Rai e Mediaset: telegiornali vaticani?

David Gabrielli
www.confronti.net

Quando parlano di Chiesa e di questioni religiose con risvolti sulle leggi civili, i tg della Rai e di Mediaset danno voce, di norma, solo alle posizioni ufficiali della Santa Sede e dell’episcopato italiano, lasciando senza contraddittorio la pretesa delle gerarchie che l’etica da esse proclamata sia l’unica degna di questo nome.

Si parla spesso, nelle televisioni italiane, di fatti e questioni di Chiesa e di religione: in programmi di approfondimento, in talk-show leggeri, nei telegiornali. Ma come se ne parla? Senza addentrarci in un’analisi esaustiva, diamo un’occhiata – è il caso di dirlo – ai tg delle due maggiori emittenti, Rai e Mediaset.

RaiUno-Due-Tre e Canale Cinque: parla «la Chiesa»

Non a caso ci concentriamo sui tg dei due gruppi televisivi, dato il peso enorme che essi hanno nel formare l’opinione pubblica. A proposito di una presa di posizione del papa, della Curia romana o della Conferenza episcopale italiana, la consuetudine radicata è che il tg dica: «La Chiesa ha detto…»: ben raramente si insiste nel puntualizzare: «La gerarchia della Chiesa ha detto…»; e che si qualifichi la citata Chiesa come «cattolica romana». L’una e l’altra semplificazione concorrono perciò a radicare nella mente di molta gente l’idea – teologicamente e storicamente falsa – che Chiesa=gerarchia cattolica.

E che dice, «la Chiesa»? Proclama, senza contraddittorio, il suo verbo sui «princìpi non negoziabili»: così le gerarchie ecclesiastiche definiscono quali siano il giusto comportamento morale e le giuste leggi civili su divorzio, aborto, biotecnologie e bioetica, fine-vita (caso Eluana!), unioni omosessuali… Di solito, e sempre salvo qualche rara eccezione, funziona così: su uno di questi temi il tg riporta il parere di parlamentari, o intellettuali, di vari partiti, favorevoli o contrari, e per concludere si dà voce ad un prelato che afferma il suo categorico no, spesso facendo passare per «l’etica» veramente umana quella che è semplicemente l’etica cattolica o, meglio, quella proclamata dalle gerarchie. Nelle rare volte, poi, che si dà voce ad un cattolico critico – non sia mai che sia solo! – gli si appaia la voce di un cattolico allineato.

Per capire l’assoluta anormalità – in un Paese laico, democratico e plurireligioso – di una tale situazione, che invece molta gente, assuefatta com’è, trova del tutto ovvia, e le gerarchie un «atto dovuto», si immagini che cosa accadrebbe se, parlando – poniamo – di legge sull’aborto, un tg, riferiti i punti di vista dei politici, desse voce ad un rabbino che spiegasse come e perché, in certi casi, l’ebraismo considera lecita l’interruzione della gravidanza. E questa voce fosse l’ultima del servizio, prima di passare ad altro. Non avendo contraddittorio, la tesi del rabbino avrebbe una particolare risonanza su chi ascolta. Perciò la cosa inquieterebbe assai i vertici della Cei, non più soli a proclamare, da un punto di vista religioso, «l’etica». Un’inquietudine che turberebbe, e molto, i vertici Rai e Mediaset.

O immaginiamo un servizio del tg sul caso Eluana che, riferite voci del mondo politico, pro o contro il «distacco della spina» alla ragazza in coma irreversibile da diciassette anni, e poi il no del Vaticano, terminasse intervistando un docente della Facoltà valdese di teologia che spiegasse come e perché, in fedeltà alla Parola di Dio, gli evangelici rispettano pienamente la scelta di Beppino Englaro per porre fine alla non-vita della figlia. Una tale conclusione del servizio avrebbe un impatto impressionante sulla gente; e i vertici ecclesiastici troverebbero intollerabile che Rai/Mediaset abbiano osato far sapere al-l’opinione pubblica che l’etica da essi proposta non è l’unica possibile per un cristiano.

Lo stesso accadrebbe se, nel caso Eluana, la conclusione di un servizio del tg fosse affidata ad un non credente, che sottolineasse la nobiltà etica della scelta di staccare la spina.

Discorso diverso, relativamente, andrebbe fatto per gli altri programmi televisivi di Rai e Mediaset, dove con una certa frequenza si odono voci disomogenee a quelle della gerarchia vaticana. Lo stesso dicasi de La7 (la puntata de «Gli intoccabili» dedicata il 25 gennaio ai contrasti, e affari, religioso-economici ai vertici della Santa Sede ha suscitato sgomento in Oltretevere). Chissà mai che tanta audacia non esondi, prima o poi, nei tg.

Anche il concistoro nel quale, il 18 febbraio, Benedetto XVI ha creato ventidue nuovi cardinali, avrebbe potuto essere l’occasione per affrontare un tema nodale, nel post-Vaticano II: è mai possibile che, in linea di principio, il papa si riservi il diritto insindacabile di scegliere il corpo elettorale che dovrà eleggere il suo successore? È «normale» che solo chierici, e non anche laici – uomini e donne – entrino nella Cappella Sistina per scegliere il vescovo di Roma? No che, storicamente ed ecclesialmente, non lo è. Ma i tg Rai e Mediaset non lo sanno. O non vogliono saperlo.

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La «sineddoche» della informazione religiosa

Paolo Naso

Quasi quarant’anni fa il servizio pubblico ha avvertito l’esigenza di offrire a quelle che allora erano le due più consistenti minoranze religiose presenti nel nostro Paese, ebrei e protestanti, uno spazio autogestito di informazione. Paradossalmente, proprio oggi che la nuova realtà richiederebbe una maggiore attenzione al pluralismo religioso, la situazione non solo non si è evoluta ma per certi aspetti è peggiorata.

Un tempo c’erano «Protestantesimo» e «Sorgente di Vita». Insieme al Meteo sono le rubriche da più tempo inserite nel palinsesto di Raidue. Rubriche anomale, dal momento che benché targate Rai in virtù di due distinte convenzioni, la loro realizzazione è affidata alla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e all’Unione delle Comunità ebraiche. Correva l’anno 1973 e nell’ambito del contratto di servizio pubblico e della politica «dell’accesso», l’azienda radiotelevisiva sentì il bisogno di aprire due finestre su alcune storiche comunità religiose: i protestanti e gli ebrei. Allora, in un’Italia confessionalmente più monolitica di oggi, fu un passo innovativo e coraggioso che affermò che il «pluralismo» del servizio pubblico non poteva esaurirsi nel dare voce a diverse forze politiche ma si doveva allargare anche ai temi religiosi e culturali.

Quasi quarant’anni dopo siamo sostanzialmente allo stesso punto anzi, per certi aspetti, peggio. Negli anni Settanta la collocazione oraria delle due rubriche religiose «non cattoliche» era decisamente più favorevole di oggi: attualmente, infatti, la messa in onda avviene alla domenica e al lunedì sera ben oltre l’una di notte con replica il lunedì mattina alle 9,30: troppo tardi per chi lavora, troppo presto per chi si prepara a cucinare o a pranzare.

Ma il problema non è solo di collocazione oraria. La funzione di «Protestantesimo» e di «Sorgente di vita», pur importante, non è certo sufficiente a rappresentare ciò che si muove nell’Italia di oggi. Lo scorso 29 gennaio la rubrica del Tg 3 «Persone» ha mandato in onda uno splendido servizio di Lucia Ferrari sul più noto maestro zen italiano, il maestro Fausto Taiten Guareschi. Ecco un esempio di quello che il servizio pubblico dovrebbe essere riguardo alle religioni: una finestra su una realtà che negli ultimi vent’anni si è arricchita di innumerevoli presenze di individui e di comunità. Potremmo anche citare l’eccellenza della rubrica radiofonica «Uomini e profeti» (Radiorai 3), ma una o due rondini non fanno primavera.

Oggi l’Italia si può (e si dovrebbe) raccontare anche visitando i sikh di origine indiana che lavorano il parmigiano o che producono mozzarelle di bufala sulla costa laziale; seguendo con la telecamera una delle centinaia di migliaia di donne rumene, moldave e ucraine che tra un lavoro di cura e l’altro trovano il tempo di frequentare una chiesa ortodossa; documentando che cosa accade in un centro islamico in occasione della Festa del sacrificio, spiegando l’architettura di una chiesa protestante, partecipando a un culto pentecostale. Si potrebbe (e si dovrebbe) ma non accade ed è, per così dire, un’omissione di realtà.

Ma un vero pluralismo religioso richiederebbe anche altro: i racconti di uomini e donne che vivono intensamente la loro fede, da soli, non esauriscono i doveri di pluralismo, anche religioso, del servizio pubblico. Piaccia o no, oggi le religioni sono tornate «per strada» ed esprimono idee, proposte, esempi che contribuiscono al dibattito pubblico esattamente come una fondazione culturale, un sindacato o un ordine professionale. Su temi come l’ambiente, la bioetica, le risorse, gli stili di vita, i modelli educativi, le comunità di fede hanno qualcosa da dire – giusto o sbagliato che ci appaia, poco importa – in quello spazio pubblico che deve caratterizzare ogni società democratica e pluralista. Non hanno l’ultima parola – come qualcuno, soprattutto in Italia, pretenderebbe – ma hanno diritto di parola. Con altri, come altri. E questo è il buco più grosso del servizio pubblico radiotelevisivo. In qualsiasi Tg o talk show, quando si affrontano temi religiosi il sacerdote cattolico e solo lui parla per tutti i credenti. «Pars pro toto» o sineddoche, come ci hanno insegnato al liceo.