Il cattolicesimo e la Costituzione

Aldo Zanca
www.italialaica.it, 15.03.2012

Durante lo svolgimento dei lavori dell’Assemblea costituente si svolse una vicenda, a nostro parere non sufficientemente approfondita e meditata, che riguarda il tentativo del Vaticano di fare esitare un testo di Costituzione fortemente sbilanciato in senso clericale. Detta vicenda appare tanto più inquietante nella misura in cui non si tratta degli sforzi di un soggetto italiano che legittimamente esercita pressioni per far sì che proprie posizioni vengano assunte dai costituenti, ma di uno Stato straniero che cerca di consolidare ed estendere posizioni di potere all’interno di un altro Stato.

Per il Vaticano si poneva infatti il problema di ottenere dal nuovo Stato democratico i vantaggi che non era riuscito ad ottenere dallo Stato fascista con i Patti Lateranensi del 1929, che già avevano creato per la chiesa cattolica una posizione di straordinario potere nei confronti dello Stato italiano, che, unilateralmente, cedeva al Vaticano ampie porzioni di sovranità al clero cattolico, nelle istituzioni e nella società. Che di questo si trattava lo dimostra il fatto che l’operazione ebbe come perno la rivendicazione che il trattato e il concordato costituissero un’inscindibile unità, di modo che gli accordi concordatari si dovessero intendere come strettamente collegati e derivanti dalle clausole del trattato internazionale[1]. Parlando all’Università cattolica il 13 febbraio 1929, Pio XI aveva detto: «Il Concordato, anzi, non solo spiega e giustifica sempre meglio il Trattato, ma questo gli si raccomanda come a condizione di essere e di vita. È il Concordato che Noi, appunto perché doveva avere questa funzione, fin da principio abbiam voluto che fosse condizione “sine qua non” al Trattato».

Secondo l’impostazione del Vaticano, l’inscindibilità di trattato e concordato comportava che la denuncia di quest’ultimo avrebbe condotto a conseguenze «gravissime e incalcolabili», fino al divieto fatto ai cattolici di partecipare alla vita politica, aggiungendo minacciosamente che «quando non vi è accordo fra Stato e Chiesa, ivi sussiste sempre una lotta più o meno larvata di guisa che né la Chiesa né i cattolici potrebbero consentire a un regime di separazione anche benevolo nelle singole norme, la cui applicazione peraltro permetterebbe a qualsiasi governo mal intenzionato sistemi persecutorii nocivi non solo alla Chiesa ma al popolo stesso e allo Stato». Con il che qualunque idea di laicità dello Stato rimaneva del tutto esclusa.

Si affermava così l’idea secondo la quale la “questione romana”, cioè la condizione della Città del Vaticano nei confronti dello Stato italiano, si risolveva solo se, andando fuori dalla sfera dei rapporti interstatali, cioè spezzando la logica delle relazioni internazionali, che riguarda i rapporti esterni tra entità sovrane, si fosse consentito che il potere ecclesiastico si estendesse largamente entro il territorio italiano, confondendo Vaticano e chiesa cattolica italiana, confondendo a bella posta il trattato, che riguardava le relazioni tra i due Stati, e il concordato, che definiva le relazioni civili e religiose tra la chiesa italiana e il governo italiano[2].

Un aspetto che merita di essere messo bene in evidenza riguarda il tentativo del Vaticano di collocare le confessioni religiose minoritarie nella più svantaggiosa condizione possibile, incidendo soprattutto sulla loro capacità di presenza pubblica e di proselitismo.

L’arco delle questioni su cui si sviluppò l’iniziativa vaticana è ampio, mirando esplicitamente all’instaurazione di uno Stato confessionale e di un potere clericale autonomo, cui i pubblici poteri fossero docilmente consenzienti:

bisogna sostenere ad ogni costo – pensava Pio XII – che i rapporti tra Chiesa e Stato siano regolati dai Patti Lateranensi e non da un qualsiasi altro regime concordatario e che siano riconosciute l’unità della famiglia e l’indissolubilità del matrimonio; sostanziali modifiche sono da ottenersi per gli articoli concernenti il diritto di sciopero, la parità dei figli illegittimi con i figli legittimi e alcuni ostacoli di ordine morale alla parità giuridica dei cittadini. Altre modifiche meno importanti […] riguardano il testo dell’articolo dedicato alla revisione bilaterale dei Patti lateranensi, il riconoscimento dei titoli nobiliari pontifici e l’avocazione allo Stato dei beni di casa Savoia.

Come si vede, la preoccupazione è di tipo integralistica e quasi ierocratica, insistendo sul controllo della moralità dei cittadini, su cui deve vigilare il potere civile sotto le direttive clericali, anche con la pesante limitazione di fondamentali diritti civili e politici.

Lo strumento di cui il Vaticano si servì per intervenire sull’Assemblea costituente fu il gruppo della Democrazia Cristiana e alcuni altri cattolici esponenti di altri partiti [3]. La strategia suggerita era di far entrare nella Costituzione, nelle materie giudicate utili, il maggior numero possibile di “affermazioni cattoliche”, affermando la dottrina cattolica per quanto si riferisse «al matrimonio, all’insegnamento religioso nelle scuole e ai rapporti tra Chiesa e Stato, attenendosi per quanto possibile alla dicitura concordataria».

Come accennato, si raccomandava il massimo della cura nel seguire la discussione sui culti ammessi. Si temeva, infatti, che con la disciplina della libertà religiosa e in particolare quella dei culti ammessi, cioè le confessioni religiose diverse da quella cattolica, si potesse in qualche modo vanificare o ridurre, sia pure sul piano dei principi generali, la portata dei Patti Lateranensi. Si temeva che si potesse limitare la libertà operativa della chiesa, che si sarebbe trovata ad agire su un piano di sostanziale parità con le altre confessioni religiose, in particolare circa l’esercizio della libertà di propaganda religiosa e di esercizio pubblico e privato del culto.

Ancor più che verso tutte le altre materie, il modo di atteggiarsi verso la libertà di coscienza la libertà religiosa chiarisce quali fossero, almeno fino al Concilio vaticano II, gli orientamenti di fondo della chiesa cattolica. L’enciclica Mirari vos (1832) aveva condannato drasticamente qualunque tendenza liberale serpeggiante nel cattolicesimo e la separazione tra Stato e chiesa. Insieme al pensiero liberale si condannava la libertà di coscienza, quell’«assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenoso a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato».

Al fine di fornire precisi indirizzi, nell’ottobre del 1946 su incarico di Pio XII i padri della “Civiltà cattolica” predisposero tre progetti di costituzione sulle materie religiose. Un primo progetto delineava un “programma desiderabile”, che poneva come fondamento «la verità dogmatica della religione cattolica»; il secondo un «programma accettabile (o medio)», che riconosceva al cattolicesimo un «altissimo valore storico nella vita del popolo italiano»; il terzo un «programma non accettabile dalla Santa Sede», che partiva dal presupposto della separazione tra Stato e chiesa, da utilizzare come base di trattativa nelle peggiori delle ipotesi.

Il primo schema di costituzione trattava del “regime ideale” dei rapporti tra Stato e chiesa, del regime più conforme alla dottrina della chiesa. Si trattava della teoria dello Stato cattolico, che riconosce e protegge la verità della fede e, allo stesso tempo, la pone a fondamento della sua costituzione giuridica e materiale.

Non agirebbe secondo giustizia lo Stato che si limitasse a riconoscere soltanto il valore storico di confessione prevalente, o anche dominante, del popolo. Un siffatto agnosticismo, peraltro, viene sufficientemente evitato parlandosi di culti tollerati, nel senso che non vi è alcun senso di offesa, rappresentando appunto la tolleranza in materia religiosa – che è una caratteristica della moderna società – sia la sufficiente tutela della libertà di religione, e sia il vero tributo alla verità del cattolicesimo.

Si aggiungeva che un regime di concordato costituiva l’unica forma di unione con la moderna concezione della sovranità statale e che, sia per la presenza di cattolici e quella del papa «qualsiasi altro regime equivarrebbe a uno stato di lotta, intollerabile per la maggioranza cattolica del popolo e per la stessa S. Sede. Si minacciava, cioè, esplicitamente di ritornare alla situazione antecedente il 1929.

Lo Stato confessionale riconosce la libertà religiosa come diritto fondamentale dei cittadini, ma con regimi differenziati tra cattolici e acattolici, ma solamente “tollera” la libertà di coscienza, poiché il suo pieno riconoscimento «offenderebbe la dottrina cattolica e sarebbe in contrasto con la confessionalità dello Stato».

Il secondo schema non parlava più di Stato confessionale e partiva dal presupposto che soltanto la religione professata dalla maggioranza dei cittadini fosse meritevole di riconoscimento e di protezione da parte dello Stato. Infatti la giustizia esige che non si trattino allo stesso modo “enti diseguali”. Una cosa è l’eguaglianza, un’altra la parità:

Una religione che è un patrimonio spirituale profondamente radicato nella stragrande maggioranza del popolo, che risponde tradizione bimillenaria dell’Italia […] non può essere trattata dallo Stato in condizioni di parità giuridica e politica con qualunque meschinissima setta, chiesuola o conventicola con migliaia, se non centinaia di membri, si aggiunge il fatto che la religione cattolica è causa di splendore dell’Italia, mentre le altre sette tendono piuttosto a favorire l’influsso di potenze estere nella penisola.

Mentre si accettava il principio di non discriminazione sulla base della religione professata, sul piano giuridico-operativo si chiedeva che le confessioni religiose non venissero trattate dallo Stato tutte allo stesso modo e che quella maggioritaria godesse di un regime di privilegio. Alla base stava la tesi che soltanto la “verità cattolica” dovesse avere pieno riconoscimento, mentre l’“errore” (cioè le confessioni acattoliche), dato che non lo si può estirpare, dovesse essere soltanto tollerato e comunque non incoraggiato con la libertà di stampa e di propaganda. In particolare, malgrado la formale accettazione del principio di non discriminazione sul piano civile e giuridico, si dichiarava che «in uno Stato cattolico non possa essere ateo dichiarato o appartenente a una delle minuscole ma intollerantissime sette [4] che vivono in Italia, spesso al servizio dello straniero, sembra evidente».

Il divieto del divorzio, che si pretendeva fosse introdotto apertamente nel testo costituzionale, era assoluto perché: «l’introduzione del divorzio pei matrimoni celebrati solo civilmente costituirebbe una breccia pericolosissima per l’intero istituto». In materia si pretendeva di far valere tale e quale la dottrina cattolica. Il matrimonio veniva proposto come un’istituzione naturale precipuamente finalizzata alla procreazione. «Gli uomini, che contraggono il matrimonio, non possono intenderlo e foggiarlo a loro modo e piacimento, ma unicamente in quella maniera che è determinata dalla legge naturale, cioè da Dio stesso».

La chiesa però si arrogava il diritto di «determinare le condizioni richieste affinché il matrimonio esista» nonché di «stabilire gl’impedimenti che lo rendono nullo […]. In una parola, tutta la disciplina e tutte le leggi che riguardano l’unione delle persone nel matrimonio sono di competenza esclusiva della Chiesa. […] Lo Stato non ha competenza alcuna su tutto ciò che appartiene alla natura del contratto coniugale, sul valore del vincolo che lo forma, sulle condizioni della sua durata, sul Sacramento». Allo Stato competono esclusivamente gli effetti civili del matrimonio, fermo restando che il matrimonio celebrato solo civilmente altro non è che “concubinato legalizzato”.

Altrettanto intransigenti erano le proposte riguardanti l’educazione e l’istruzione. Il diritto all’educazione nell’ordine naturale appartiene alla famiglia e nell’ordine soprannaturale alla chiesa. «Allo Stato […] spetta cooperare con la famiglia e con la Chiesa principalmente rispetto ai cattolici, provvedendo alla istruzione ed all’educazione pubblica in accordo con il diritto anteriore della famiglia e con il diritto superiore della Chiesa».

Lo Stato dunque non ha, né può avere diritto assoluto sull’istruzione e sull’educazione, ma il dovere di provvedervi in accordo con i diritti suddetti, perciò con scuole, che corrispondano a questi diritti, siano esse scuole dello Stato, che per i cattolici devono essere, com’è logicamente necessario, cattoliche in tutto l’ordinamento: insegnanti, programmi e libri, siano scuole di iniziativa e di legittima fiducia delle famiglie.

Ovviamente a queste ultime, che sono private, deve essere garantita la parità rispetto agli effetti legali (carriera scolastica, titoli di studio ecc.). In tutte le scuole deve essere presente l’insegnamento religioso (della sola religione cattolica), attribuendogli il peso che gli compete, cioè nell’orario delle lezioni e nella valutazione degli alunni. Lo Stato deve avere altresì «cura di mantenere in armonia con esso gli altri insegnamenti e ordinamenti scolastici» e di vigilare che nei programmi e nelle scuole sia evitato qualsiasi cosa possa suonare offesa al sentimento religioso della maggioranza cattolica del popolo italiano [5].

Queste richieste poggiano su ben sei ragioni: 1. senza religione (cattolica) non esiste vera educazione; 2. lo stato è cattolico; 3. tale è la volontà di quasi tutte le famiglie; 4. l’insegnamento religioso consolida l’unità morale del popolo; 5. la religione (cattolica) è parte imprescindibile della storia e della cultura della nazione; 6. «in tali condizioni, l’insegnamento religioso è sostanzialmente libero» (sic!).

Era già allora nota la qualità scadente dell’insegnamento religioso che «non si svolge molte volte con soddisfazione della disciplina e del profitto», ma quest’obiezione cadrebbe, si faceva osservare, se solo lo Stato impiegasse più mezzi per migliorarlo.

Allo Stato toccherà di indire funzioni religiose, partecipando ufficialmente con i più alti gradi di rappresentanza a quelle della chiesa cattolica.

Alcuni altri punti stavano a cuore alle gerarchie ecclesiastiche. Che la parità fra uomo e donna non fosse poi così netta, garantendo all’uomo il ruolo di capo della famiglia. Che la retribuzione delle donne lavoratrici non fosse uguale a quella degli uomini a parità di rendimento, salvaguardando «la missione domestica della donna». Che, insomma, la donna venisse mantenuta in un ruolo subordinato sia dal punto di vista economico-sociale che morale. Ancora. Che alle altre confessioni religiose (all’epoca praticamente i protestanti e gli ebrei) venisse resa la vita difficile mediante un regime loro riservato nettamente sfavorevole per la loro manifestazione pubblica e l’attività di proselitismo. E ancora. Che i titoli nobiliari conferiti dal papa continuassero ad essere riconosciuti dallo Stato italiano e che i beni di casa Savoia non fossero espropriati e incamerati dallo Stato.

Come è evidente, si tratta di un programma, parzialmente fallito, che ambiva non solo a consolidare e ad aumentare il potere clericale, ma anche a mantenere ad un livello di arretratezza la società italiana, negando o limitando gravemente fondamentali diritti civili e sociali.

Quali siano stati i risultati di quest’offensiva vaticana per tentare di clericalizzare le istituzioni e la società italiane è scritto nel testo della Carta costituzionale. Ci sono vittorie clamorose e scontri finiti più o meno alla pari. Piena è la vittoria conseguita con il secondo comma dell’articolo 7 [6], con il quale lo Stato italiano si condannò alla più rigida bilateralità nei rapporti con il Vaticano. Se l’Italia volesse denunciare i Patti Lateranensi avrebbe la sola strada di procedere ad una modifica costituzionale negando il comma stesso. Così com’è, esso pone i Patti in una botte di ferro. Non a caso quello del 1984, che di fatto è un nuovo concordato, fu intitolato come “modifiche” per scongiurare il rischio che qualche giurista avanzasse l’ipotesi che, trattandosi di un nuovo concordato, non avesse più la copertura costituzionale.

L’azione clericale di sfondamento non riuscì nella materia della famiglia e del matrimonio e in quella della scuola. Fu infatti bloccato il tentativo di introdurre in Costituzione l’indissolubilità del matrimonio e l’implicito divieto del divorzio. La formulazione degli articoli relativi, pur aperti a interpretazioni diverse e anche contrastanti, ha costituito la base per l’opera di rinnovamento e di democratizzazione successiva.

Sul tema della libertà religiosa, tema cruciale per la definizione corretta del principio di laicità, il Vaticano nutriva fondamentalmente due intendimenti: che il cattolicesimo non fosse posto sullo stesso piano delle altre confessioni religiose e fosse, al contrario, mantenuta la sua posizione differenziata e privilegiata, così come era venuta fuori nella formulazione dell’articolo 7; che tutte le altre confessioni acattoliche fossero mantenute in una condizione di libertà limitata, così da impedire loro o perlomeno rendere difficoltosa la loro azione di propaganda e di proselitismo.

Da parte vaticana si temeva fortemente che la disciplina dei culti acattolici potesse essere concepita in modo tale da vanificare o ridurre la portata dell’articolo 7, indebolendo il rapporto del tutto preferenziale e diseguale che lì la chiesa cattolica era riuscita a stringere con lo Stato. Il Vaticano perciò raccomandava che si tenessero presenti i principi fissati dalle leggi fasciste in materia di «culti diversi dalla religione cattolica», che sottoponevano a fortissime limitazioni l’esercizio dei culti acattolici[7]. Si temeva che si potesse determinare una situazione che incoraggiasse una interpretazione e/o applicazione restrittiva dell’articolo 7.

La lotta contro le “sette” si muoveva anche sul terreno della libertà di pensiero: si chiedeva infatti che nell’articolo relativo figurasse un «esplicito e chiaro accenno» alla stampa immorale e antireligiosa, che all’occorrenza sarebbe potuto servire per colpire facilmente la stampa anticattolica.

In questo campo il Vaticano è riuscito a conseguire un mezzo successo. Non è infatti riuscito a limitare l’ampiezza dell’articolo 19[8], ma è riuscito a far introdurre nell’articolo 8 l’affermazione: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge». Usando l’espressione «egualmente libere» e non «eguali» si è salvata la possibilità di tenere trattamenti diseguali nei confronti del cattolicesimo da una parte e le altre confessioni dall’altra, il concordato e le intese.

Bisogna onestamente riconoscere che, se il tentativo clericale è riuscito solo in parte, lo si deve anche allo spirito laico che in una certa misura animava i costituenti cattolici, i quali erano preoccupati che una Costituzione troppo squilibrata in senso confessionale avrebbe danneggiato il Paese e lo stesso partito della Democrazia Cristiana, che avrebbe corso il rischio di essere considerata nient’altro che la longa manus della Santa Sede.