e di bambini, e un’aria di rovina e di vecchiaia che sembra consumarli.

Una volta c’erano due miniere, ferro e piombo, adesso sono chiuse, le cicogne, a centinaia, fanno i nidi sulle impalcature arrugginite. Qui anche il miracolo dell’acqua è un miracolo pieno di sé. «Serve per dissetare le grandi città, e a noi resta troppo poca per irrigare queste terra magra che subito fa grumo e spacca le radici».

La disoccupazione giovanile è all’80 per cento, ci sono settecento laureati senza lavoro. Abderrauf si è diplomato tre anni fa in informatica, lavora tre mesi l’anno quando va bene per la raccolta della frutta; poi c’è il caffè dove i giorni scivolano via come la spuma di una cascata. Alle elezioni la gente ha votato in massa per Ennahda, l’islamismo conservatore che è sembrato ai poveri il meno compromesso con i furti del regime di Ben Ali, l’unico che offrisse una vera alternativa. Dopo la rivoluzione la città è stata, per mesi, abbandonata a se stessa, la polizia e la guardia nazionale non facevano più paura, il sottoprefetto si è rifugiato a Biserta e il suo ufficio è occupato dai disoccupati che invocano posti nella amministrazione pubblica.

Sono aumentati, nella miseria, furti, violenze, scontri tra clan. E allora i vigilantes salafiti hanno iniziato a pattugliare le strade, a ammonire le teste calde e gli ubriachi, hanno «arrestato» alcuni ragazzi che avevano rubato dei video giochi. E sottovoce c’è chi racconta di interrogatori e punizioni brutali per i «peccatori» nelle cantine di un municipio di quartiere, semi-bruciato durante la rivoluzione e diventato il quartier generale delle squadre di fanatici. Ma i salafiti usano anche altre armi, distribuiscono vestiti e cibo alle famiglie povere, e bombole del gas che i gestori del mercato nero vendono a prezzi elevatissimi approfittando degli scioperi che bloccano le raffinerie. Racconta la «coiffeuse» che ha il negozio in pericolosa prossimità della moschea.

Qui i giovani barbuti, con l’aria annoiata da attori disoccupati, controllano che i passanti si fermino devotamente a leggere i grandi poster colorati nuovi di zecca affissi al muro di cinta: che invitano a portare il niqab, il velo integrale, («ti protegge dallo sguardo degli uomini e ti porta in paradiso»), a non violare l’obbligo della preghiera e soprattutto a evitare le lusinghe della magia nera.

Con efficaci foto e vignette sono esemplificate tutte le astuzie, filtri, formule, oggetti, di fattucchiere maghi e marabutti. Non sono a Sejnane che poche decine, ma rastrellano i giovani sfiduciati, li portano alla preghiera. Scavano nel disastro economico, perché ai borghesi di Tunisi la rivoluzione ha dato il diritto di parola e forse può bastare.

Ma ai poveri che chiedevano pane e lavoro niente. È un caso se a Kasserine, nel Sud, dove la rivoluzione è nata, il presidente Marzouki non abbia potuto pronunciare un discorso a causa delle contestazioni?

Un vecchio che esce dalla preghiera guarda beffardo i devoti con l’aria guappa: «I sermoni dell’imam e i suoi di Corano sono quelli di un ignorante nella dottrina. Peccato tu sia venuto solo ora. Un mese fa questi devoti li avresti trovati al bar, ubriachi».

Anche nel grigio sporco della periferia Nord di Tunisi c’è un’oasi verde, il campus della università di Manouba, facoltà di Lettere, è un simbolo della resistenza al vecchio regime. Anche qui i salafiti sono al lavoro. Il campus è stato chiuso dal sei dicembre per 37 giorni a causa delle incursioni degli integralisti che esigono per le ragazze che portano il niqab, sempre più numerose, il diritto di potere presentarsi agli esami. Le studentesse coperte dal barracano sfarfallano tra loro, in piccoli gruppi, si vedono solo occhi a scimitarra e ciglia lunghe come spade. Non parlano con uomini. Parlano, per loro, i compagni maschi, e molto.

Abdelkader Hechmi è il capo, studente di magistero, un ragazzo, ma c’è in lui qualcosa di inesprimibilmente vecchio, di pietrificato: «Qui viene violata la legge, ci sono degli estremisti di sinistra, laicisti fanatici alla francese che vietano alle nostre compagne di studiare. Scontri? Violenze? Tutte bugie e propaganda dei giornali.

Anche a Cambridge le studentesse possono passare gli esami velate. Quante sono? Decine, sempre di più, perché prima se indossavi il velo finivi in galera». Nelle scuole medie studenti pii hanno iniziato a contestare i corsi di disegno e trattano gli insegnanti da eretici.

Forse sono casi singoli come ripetono le autorità, ma guardare in luce e in controluce, prima che sia tardi. Ma duemila salafiti hanno accolto una delegazione di Hamas al grido di «morte ai giudei». In Tunisia ne restano ancora un migliaio, i superstiti di un’epoca di rara tolleranza.

E poi c’è Cheick Sadok Chrourou, eletto alla Assembla costituente nelle file di Ennadha. Ha passato gli ultimi venti anni in prigione per la sua fede, non l’hanno piegato le torture, è uscito solido come una roccia, temprato nell’acciaio. Ha chiesto in Parlamento che contro gli scioperi che bloccano la produzione ora che governa il partito di dio venga applicata la punizione enunciata nel verso 33 della sura quinta del santo corano che raccomanda di «uccidere crocifiggere e tagliar le mani e le gambe ai miscredenti che dichiarano guerra a Dio e al suo profeta».

E che dire di Souad Abdessalum, l’unica donna capolista di Ennadha, svelata, l’islamista in Dior che incantava i giornalisti occidentali con il suo sorriso appena accennato, leonardesco? Ha inveito contro le madri celibi, definendole «una infamia».