Iran, ayatollah, nucleare e diritti umani

Loredana Biffo
www.paneacqua.eu

Mediorientale, ci riguarda ormai in modo ineludibile, come italiani e come europei; alla luce delle nuove elezioni in Iran, che vedono sconfitto Ahmadinejad e vincitore Ali Khamenei, pare che il “potere in turbante” sia riuscito ad avere la meglio, ha vinto il “Partito di Dio”.

E’ utile ricordare, che Khamenei, oltre ad essere un capo religioso e politico, è l’emblema del sistema clericale-fascista che imperversa in Iran.

Già in passato, quando il cosiddetto “riformista” Moussavi (leader che nelle elezioni precedenti fu battuto da Ahdmadinejad) grazie al sostegno determinante di Khamenei, rivendicava l’eredità di Khomeini. Ora si avrà quindi, non più un khomeinismo senza clero, come voleva Ahdmadinejad, bensì un “khomeinismo in turbante”, e purtroppo nemmeno questa svolta condurrà alla democratizzazione dell’ Iran, come i dissidenti del regime vorrebbero.

Sarebbe un grave errore se l’Italia non prestasse attenzione ai segnali inquietanti che arrivano dal mediterraneo e oltre, fino all’oceano indiano. Fermenti passati e recenti rappresentano un problema inedito per il nostro paese e per l’Europa, poiché l’instabilità di quella zona, è un nemico alquanto pericoloso.

La situazione strisciante tra Siria e Iran, dovrebbe indurre ad una gestione della crisi attraverso un’azione europea comune; del resto Italia ed Europa hanno già perso tante occasioni, specialmente perché la primavera araba è stata affrontata senza una strategia e soprattutto senza tener conto dell’interazione tra la specificità dei paesi in questione, e una visione globale delle problematiche.
Ora La Siria e l’Iran sono due scottanti questioni che potrebbero mettere in crisi la politica europea e italiana.

Per quanto riguarda l’Iran, l’Italia dovrebbe chiedersi seriamente quali sarebbero le conseguenze che un intervento militare da parte di Israele (e americano) comporterebbe. In questo momento sarebbe più che mai utile ammonire Israele, che i problemi non si possono sempre risolvere con la forza. Bisognerebbe inoltre che gli Stati Uniti si rendessero conto di quanto sarebbe folle buttarsi in un ennesimo conflitto dagli esiti imprevedibili (l’Iraq insegna).

Forse leggendo queste parole qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che il dialogo potrebbe essere la soluzione. In realtà la soluzione l’ha prospettata Mariam Rajavi (leader dei dissidenti iraniani ed esule a Parigi) già molto tempo fa, ossia la: “Terza Via”. Questa consiste nel sostenere il popolo iraniano (compresi gli esuli) nella loro lotta contro il sanguinario regime clericale che ha fino ad ora imperversato e represso qualsiasi forma di protesta.

Il sostegno è certamente efficace attraverso le sanzioni, e cessando i rapporti economici con il regime; anche se questo ovviamente non è mai stato fatto dall’occidente per ovvi motivi.

Si pensi che nella sola prima settimana del 2012 le esecuzioni di massa sono state almeno 41 tramite impiccagione, tutte eseguite in pubblico. Naturalmente i dissidenti parlano anche di morti non ufficiali (la maggior parte deceduti a causa delle torture) nelle terribili prigioni di Arak, Teheran, Zanjan, Smnan, Evin e Bam.

Per questo la Resistenza Iraniana si è rivolta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e alla Comunità Internazionale per arginare l’escalation di esecuzioni dovute anche alla crisi interna al regime iraniano, sfociata ora nelle nuove elezioni che vedono il regime teocratico alla ribalta.
In Iran sono in atto veri e propri crimini contro l’umanità, a partire dalla folle situazione di Camp Ashraf, una città nel deserto iracheno, in zona dichiarata neutrale, dove risiedono circa 3.400 iraniani dissidenti, per lo più donne.

Amnesty International ha dichiarato che coloro che vivono a Campo Ashraf, sono esuli, e che se fossero estradati in Iran andrebbero incontro a morte certa, oltre che alle consuete torture efferate da parte del regime; pertanto secondo una dichiarazione pubblica (AI INDEX. DE 14.02.2008), gli esuli sono sotto la tutela internazionale. E’ stato chiesto esplicitamente che vengano mandati in paesi terzi per salvarli, e per poter curare i malati che da tempo non ricevono alcune cure per volontà del regime iraniano.

Nonostante ciò, le forze militari irachene, in seguito al comando del Primo Ministro Khamenei, e per mano di di Nouri Al-Maliki, hanno invaso Ashraf, che ospita la “testa pensante” della resistenza popolare, e quindi spina nel fianco del regime.

Ora che l’Iraq è diventato sostanzialmente una filiale dell’Iran, che Maliki prende ordini dai mullah, stanno trasferendo i residenti di Ashraf in un campo ex base americana in Iraq, detto “Camp Lyberty”. Definizione quanto mai macabra, considerato che è a conoscenza di tutti gli organi internazionali che tale trasferimento è voluto dal regime degli Ayatollah (in accordo con l’Iraq), che ha lo scopo di eliminare fisicamente la “resistenza”. Infatti il regime non permette l’ingresso a Camp Liberty a giornalisti, medici e quant’altro; le persone già trasferite hanno denunciato le condizioni disumane di un vero e proprio campo di sterminio. Questa è la realtà. Queste sono le condizioni del popolo iraniano, in primis le donne, prime combattenti e testa pensante della resistenza.

Insomma, non si può continuare a a pensare di importare la democrazia con le bombe, forse sarebbe ora di incominciare a sostenere i popoli che chiedono la libertà, perché possano costruire da soli la loro democrazia. Il popolo iraniano è pronto da tempo per questa pur drammatica battaglia; e noi?

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La sorpresa persiana

Vincenzo Maddaloni
www.altrenotizie.org

Perché stupirsi se il Fronte Unito dei principalisti, vicino alla Guida suprema Ali Khamenei, ha guadagnato oltre il 75 per cento dei seggi nelle elezioni del 2 marzo per il nuovo Majlis (Parlamento iraniano)? Perché stupirsi se l’afflusso degli iraniani al voto è stato del 64,2 per cento con punte dell’ 88 per cento nella provincia centrale di Kohkilouyeh-Boyer Ahmad? La vittoria schiacciante del clero era annunciata in un Paese piegato dalle sanzioni economiche che gli sono state inflitte per bloccargli il programma nucleare, il quale secondo Stati Uniti, Europa e Israele è destinato a scopi bellici.

Sicché oggi l’Iran produce 600mila barili di petrolio in meno rispetto a qualche anno fa a causa della mancanza di raffinerie nel Paese, e pertanto deve importare gran parte del diesel e della benzina dall’estero, a prezzi molto alti.

Inoltre, da mesi i cittadini iraniani convivono con un’inflazione in crescita costante. Nel tentativo di fermarla il governo iraniano ha dovuto limitare i suoi sussidi statali sui beni di prima necessità, ma non è riuscito nemmeno a bloccare la caduta della valuta nazionale iraniana, il rial, che ha toccato in questi giorni il minimo storico perdendo il 30 per cento del suo valore.

Risultato? La congiunta ha rafforzato negli iraniani quell’attaccamento alla trinità culturale “iranità, islamità e modernità” nella quale essi coniugando novità e tradizione, affrontano ogni genere di confronto con quella determinazione nazional-religiosa che li ha resi peculiari agli occhi del mondo. All’origine, c’è la difesa estrema dell’indipendenza nazionale che era stata – anno 1979 – una delle ragioni della convergenza tra la sinistra e i movimenti religiosi nella lotta contro il potere capitalista degli Usa e contro lo Stato monarchico da essi sostenuto.

Vinse la rivoluzione, ma col passare degli anni i preti si sono impossessati del potere, annientando ogni forza di opposizione, anche le più moderate, com’è accaduto appunto nel 2009 al movimento riformista. Tant’è che trentatre anni dopo l’arrivo dell’ayatollah Khomeini a Teheran, i “Princìpi politici, filosofici, sociali e religiosi dell’ayatollah Khomeini”, il libretto che condensa i “comandamenti” del buon musulmano, rimane tuttora il “catechismo” di ogni “buon” persiano.

In esso c’è un capitolo nel quale – al pari di sant’Agostino – Khomeini sostiene la tesi secondo la quale tutti i governi sono artificiali; ma a differenza del filosofo cristiano, l’ayatollah non indica soltanto la Città di Dio come la soluzione ideale di riferimento. Egli ritiene indispensabile che ci sia sulla terra un governo islamico, composto dal collettivo dei giuristi, i fuqaha, (i giureconsulti musulmani), uomini di grande virtù ai quali spetta il diritto di governare e di accompagnare i credenti fino alla soglia della Città di Dio.

E’ un richiamo forte alla tradizione degli sciiti, i quali (diversamente dai sunniti che delegano la cura delle anime fin dal VII secolo ai califfi) l‘affidano soltanto agli uomini della Chiesa, agli Imam. Ne sono essi gli unici custodi riconosciuti fin dal 1502, quando nella Persia governata dai Safavidi, lo sciismo divenne la religione di Stato.

Cosicché all’imam Khomeini non rimase che trasformare lo sciismo da corrente per molti versi popolar-mistica dell’Islam in ideologia politica e terzomondista che sfida l’imperialismo personificato dalle potenze straniere, dall’alta borghesia e dalla grande finanza internazionali. E’ la sua una rilettura dell’Islam dei primordi della vita del Profeta, del quale ne esalta l’umiltà. Ma si spinge oltre, mescolando varie teorie, (non ultima quella marxista) disegnando una nuova ideologia ricca di spunti di riflessione sulle problematiche politiche, economiche e sociali, temi che attirano l’interesse degli iraniani. Khomeini si arma di un tale pragmatismo da non esitare a rimpastare la shari’a http://it.wikipedia.org/wiki/Shari’a pur di raggiungere i propri obiettivi. «Quando mai – si chiederà Rafsanjani, presidente dal 1989 al 1997 – nella storia dell’Islam si è visto un Parlamento, un Presidente, un Primo Ministro e un Governo? In realtà l’ottanta per cento di quello che facciamo non ha precedenti nella storia dell’Islam».

Tuttavia, la formula rimane vincente, lo comprova il commento di Khamenei, quando all’apertura dei seggi ha sottolineato che le elezioni hanno sempre svolto un ruolo determinante per la Repubblica islamica, «dando un messaggio ad amici e nemici». E ha poi aggiunto, con un chiaro riferimento agli Usa, che le «potenze arroganti spandono propaganda e minacce contro l’Iran per negare i propri fallimenti, oltre a imporre sanzioni e sollevare la questione dei diritti umani».

Se si tiene a mente questo scenario si capisce perché sia andato a votare, venerdì 2 marzo, anche l’ex presidente l’ayatollah Mohammad Khatami, che ha fama di moderato e di difensore dei principi democratici. Egli nei mesi scorsi aveva posto una serie di condizioni per la partecipazione del suo fronte alle elezioni, tra cui la liberazione di Mehdi Karrubi e Mir Hossein Mussavi, due dei leader dell’opposizione, la libertà per i partiti indipendenti e riformisti e per la stampa e la supervisione delle elezioni da un organismo indipendente. «Quali di queste condizioni si sono realizzate?

Perché Khatami ha voltato le spalle alla gente e ai tantissimi prigionieri politici» si è chiesto l’altro ieri, qualcuno sul web. A rispondere è stato l’ex portavoce dell’ex presidente, Abdollah Irmezanadih, il quale ha assicurato sulle buone intenzioni di Khatami dicendosi convinto che, sebbene avesse accettato di rischiare di perdere la faccia, egli l’aveva fatto nell’interesse della gente, e che un giorno ne avrebbe spiegato il motivo. Sicuramente sarà un “motivo” intessuto di riferimenti nazional-religiosi, argomenti di facile presa e condivisi dalle masse, come da cinquecento anni accade.

Un’altra premessa è d’obbligo a questo punto. La nazione islamica, l’umma, http://it.wikipedia.org/wiki/Umma e la società civile hanno ciascuna le proprie caratteristiche specifiche. Alcune di queste sono comuni ad entrambe, mentre altre non lo sono. Infatti, i membri della società civile vengono chiamati “cittadini”, quelli della società islamica sono chiamati “credenti”. Se il “cittadino” è caratterizzato dai “diritti”, il “credente” è caratterizzato dai “doveri”. Secondo il parere dei sociologi della politica, la società laica si colloca tra lo Stato e l’individuo. Lo stesso accade anche nella società islamica, dove l’umma si colloca tra il governo e il credente.

Nella società islamica, come nella società laica, esistono diritti e valori: la società civile deve rispettare le leggi; istituzionalizzare la partecipazione politica, realizzare la proprietà privata, assicurare la stabilità politica, riconoscere i diritti e i doveri tra individuo e Stato (governo), ecc. Ma mentre nella società laica il bene terreno è dominante, nella società islamica il mondo viene visto da una angolazione la cui dominanza è l’Aldilà. Pertanto se il mondo e l’Aldilà sono sullo stesso piano, il mondo è un campo che va coltivato per realizzare l’Aldilà, poiché «non si possono raccogliere frutti da un campo se non viene coltivato».

E dunque, il profondo rapporto che il clero sciita ha con le masse, che ogni volta sorprende e disorienta gli osservatori occidentali, nasce dalla secolare capacità del clero di incanalare gli entusiasmi popolari in manifestazioni di fede. Ogni spunto, atto, offerto dalla vita quotidiana, terrena, dalla “casa di prova”, viene “traslato” continuamente nella vita eterna, la “casa eterna”.

In questo modo, collegando il tempo limitato e contingente al tempo illimitato ed eterno con cerimonie, processioni e cortei con canti, elegie, battitori del petto, il pianto, le cerimonie di lutto, il pellegrinaggio ai luoghi sacri e ai mausolei dei santi, tutti ben articolati e sapientemente distribuiti nell’arco del tempo, i preti portano le masse alla resa totale ad Allah, l’Onnipotente.

Riti e prediche mirano a plasmare la mentalità dell’individuo sui modelli ecclesiali e a rimodellarla secondo schemi culturali e fideistici dei quali soltanto il clero ne possiede il magistero. Il risultato è che non soltanto le classi meno abbienti che nella solidarietà incentivata dalle moschee, nella filantropia, trovano il minimo di sostentamento e nella preghiera la serenità, vanno a votare gli esponenti del clero, ma anche la piccola e grande borghesia dei bazar si affida ai mullah nella speranza della salvezza eterna.

Sicché i meno abbienti e la piccola e grande borghesia invece di dedicarsi insieme alla lotta per una maggiore giustizia terrena, da sempre rincorrono la benedizione celeste elargita dai mullah e ayatollah, rinunciando al quotidiano in cambio dell’eterno, correndo ubbidienti ai seggi perché sono i preti che gli ordinano di farlo.

Beninteso, la fede nelle generazioni nate dopo la Rivoluzione del 1979 assume un senso e una rappresentazione diversi da quelli dei loro genitori e soprattutto diversi dalla destra conservatrice e fondamentalista. E’ la loro una fede, interiorizzata, individuale, nella quale non c’è spazio per la violenza.

L’immagine che i giovani (o meglio la maggioranza di essi) hanno di Dio non è quella del Dio che punisce, ma quella del Dio misericordioso che crea il mondo e benedice “i cinque”, i “pang tan”, cioè la Sacra Famiglia: Maometto, sua figlia Fatima, suo cugino e genero Ali, e i due figli di Fatima e Ali, Hasan e Hussein. Almeno questo è quanto si coglie scorrendo i numerosi blog che non sono soltanto luoghi di fermento religioso, ma anche spazio di critica, di espressione personale e discussione con i laici più radicali.

Naturalmente la nuova generazione ha avuto un’educazione lontana dalle influenze della società occidentale soltanto nelle apparenze. In realtà la sincronia di un Islam politicizzato e onnipresente nella vita quotidiana e l’inevitabile impatto con le culture straniere, enfatizzato dai vari media, ha stimolato nella società civile una rilettura della dottrina religiosa sciita che ancora non si è compiuta.

Per completare il quadro va pure ricordato che l’Iran ha il miglior sistema d’istruzione dell’intero mondo musulmano, con una popolazione culturalmente più avanzata e aggiornata. Tuttavia, trentatre milioni sui quarantotto milioni degli aventi diritto che sono andati a votare, non sono pochi. Che la vittoria del clero sia da considerarsi schiacciante non è un’esagerazione. Essa continuerà ancora a condizionare di molto le pressioni americane e tutto quello che accadrà in Mesopotamia nei prossimi tempi.