Lo strano governo

Enzo Marzo
Critica liberale , n.195

«Camusso a parte, destra e sinistra sono uguali. Potrei iscrivermi anche io al Pd. Se c’è Renzi, potrei starci anche io, perché no? » Vittorio Feltri, editorialista del “Giornale” di Berlusconi

Molti si accalcano nella piccola diatriba “Monti sì – Monti no”, ovvero sull’ultimo tratto di un percorso complesso che viene da lontano. Dimenticano, e vogliono far dimenticare, che l’Italia è ancora immersa in una catastrofe politica che è pari, se non superiore, alla catastrofe economica. Se riusciremo a uscire dalla crisi, e non è affatto detto, si dovranno fare i conti con l’eredità del berlusconismo, che tuttora pervade il paese e il sistema politico. A un centimetro dal baratro, la soluzione Monti è stata salutata giustamente dal paese tutto come una sorta di miracolo: con Monti-Deus ex machina si è aperta una fase nuova in cui l’Italia potrà riscattare la sua dignità perduta. “Critica liberale” è stata tra gli antemarcia della lotta al berlusconismo: allo scopo, ha ideato organizzazioni di società civile, ha criticato sempre le forze di sinistra e di estrema sinistra che, forse perché non hanno nel loro Dna valori come la libertà e la democrazia, sono state sempre disposte a barattarle al primo inciucio.

Avevamo piena coscienza che il berlusconismo non era riassumibile nell‘opera di un piccolo personaggio sfacciatamente eversivo, ma era causa ed effetto di una metastasi iniziata con la degenerazione del craxismo, con la disgregazione valoriale della sinistra, con le velleità egemoniche dell’anarco-liberismo, con la fine dei partiti politici. Sapevamo che il brodo di coltura di tutto ciò era l’immaturità democratica degli italiani, così propensi ad approfittare del potere, o straniero o marcio, per esprimere in piena libertà il proprio egoismo asociale. Non ci possiamo nascondere che negli ultimi due decenni l’Italia è stata divorata dalla corruzione e ha ampiamente regalato il suffragio a chi ostentava malversazioni, lodava la mafia e giustificava l’evasione fiscale. Quando incessantemente scrivevamo che B. era un corruttore, non ci riferivamo solo alla corruzione specifica di giudici con nome e cognome, o di avvocati con nome e cognome, o di minorenni con nome e cognome, ma soprattutto all’esaltazione senza freni del “farsi il proprio tornaconto” di tutti al di là o contro la legge o, se se ne aveva la possibilità, anche approvandosi una legge personale con dimezzamento della prescrizione, scudi, legittimi impedimenti, condoni, indulti, eccetera.

In Italia sarà difficile restaurare lo Stato di diritto. Non saranno in grado di farlo i partiti perché marci, e purtroppo neppure Monti potrà essere questo restauratore, non perché non abbia la statura o la consapevolezza di cosa si dovrebbe fare, ma semplicemente perché il suo non è il governo della discontinuità.
* * *
Nel 2011 finalmente lo strappo. Gli analisti concordano che la causa principale si debba far risalire alla volontà degli Stati europei. È vero e non è vero nello stesso tempo. Per ragioni precise si tende a far dimenticare che la ragione prima della rovina di Berlusconi è nei suoi eccessi e nella reazione degli italiani. Non dimentichiamo che il voto amministrativo e i successivi referendum hanno detto chiaro e tondo che il paese non ne poteva assolutamente più di un Berlusconi “eccessivo”. Alla lunga, le amicizie con fior di dittatori sanguinari e l’ostentata riduzione di tutta l’azione governativa all’esclusiva cura della difesa personale e dei suoi interessi materiali sono diventate inammissibili e hanno messo in crisi la destra. Dobbiamo ringraziare l’intelligenza politica di Fini che quasi un anno prima – osteggiato persino dagli “ultimi giapponesi” del “Corriere della Sera” – ha avuto l’ardire di sfasciare il Pdl, dando inizio a un’inarrestabile slavina. Ovviamente non ci nascondiamo che tutto ciò è diventato insopportabile anche ai governi di destra europei, che non potevano non individuare nell’Italia l’anello economico più debole (con la Grecia), ma anche, dopo la primavera araba, il pericolo più consistente per il nuovo assetto geopolitico del Mediterraneo. Per mesi siamo vissuti in un stallo pericolosissimo.

Il sistema politico italiano si reggeva su un paradosso: dopo l’uscita dei finiani dalla compagine governativa, la maggioranza politica berlusconiana si era dissolta. In un paese civile B. si sarebbe dovuto dimettere motu proprio. Ma sarebbe stato troppo pretenderlo da un traffichino che ha escogitato invece il rimedio truffaldino per passare da una minoranza politica a una maggioranza numerica comprandosi i deputati necessari. È stato il momento più vergognoso di tutta la storia del Parlamento repubblicano. Ma quanto poteva durare? In una situazione in cui diventava sempre più chiaro e prossimo il fallimento dell’Italia, l’unica via d’uscita stava nella  consapevolezza di settori delle Pdl che la salvezza del paese e soprattutto quella della personale carriera futura passavano attraverso l’abbandono di B. E questo si è puntualmente realizzato, aiutato anche dalla megalomania presuntuosa di B., che ha cercato pervicacemente la conta. Lo strappo è avvenuto l’8 novembre quando, inaspettatamente per il solo B., la maggioranza assoluta non è raggiunta alla Camera. Berlusconi è finito, e se ne rende conto. Adesso quel voto è stato quasi rimosso dalla vulgata che vuole indirizzare l’opinione pubblica. Il “la” lo dà la più berlusconiana degli ex-piccisti, Annunziata, che si affretta a descrivere le dimissioni di Berlusconi come un gesto da vero «uomo di Stato».

Perché si persegue questa rimozione? Perché ricordare il punto di svolta significa illuminare le poco accorte mosse successive del Quirinale, il quale, invece di presentare Monti come il legittimo protagonista di una discontinuità con un regime che aveva perduto la maggioranza, ha perseguito la ricerca di un sostegno parlamentare il più ampio possibile ma anche il più annacquato e il meno discontinuo col passato. Reinserendo il Pdl, nella sua interezza e ufficialità, nel disegno politico futuro, trattando e lodando pubblicamente l’anima nera del vero regime, Gianni Letta (mossa del tutto fuori da ogni etichetta istituzionale), si è resa superflua e quindi si è fermata quell‘emorragia di fuoriusciti che si era aperta poche ore prima e che in caso di un vero governo tecnico di salvezza nazionale sarebbe diventata inarrestabile.

Solo in tal caso la rovina di B. sarebbe stata irreversibile. Sono davanti agli occhi di tutti i danni di questa scelta troppo prudente, che soprattutto in futuro si potrà rivelare assai dannosa. Monti, che aveva l’appoggio di tutta l’opinione pubblica, di tutte le forze produttive e dell’intero pianeta, invece di potersi avvalere in piena liberà dell’art. 92 secondo comma della Costituzione che gli permetteva di scegliersi i ministri, ha dovuto mediare trattando per un governo di coalizione, e si è trovato condizionato, da una parte, da quel mostro innaturale che è il tripartito Alfano-Bersani-Casini, cominciando da quella controfigura di B. che è Alfano, e, dall’altra, da tutte le lobby più forti del paese, cominciando dalla Chiesa cattolica.

Questa partita se l’è giocata con successo Gianni Letta, più rappresentante diretto del Vaticano che portavoce del Cavaliere. Il risultato è stato di immiserire la compagine. Ancora prima che uscissero i nomi dei prescelti, “Critica liberale” sul suo sito descrisse il pericolo che correva il governo Monti. Con nomi e cognomi. Ma invano. A Roma da decenni esiste un “porto delle nebbie” allargato, ovvero un intreccio perverso, cucinato in salsa vaticana, tra magistrati affaristi, generali felloni, funzionari intriganti e buoni per tutte le stagioni, imprenditori di malaffare alla Balducci, che trovò in origine Andreotti il suo referente indiscusso. Ora questa eredità è passata nelle mani di Gianni Letta. I primi danni si sono cominciati a vedere. I casi Malinconico e Patroni Griffi rispondono a quella logica e certo hanno messo del piombo nelle ali di Monti. (Il caso Martone è diverso, lui è soltanto uno dei tanti Trota della Seconda repubblica).

A questo si è aggiunta la maledizione di Palazzo Chigi che evidentemente colpisce inesorabilmente i suoi abitanti e i ministri frequentatori. La malattia si manifesta con una parlantina a ruota libera: ministri e sottosegretari non sanno privarsi di dire una scemenza al giorno su argomenti su cui il
loro parere è irrilevante e non è affatto richiesto. Così, tanto per parlare, e danneggiare il governo. Abbiamo un passato funestato dai Brunetta, Calderoli e Sacconi. Speravamo in una stagione di silenzi laboriosi. Quindi non abbiamo avuto un “governo del presidente”, altrimenti la compagine
governativa avrebbe dovuto segnare la discontinuità col passato e soprattutto avrebbe dovuto rappresentare tutte le componenti politicoculturali del paese. Non abbiamo avuto un “governo tecnico”, perché non c’è mai soluzione tecnica che non sia impregnata di politica. Abbiamo avuto un governo moderato con personaggi non compromessi da una militanza partitica e con una presenza diretta del Vaticano, che per tentare di far dimenticare il suo perenne sostegno interessato a Berlusconi non ha delegato alcun partitino cattolico ma ha messo direttamente i piedi nel piatto. Abbiamo un governo cattolico-conservatore dal punto di vista politico e “rivoluzionario” per le condizioni in cui si trova ad operare.

Nonostante tutte le analisi fin qui condotte, il governo Monti ha dei margini ampi: ancora ha dalla sua l’opinione pubblica e soprattutto l’impossibilità dei partiti di staccare la spina. Monti dovrebbe avere l’intelligenza di cercare sempre l’interlocuzione con l’opinione pubblica, che è la sua sola forza contro tutte le lobby e contro i partiti, anche quelli che fanno finta di sostenerlo. In questo siamo ottimisti. Anzi vorremmo che B. fosse così stupido da tirare la corda. Quanti dei suoi lo seguirebbero per affrontare delle elezioni probabilmente rovinose e ancora sotto l’egida del
Cavaliere? Si potrebbe riaprire quell’emorragia così frettolosamente bloccata.

Il bilancio di queste prime settimane è assai positivo. Soprattutto per il clima che si sta venendo a creare. L’Italia non avrebbe retto neppure poche settimane in attesa di nuove elezioni. Siamo riusciti a fermarci sul ciglio del baratro. Abbiamo riconquistato immediatamente credito politico presso i
partner europei. È tornata una civiltà di modi ormai dimenticata. È persino offensivo paragonare il governo Monti al governo precedente con i suoi Calderoli, Gelmini, Tremonti e mafiosetti vari.
Soprattutto è tornata “la politica”, anche se è un paradosso che sia rinata con un governo che molti ancora si ostinano a definire tecnico. La “politica” impone a tutti di ben esercitare l’arte della distinzione: non si può più colpire all’ingrosso, bisogna analizzare senza prevenzione alcuna, prestare grande attenzione a tutte le novità. Speriamo di trovarci di fronte a una ristrutturazione non più becera della Destra. Speriamo che la Sinistra butti a mare i suoi mediocrissimi leader e i suoi antidiluviani “contenuti”, si faccia qualche viaggio di apprendistato nei paesi anglosassoni per assimilare il pensiero moderno. Vorremmo anche un Monti meno condizionato (anche da se stesso e dalle sue evidenti intenzioni politiche future, come dimostrano alcune sue sortite, altrimenti superflue, come quelle sulle “radici cristiane”), e approfitteremo largamente del suo invito a vigilare e a criticare. Ogni nostra critica tiene conto però con fermezza che grazie a lui siamo già in un paese diverso.

Spingeremo per una sempre maggiore discontinuità, nonostante la triste formula tripartitica di governo, e siamo contenti che in questo “paese nuovo” sempre minore spazio avrà la “consorteria degli antiberlusconiani di professione”, che troppo spesso involontariamente hanno dato e danno una mano proprio al Nemico. Ancora oggi c’è chi vaneggia su elezioni immediate,
dimenticandosi che nel centrosinistra c’è un pantano e non si vede alcun leader in grado di contrapporsi alla Destra. E che le elezioni si svolgerebbero col sistema elettorale Porcata, che ci ridarebbe un Parlamento di nominati e di trasformisti, il che fa comodo a tutti i capipartito meno che ai cittadini. Potrebbe essere Bersani il leader? Dio ci scampi e liberi. Anche il Pd è stato vittima delle ultime amministrative.

Al suo tracollo elettorale si è aggiunta, proprio con la crisi di B., la percezione ancor più netta della futilità, addirittura della irrilevanza, di quel minestrone sciapo che si chiama ancora Pd, con Fioroni che fa l’elogio di Alfano, con Bersani asserragliato nelle Coop e con Franceschini che si sveglia una mattina e rovescia come un calzino la posizione del partito sulla riforma elettorale. L‘assenza pressoché totale di tecnici di riferimento nel governo e l’afasia sui provvedimenti di Monti dimostrano che il peso del Pd è nullo. I vari gruppetti del Pd hanno perduto
un anno a discutere e a dividersi se allargare o no l’auspicata futuribile maggioranza all’Udc, ora si ritrovano a dover sperare che Casini decida lui di imbarcarli benignamente in posizione subalterna. È sempre più chiaro che la rappresentanza di contrappeso alla foga anarco-liberista, che – bisogna
riconoscere – è ben visibile nel governo, è passata direttamente alla Cgil di Camusso.

Il venir meno della coperta berlusconiana lascia scoperto il vuoto assoluto di idee e di classe dirigente alternativa alla Destra: le liste civiche sono una fantasia bizzarra e non risolutrice di nulla, Santoro come al solito si fa gli affari suoi, Grillo difende gli evasori fiscali e tranquillamente si colloca l’estrema destra populista (come mai non ve ne eravate accorti e lo avete ospitato, vezzeggiato e legittimato?), il “Fatto” quando finiranno le udienze hard si troverà lacerato da un Travaglio da sempre destrorso e clericale e un Colombo sempre più emarginato e in difficoltà. E gli anarco-liberisti anche su quelle pagine continueranno a dettare la linea di politica economica e alimenteranno la confusione nella testa della gente di sinistra.

Si è evitata quella che Asor Rosa ha definito una “crisi verticale di sistema”. Basta questo per elogiare i protagonisti della svolta. Ma Asor Rosa – che, non dimentichiamolo, da bravo comunista aveva sollecitato un golpe dei carabinieri, eccede nel caricare, anche se in chiave positiva, il ruolo avuto nell’occasione dal Presidente della Repubblica. È vero che la moral suasion si è trasformata in diktat, ma questo è avvenuto legittimamente dopo un voto alla Camera che dimostrava inequivocabilmente la fine anche numerica della vecchia maggioranza. Senza quel voto Napolitano non avrebbe avuto che armi spuntate. E qui comincia un discorso assai delicato. Napolitano ha sempre fatto quel che poteva, in una situazione inedita e pericolosissima. Ora da lui ci aspettiamo uno sforzo ancora maggiore. Egli deve rendere conto che il suo presenzialismo, l’indicazione quasi quotidiana delle soluzioni politiche ai problemi sul tappeto, l’ostentazione del suo padronato su Monti, corrono il rischio di alterare l’attuale sistema politico e di disegnare un ruolo della presidenza della Repubblica largamente incompatibile con il dettato costituzionale. Un nuovo ruolo che con altri personaggi futuri, o passati non del tutto, può rivelarsi micidiale per la nostra democrazia. Non è un caso che settori del Pdl abbiano ripescato in fretta le loro velleità presidenzialiste e i liberaloidi del “Corriere della Sera” si siano accodati per sollecitare riforme di uguale segno. Si può discutere di tutto, anche di presidenzialismo, ma non si può proporre una riforma anticipandola con la pratica. Altrimenti si legittima il paradosso di Ostellino che in tempi recenti considerava giusto e doveroso l’adeguamento della Costituzione scritta alla Costituzione
materiale, anche se quest’ultima si era formata grazie ad abusi e scivolamenti progressivi. Non ci troviamo da novembre in una democrazia sospesa: la nostra democrazia era compromessa già da prima dai colpi di mano di B., con la Porcata in testa. Ma questa deriva deve finire immediatamente.
Ora si tratta di restaurare la democrazia e lo Stato di diritto. La  personalizzazione della politica ha fatto già danni incalcolabili al paese. Ci manca pure il presidenzialismo per finire di corsa in Sudamerica.
Monti si trova ancora in luna di miele e a suo nome si iscrivono i mutamenti di civiltà politica che abbiamo descritti. Il suo governo si è dimostrato immediatamente efficiente. Alcuni suoi ministri segnano dai loro predecessori una distanza siderale. A Palazzo Chigi e nei Ministeri si è ripreso a mangiare con forchetta e coltello e a non mettersi le dita nel naso. Non è mancata un’alluvione di provvedimenti. Non è questa l’occasione per giudizi specifici, ma siamo contenti che finalmente si sia preso a parlare di cose concrete e delle direttrici ideali che le ispirano. Diamo tutti un po’ di
tempo a Monti, ma il Presidente del Consiglio non deve dimenticare tre condizioni dalla testa assai dura e difficilmente modificabili.
Uno. Il nostro paese affoga nella corruzione, e la corruzione è fattore primario di impoverimento e di mancati investimenti. L’Italia, che nella classifica 2011 si colloca al 69° posto, aggravando ogni anno la sua posizione, si trova messa peggio di paesi come il Ghana, la Slovacchia e il Montenegro. Ma non è necessario consultare i dati forniti da Transparency International, basta leggere i giornali o fare un salto dal macellaio sotto casa. Le amministrazioni locali sono in gran parte in mano a comitati di affari, ci sono sempre meno “politici” e sempre più “politicanti” che sotto il manto di partiti copri-tutto non amministrano ma lucrano.
Mentre la vulgata qualunquista distrae l’opinione pubblica impegnandola su fenomeni quasi inconsistenti dal punto di vista finanziario come lo stipendio dei parlamentari.
Due. In questi anni il divario tra ricchezza e povertà si è fatto enorme. Non serve leggersi le ricerche della Banca d’Italia e dell’Ocse per percepire che i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Comunque se volete sapere i dati, basta ricordare che nel 1980 l’1% più ricco degli italiani guadagnava il 7% del totale, mentre nel 2008 la sua quota è passata al 10%. Non c’è bisogno di applicare la Curva di Lorenz dell’Indice di Gini sulla concentrazione della ricchezza e sulla disuguaglianza dei redditi per capire che ci troviamo di fronte a una carenza intollerabile di
equità. Basti sapere che Vittorio Valletta, presidente della Fiat negli anni ‘50, guadagnava circa 20 volte la media del reddito dei suoi dipendenti, mentre Sergio Marchionne, attuale amministratore delegato, 435 volte. Tra i due c’è anche un’altra differenza: il primo riusciva a vendere le auto agli
italiani e sfornava modelli di successo, il secondo non ne è capace. È il mercato, non il comunismo, bellezza!
Tre. Copiamo alcuni recentissimi dati dell’Istat: il tasso di disoccupazione è dell’8,9%. Tra gli uomini, rispetto al 2009, è cresciuto dell’11%. I disoccupati sono 2,2milioni. Il 31 per cento dei giovani tra i 15 e i 24 anni, in cerca di lavoro, non lo trova. Non parliamo, per carità di patria, né del lavoro nero né del precariato né del Mezzogiorno. Non siamo in grado di giudicare la sensibilità del Presidente Monti nei confronti della giustizia sociale, ma anche qualora fosse scarsa, egli non dovrebbe sottovalutare la regoletta che non si esce dalla crisi economica se non sviluppando la crescita, e la crescita è vuota parola se non si incrementano i salari con conseguente maggiore
domanda dei beni. Con qualche polverone e ingenuità di troppo, finora a questi tre temi rompicapo si sono anteposte alcune misure importanti e molte marginali e un po’ demagogiche. Si sono additati molti nemici di
cartone. Il problema dell’Italia non sta certo nella carenza di taxi o di farmacie. Ci fa sorridere che un liberista serio (e non “selvaggio”, speriamo) abbia debuttato con provvedimenti assai dirigisti nei confronti dello stesso mercato. Chiamando il tutto “liberalizzazioni”. Ma ciò non ci sorprende:
non ci si può separare con un colpo di spada da un passato dove l’oligopolio era il frutto più maturo del “liberalismo” e ogni provvedimento legislativo, anche il più reazionario ed eversivo, era definito “riforma”. Sulle tre questioni citate attendiamo alla prova il governo. Ma quanto sarà libero di agire? Vi sono delle cartine di tornasole che dimostreranno con limpidezza se il ruolo di Monti è assolutamente provvisorio, solo per togliere le castagne dal fuoco a Berlusconi addossandosi la parte più ingrata delle manovre economiche imposte dall’Europa, o se la sua “rivoluzione” è vera e duratura. Sulla regalìa delle frequenze a Mediaset e alla Rai, si sono fatti passi assai positivi, aspettiamo la liquidazione di questa sfacciataggine. Invece abbiamo dubbi sulla capacità di far pagare davvero le tasse agli immobili messi a rendita dal Vaticano e sulla volontà di far cessare lo scandalo di una Rai sempre più marcia e ancora totalmente subalterna ad Arcore. Monti dovrà passare anche sotto le forche caudine della giustizia. Incombente Berlusconi,
non si poteva parlare dei guai della giustizia. Ogni discorso sarebbe stato strumentalizzato a fin di male. Ora si può cominciare a farlo. Assolutamente prioritario è lo smantellamento di quella legislazione di favore per Berlusconi che contestualmente all’impunità di uno assicurava l’impunità dei molti. Ci riferiamo ai danni dell’ex-Cirielli, che dimezzò i tempi della prescrizione, trasformando un istituto che doveva essere garantista in uno spreco enorme di risorse e nello strumento privilegiato per mandare in rovina l’idea stessa di giustizia. Purtroppo il ministro competente non si mostra sensibile a questi argomenti; peccato, perché non sarà qualche farmacia in più che
risolverà la crisi economica, né influenzerà positivamente il giudizio su questo governo.
Rimarrebbe da citare il quarto punto fondamentale: la restaurazione della democrazia. Monti schiva l’argomento, i partiti sono incapaci di affrontarlo, la ghigliottina di B. impedisce anche solo di mettere nell’agenda politica temi come il conflitto di interessi, leggi antitrust, falso in bilancio e chissà forse anche la legge elettorale. Siamo messi proprio male, ma comunque molto
molto meglio di prima, accontentiamoci, per adesso.