Etica e genetica, le vie travagliate della giustizia

Marco Comandè
www.italialaica.it

09.02.2012 – In questi ultimi mesi, alcune vicende giudiziarie sono state oggetto di polemiche: misure alternative al carcere per gli stupri di branco, assoluzione di un omicida per schizofrenia, prescrizioni, cicliche amnistie che di fatto rendono vano il proibizionismo dei benpensanti e così via.

Il quadro non è completo. Sul versante genetico, le nuove frontiere della biologia evoluzionistica ci hanno regalato un’immagine del sistema giudiziario molto precaria. Gli scienziati pretendono di dimostrare nel DNA quei tratti che predispongono un individuo alla violenza, rendendolo di fatto “incapace di intendere e di volere”.

Che sta succedendo? Millenni di esperienza, dal codice di famiglia delle prime civiltà patriarcali alla raffinata filosofia greca, dalla codificazione del diritto sotto l’Impero romano all’esegesi religiosa medievale (cristianesimo, islamismo, confucianesimo, induismo, shintoismo, amerindo, per citare i più noti), dalle costituzioni borghesi ai principi universali dell’Onu, vengono stravolti da una concezione anarchica, nietzscheana della società?

“Nessuno dà all’uomo le sue qualità, né Dio, né i suoi genitori. Nessuno è responsabile del fatto che è così e così. Il filo di vita che ora egli regge non è separabile da ciò che fu e ciò che deve essere. Poiché egli non è il risultato finale di un lungo progetto e, in generale, di nessuna volontà di un ideale di uomo, di un ideale di felicità, di un ideale di moralità, è assurdo volersi rivolgere verso qualche parte, come se da qualche parte si trovasse un colpevole” (Nietzsche).

Se guardiamo alla legge di natura, osserviamo i gabbiani ingurgitare i pesci e i pesci ingurgitare i propri simili più indifesi. Chi è il più cattivo? Il gabbiano che deve nutrire i propri piccoli o il pesce che deve escogitare metodi istintivi per difendersi?

Se però ci orientiamo sulle specie più complesse, notiamo che l’istinto cede il passo all’intelletto grazie all’ingrandimento del cervello e quindi alla plasticità dell’identità. L’intelletto regola le specie secondo norme consuetudinarie che, nell’homo sapiens, hanno raggiunto supreme vette di astrazione filosofica.

Benedetto XVI ha denunciato questo stravolgimento dell’etica come relativismo culturale, lanciando anatemi contro gli scienziati che associano la morale alla genetica. Altri giuristi, più pragmatici, chiedono a gran voce un dialogo tra legislatori e biologi per non creare barriere di incomunicabilità. Non si può assolvere una persona solo perché non è responsabile della struttura genetica che possiede!

Dove sta l’errore? Chi è che ha esagerato? A mio avviso, tutto si basa su un equivoco di fondo. Proprio il fatto che l’homo sapiens traduce l’istinto in cultura, ci ha portato alla conclusione (frutto del nostro desiderio inconscio di separarci dall’animale da cui discendiamo) che la giustizia umana, l’etica, l’uguaglianza, non siano una conseguenza naturale del fatto di appartenere alla natura.

Eppure è una realtà oggettiva semplice: l’homo sapiens vive in comunità così come i mammiferi vivono generalmente in branco, attuando la selezione darwiniana quasi esclusivamente attraverso la società. In molte specie “intelligenti”, la fiducia nell’altro è un elemento fondamentale di coesione, da cui scatta la punizione o l’esclusione per chi possiede geni “egoisti”, attuando un’eugenetica di fatto: gli “egoisti” non potranno partecipare alla competizione amorosa e alla stagione degli amori, al corteggiamento finalizzato alla riproduzione e alla trasmissione dei geni “egoisti”.

A mio avviso, è assurdo separare l’etica dall’istinto, come fa il Papa. L’istinto non è quella brutta bestia che viene descritta: istinto materno, istinto di sopravvivenza, istinto di repulsione, istinto sociale. Tutto il diritto umano è indirettamente influenzato dall’istinto: la legittima difesa, la violazione degli accordi, l’isolamento degli individui pericolosi, la famiglia costituzionalmente definita come “società naturale fondata sul matrimonio”.

Essendo l’uomo un animale sociale, ripeto, lo scopo delle sanzioni penali è spontaneamente teso alla rieducazione del condannato. Questo apre uno spiraglio all’ipotesi deterministica dei geni. Infatti i geni non sono tutto, e possono essere rimodulati dall’ambiente e dalle leggi. Qualora tale rieducazione sia difficoltosa, la sanzione non è finalizzata alla semplice punizione quanto piuttosto all’isolamento. Questo è il senso dell’art. 32 Cost: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Solo quando c’è pericolosità sociale, allora vige il trattamento sanitario obbligatorio.

La terminologia “incapace di intendere e di volere” dovrebbe essere interpretata in modo restrittivo, proprio per i casi gravi e proprio perché i geni non sono tutto nell’ambiente. E tuttavia, non dobbiamo dimenticare il fine rieducativo della pena, che esula dalla logica clerical-fascista dei “buoni e cattivi”.