La Rai e lo stato laico

Paolo Bonetti
www.italialaica.it

16.03.2012 – Nei decenni dell’egemonia democristiana, la Rai è stata a lungo un monopolio statale, con un’impostazione fortemente cattolica e pedagogica. Non era solo questione di mutandoni neri fatti indossare alle ballerine o di film nei quali l’amante del bandito diventava la moglie del bandito, perché si poteva anche tollerare che spietati pistoleros furoreggiassero sui teleschermi, ma in nessun modo poteva essere ammesso che essi scandalizzassero le anime innocenti dei telespettatori esibendo sfacciatamente relazioni extraconiugali. La moralità prima di tutto ed è notorio che, per certa gente, la moralità ha il suo luogo naturale nelle mutande e di lì non bisogna snidarla. Ma, ripeto, non era solo questione di ridicola pruderie.

La prima classe politica democristiana, quella che proveniva in gran parte dalle file del Partito popolare di don Sturzo messo al bando dal fascismo, riteneva sinceramente che la televisione di Stato, allora unica, dovesse avere una preminente funzione educativa e dovesse cercare di unificare, moralmente e linguisticamente, un paese assai frammentato e uscito da una dittatura ventennale. Bisogna ammettere che, in questa direzione, qualche buon risultato fu conseguito, nonostante il bigottismo e il conformismo di certi programmi e l’emarginazione delle voci politicamente dissidenti. Negli anni Settanta, quando il potere era ormai gestito a mezzadria da democristiani e socialisti, fecero la loro irruzione sulla scena mediatica, le televisioni cosiddette libere, con linguaggi nuovi e temi spregiudicati. Ben presto si trasformarono nell’oligopolio Mediaset e questa trasformazione provocò nuovi perversi intrecci fra politica e informazione televisiva. Inoltre la Rai, per difendersi dalla concorrenza, cominciò ad abbassare la qualità dei suoi programmi, sempre più adeguandosi al modello del facile e spesso volgare intrattenimento che veniva offerto dall’oligopolista privato.

La televisione pubblica finiva col perdere, in questo modo, la ragione stessa della sua esistenza. Il pagamento del canone avrebbe dovuto supplire il minore introito pubblicitario di una programmazione che non si sviliva correndo dietro a modelli di facile consumo. La Rai si pose, invece, sullo stesso terreno dei suoi competitori per fare incetta di pubblicità, pur mantenendo il privilegio di un canone che è stato sempre più percepito dagli utenti, nel corso degli ultimi decenni, come una tassa iniqua la cui evasione finiva coll’essere moralmente giustificata. In realtà, la Rai era costretta a scegliere questa politica commerciale per i costi crescenti di una gestione clientelare sempre più inquinata dall’invadenza dei partiti che se ne servivano come della loro principale cassa di risonanza. Se ai tempi dell’egemonia democristiana agli altri partiti venivano riservate la briciole, adesso i banchettanti erano molto più numerosi e tutti quanti avidi e bisognosi di collocare i loro uomini in posizioni strategicamente utili.

La stessa commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, più che essere un organo di controllo, diventava la camera di compensazione degli interessi dei partiti intenti a spartirsi la Rai come una torta di cui ciascuno vuole avere almeno una fetta, più o meno grande a seconda della forza con cui riesce ad affondare il suo coltello in quella materia molle e invitante. Ad ogni mutamento politico corrispondeva un diverso equilibrio del consiglio di amministrazione e una differente scelta di presidente, direttore generale, direttori di reti e di telegiornali. L’informazione che la televisione di stato era in grado di dare, con questo sistema di gestione, risultava inevitabilmente sempre più parziale ed inquinata, fino alla vicenda grottesca, per la sua esibita e sfacciata partigianeria, del Tg1 diretto da Augusto Minzolini.

Adesso con il governo dei tecnici siamo di nuovo di fronte a un cambiamento del consiglio di amministrazione e di altre cariche. I partiti sono scesi immediatamente sul piede di guerra e, nella riunione di questa notte con Monti, hanno discusso la questione senza concludere nulla. Tutto è stato rinviato a un prossimo incontro, ma dovrebbe essere chiaro che, con l’attuale sistema di governo dell’ente televisivo pubblico, non si uscirà mai dalla palude del clientelismo, della partigianeria e della disinformazione. Forse la scelta migliore sarebbe quella di smembrare la Rai e di privatizzarla, conservando magari un unico canale come servizio pubblico sottratto all’ingerenza dei partiti e senza introiti pubblicitari che possano distorcere il carattere dell’informazione. In questo caso il pagamento del canone potrebbe ancora avere una sua giustificazione.

Ma la funzione di questa Rai sottoposta a una drastica cura dimagrante dovrebbe essere simile a quella della scuola pubblica in uno stato davvero e seriamente laico: fornire a tutti i cittadini informazioni non inquinate da interessi di parte per poter compiere scelte politiche quanto più possibile mature. Come la scuola pubblica deve promuovere un processo educativo che si sviluppi attraverso il libero confronto di tutte le idee, così la televisione pubblica dovrebbe laicamente favorire la formazione della coscienza civica offrendo validi strumenti di orientamento ai cittadini. Nel dire questo, sono consapevole di proporre un modello quanto mai utopico nella situazione italiana. Eppure si tratta dell’unico modello eticamente e politicamente accettabile.