La guerra economica con l’Iran

Alessandro Iacuelli
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L’Iran è pronto a una grande espansione del suo programma nucleare nel sito sotterraneo di Fordow. È quanto hanno rivelato alcuni diplomatici che hanno chiesto di rimanere anonimi. Teheran, hanno aggiunto, ha preparato il sito per l’installazione di migliaia di centrifughe di nuova generazione, che possono produrre uranio arricchito molto più velocemente dei macchinari presenti al momento. I circuiti elettrici, le tubazioni e attrezzature di appoggio sarebbero già pronti.

L’impianto, costruito all’interno di una montagna in una ex base militare, nei prossimi giorni diverrà pienamente operativo. Sabato scorso il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, citato dall’agenzia di stampa locale Mehr, ha affermato che “l’Iran a breve presenterà il frutto dei suoi progressi nucleari. Il mondo intero assisterà ad alcuni dei nostri grandi successi in campo nucleare”.

Già agli inizi di gennaio Fereydoun Abbasi Davani, capo dell’Organizzazione per l’Energia Atomica Iraniana, aveva detto al quotidiano iraniano Kayahan: “Un sito sotterraneo per l’arricchimento di uranio sarà operativo per gli inizi di febbraio”. Il funzionario aveva poi precisato: “Fordow produrrà uranio arricchito al 20%, 3,5% e 4%. Siamo ormai pronti ad esportare ad altri paesi i servizi legati all’energia nucleare; possiamo produrre acqua pesante”.

In realtà quest’uranio arricchito non può essere usato tecnicamente per la produzione di armi nucleari, come sostiene un po’ tutto il mondo occidentale, USA in testa. Fisicamente, il processo di arricchimento per costruire una bomba atomica arriva fino al 90%. L’uranio presente nelle armi nucleari abitualmente contiene circa l’85% o più dell’isotopo 235, ed è noto come uranio “a gradazione per le armi”. Se l’Iran arriva appena al 20% di arricchimento, non è in grado di produrre bombe atomiche. Al limite potrebbe costruirsi una centrale elettrica, costosissima e senza molto senso in un Paese ricchissimo di petrolio, o più verosimilmente potrebbe venderlo a Paesi terzi.

E’ vero, come sostenuto da alcuni, che può bastare circa un 20% di arricchimento per costruire una cosa assomigliante ad un’arma nucleare, viene chiamata “bomba cruda”; ma dai test effettuati negli anni ’50, in piena guerra fredda, si è dimostrata molto inefficiente. Pertanto, lo scontro attuale, la tensione altissima tra Iran e Occidente, non è tanto riguardante il sospetto che le sue attività nucleari abbiano finalità prettamente militari, quanto sul rischio che l’Iran si trasformi da Paese acquirente di tecnologie nucleari dell’Occidente, in Paese esportatore di servizi e materiali nucleari, andando a rubare ai Paesi occidentali nicchie di un mercato che diventa sempre più stretto.

Un paio di giorni fa, il presidente Ahmadinejad ha assistito personalmente all’introduzione della prima barra di combustibile nucleare in un reattore a Teheran. Operazione tecnica seguita da due annunci. Il primo è che gli scienziati hanno aggiunto tremila centrifughe alle seimila già esistenti. Il secondo è l’ordine di costruzione di altri 4 reattori “per scopi medici”, in particolare la “cura di malati di tumore”.

Chiaramente si tratta di un poco velato messaggio al resto del mondo e in particolare agli avversari: la ricerca nucleare sta progredendo nonostante i moniti dell’Occidente. Nonostante questo, Teheran ha finalmente risposto alla richiesta di negoziati sollecitata dai cosiddetti “5+1”, ossia Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania, riaprendo la via diplomatica che, per quanto complicata, è una via che molti osservatori invitano comunque ad esplorare.

Il confronto si svolge in una cornice ambigua, anche perché è difficile decifrare le intenzioni di Teheran, spesso misteriose e piene di retroscena. A titolo di esempio, i media iraniani hanno annunciato lo stop delle forniture di greggio a sei paesi europei, Italia inclusa. Una rappresaglia all’adozione delle sanzioni, sembrerebbe. Successivamente, il ministro del Petrolio Hassan Tajik ha smentito: “Manteniamo, per ora, le forniture per motivi umanitari, vista la crisi economica che attanaglia l’Europa”.

E’ chiaro di cosa si tratta: l’Iran non sospende le forniture ma minaccia di farlo e, trattandosi di petrolio, è la minaccia in sé è forse più forte della sua stessa attuazione. Lo dimostra il veloce contraccolpo in Europa: in seguito all’annuncio, a Londra la quotazione è salita di 1,53 dollari, portandosi a 118,8 dollari al barile. Il tutto per una veloce piroetta iraniana.

C’è da aggiungere che, secondo alcuni analisti politici, questi episodi ambigui sono legati a contrasti interni su come fronteggiare la pressione internazionale. Infatti, non c’è solo il nucleare: le tensioni restano alte dopo gli attacchi in Azerbaigian, India, Georgia, Thailandia. La polizia sostiene che le bombe esplose a Bangkok sono simili a quelle usate a New Delhi e Baku e, pur senza prove, fonti israeliane (ovviamente interessate) si sono dette sicure che si tratta di un’offensiva globale, condotta, però, in fretta, affidata forse a “mercenari”.

Episodi che hanno dato vigore a chi ritiene che con l’Iran c’é poco da trattare. A confermarlo, la Gran Bretagna “non chiede” l’uso della forza contro l’Iran, ma neanche “esclude questa opzione”. Lo ha dichiarato il ministro degli esteri britannico William Hague alla Bbc. A una domanda su un possibile attacco israeliano contro Teheran per fermare il programma nucleare iraniano, Hague ha detto che Londra “non fa parte di nessuna pianificazione di attacco militare e ha avvertito Israele che un attacco sarebbe “poco saggio”.

In fin dei conti, si tratta di una lunga partita a scacchi che avviene su diversi piani: da quello militare, con l’ingresso di navi da guerra iraniane nel mediterraneo, a quello tecnologico, riguardo il nucleare, fino ad arrivare a quello principale: il piano economico. Qui sembra giocarsi una partita più delicata, dove l’Iran può con un semplice annuncio di nuove centrifughe o di sospensione delle forniture di petrolio, far salire o scendere a proprio piacimento le borse europee e nord-americane, far aumentare il prezzo del petrolio, quindi della benzina e, in definitiva far aumentare la spinta inflazionistica sia sul dollaro sia sull’euro.