Ricordando Enzo Mazzi – La “rivoluzione copernicana” sociale nella Chiesa cattolica

KOINONIA FORUM 300 (20 marzo 2012)
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 22 marzo 2012: presentazione del libro Il processo dell’Isolotto
Saggio introduttivo di Enzo Mazzi. Prefazione di Mario Capanna

Cari amici,
perché questo Forum 300 a ridosso del 299? Semplicemente per dare notizia di un evento in area fiorentina, che però può avere risonanza più ampia ed incidenza particolare sul nostro cammino. Si tratta della presentazione del libro “Il processo dell’Isolotto” a cui partecipa anche Giancarla Codrignani. Prima ancora di sapere di tutto questo, in Koinonia di aprile abbiamo segnalato il libro nell’ambito della Dichiarazione del P.Balducci sulla vicenda Isolotto, così come vi figura un articolo di Giancarla che ripropone nell’oggi le problematiche di allora. Questo per dire che non siamo alla pura rievocazione e ricostruzione di eventi superati, ma abbiamo a che fare con sangue che scorre ancora nelle nostre vene!

Il paragrafo qui riportato del saggio introduttivo di Enzo Mazzi ci fa capire dal vivo come il “processo conciliare” che viene da lontano è ancora in atto ed è messe che attende operai: qualcosa che rischia di venire rimosso come pericoloso, per contentarsi di costruire solo “in positivo” al di fuori di conflitti o di lasciare ad altri la lotta che essi comportano.

Sembra in effetti che la nostra chiesa abbia cercato di disinnescare ogni istanza di “rivoluzione copernicana” per ammantarsi con le varie insegne di novità da essa prodotte: che si sia appropriata di tutti gli aspetti secondari e discutibili delle esperienze innovative (soprattutto nelle modalità celebrative), per riproporsi come blocco di potere di sempre. E’ ciò che genera la strana situazione attuale, per cui ad un neo-trionfalismo interno fa riscontro una zona grigia di rottura o di percorso parallelo alternativo: se c’è “disagio senza conflitto”, infatti, si arriva alla omologazione, o alla estraneità o alla incomunicabilità. Riscoprire il conflitto come processo dialettico vitale non può fare che bene, ma deve trovarci pronti a condurlo e sostenerlo.

Rimanendo per ora al testo riportato di Enzo Mazzi c’è da dire che ci aiuta anche a fare memoria di mons. Oscar Romero il 24 marzo, giorno ufficialmente promosso a “Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei Missionari Martiri” (a proposito di disinnescamento e di omologazione!). Ma come si può vedere, egli valorizza insolitamente anche il ruolo della teologia e dei teologi nella conduzione di questo “processo conciliare” aperto, ciò che forse manca al momento attuale come riflessione innescata nel sensus fidei della totalità dei fedeli o dei credenti di ogni tipo. E’ significativo il fatto che il libro che sarà presentato preveda alcune “Testimonianze di teologi”, che evidenziano una dimensione della vicenda non secondaria rispetto ai pur rilevanti elementi istituzionali e giudiziari.

Motivo ed occasione per continuare a riflettere e comunicare tra di noi e con tutti, per arrivare insieme ad avere “il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16).

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La “rivoluzione copernicana” sociale nella Chiesa cattolica

Enzo Mazzi
da:  Il processo dell’Isolotto
, pp.50-60

Il processo di umanizzazione sociale si è configurato nell’ambito ecclesiale come “rivoluzione copernicana della Chie­sa”. Così ha significativamente definito il Concilio Vaticano II un grande teologo conciliare, Dominique Chenu, in quanto pone al centro non più la gerarchia ma il “Popolo di Dio”.

Il Concilio però non è solo il mitico evento che si è aperto in San Pietro l’11 ottobre 1962. È una grave deformazione storiografi­ca e culturale oltre che una scelta politica reazionaria rinchiudere il Concilio nella scatola dell’Assise conciliare. La rivoluzione coperni­cana del Concilio era già in atto come processo dal basso prima che i vescovi di tutto il mondo fossero convocati da papa Giovanni. E dopo che essi furono congedati da Paolo VI il movimento concilia­re continuò, anzi divenne culturalmente egemone nella chiesa. Chi scrive è fra i tanti testimoni diretti di un tale processo conciliare iniziato ben prima del pontificato di papa Giovanni e proseguito ad oggi, con modalità e visibilità diverse, come un fiume che si modella in base ai territori che incontra.

Nel dopoguerra, mentre dai luoghi del potere proveniva quella ondata antipopolare di contrapposizione e intolleranza che trovò nella scomunica dei comunisti uno dei momenti più drammatici, i luoghi del non-potere divenivano crocicchi di inediti e fecondi incontri, crogioli di esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa. Per capirci meglio, da tante e complesse esperienze, desumiamo alcuni esempi più facilmente decifrabili. Nei campi di concentramento tedeschi, preti francesi si trovarono a condividere una “comunità di destino” con operai comunisti. Scoprirono nelle reciproche diversità valori sia umani sia evangelici che li portarono a uscire dalle rispettive gabbie ideologiche e a tentare sentieri inediti di convergenza. Nacquero così i preti operai, una delle vene del processo conciliare. Un’altra vena, non meno feconda, si apriva nel mantovano, dove don Primo Mazzolari, parroco e scrittore, già durante il fascismo e poi nell’immediato dopoguerra, sperimentava e diffondeva uno spirito di convergenza con i contadini socialisti e comunisti, con gli anticlericali, con i protestanti. “Tromba dello Spirito Santo” lo definì papa Giovanni, il quale si ispirò anche a lui nel suo sogno del Concilio. Infine le esperienze pastorali di parrocchie che si svilupparono già dieci anni prima del Concilio specialmente nelle periferie popolari delle città. In Francia furono definite “parrocchie missionarie” e in Italia furono dispregiativamente chiamate “parrocchie rosse” per il loro ideale e spirito comunitario evangelico e senza confini. A Firenze tali esperienze pastorali erano molte: l’Isolotto, Rifredi, la Casella, la Nave a Rovezzano, il Vingone, Calenzano.

Qui, in questi crogioli periferici di esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa s’innesta il pontificato di papa Giovanni che dopo un primo tempo di attesa recepisce e rilancia un tale articolato movimento di rinnovamento di base.

Ai primi di novembre del 1958, il cardinale Elia Dalla Costa, in quel tempo arcivescovo di Firenze, di ritorno dal Conclave, venne a trovarci all’Isolotto, in una delle visite che ci faceva di frequente in rigoroso incognito. “Abbiamo eletto un papa che vi piacerà” – ci disse con quel risolino ironico e ammiccante che addolciva i tratti austeri e taglienti del suo volto scavato. Poiché conosceva i suoi polli, aggiunse, fra una sorsata di caffè e l’altra: “Abbiate fiducia, aspettate e vedrete”.

Aspettammo, ma sfiduciati. Già i trionfalismi dell’incoronazione ci avevano mal disposti verso questo papa. Presentava sì tratti di bonaria umanità, totalmente assenti dalla figura di Pacelli, ma mostrava, agli occhi di quanti si arrovellavano sulle frontiere del rinnovamento, una cultura tradizionalista e curiale, inadeguata se non contraria ai cambiamenti che si rendevano sempre più urgenti.

Vennero, poi, le mazzate. Nel dicembre 1958, un intervento vaticano vieta all’Università cattolica del S. Cuore di conferire la laurea honoris causa in scienze politiche a Jacques Maritain. Poco dopo, un ordine del Sant’Uffizio blocca la diffusione di Esperienze Pastorali di don Milani, fino a lambire lo stesso cardinale Dalla Costa che aveva concesso il nulla osta alla pubblicazione. Agli inizi del 1959 viene esiliato da Firenze padre Ernesto Balducci. Il 4 aprile dello stesso anno il Sant’Uffizio rinnova, con la dichiarata approvazione del papa, la condanna contro i comunisti, allargandola perfino ai cattolici che con i loro comportamenti “favorivano” il comunismo. Ancora nello stesso anno, il card. Feltin riceve dal card. Pizzardo, segretario del Sant’Uffizio, l’ingiunzione di chiudere definitivamente l’esperienza dei preti operai, creando drammatici casi di coscienza e ferite tutt’ora aperte. Infine Teilhard de Chardin, dopo la morte, viene accusato di eresia e le sue opere sono proibite. Altro che sogni di apertura

Il nuovo papa appariva un ostaggio imbelle della Curia vaticana. Si allontanava sempre più la prospettiva che ci aveva aperta il card. Dalla Costa.

Il clima che si avvertiva negli ambienti dove si stava realizzando la gestazione del rinnovamento era di disorientamento. Ma non di scoraggiamento, perché mille segni ci dicevano che, nonostante il gelo vaticano duro e distruttivo come le nevicate di marzo, la primavera era in piena e inarrestabile fermentazione.

Lontani com’eravamo dalle stanze e dalle trame del potere, a diretto contatto con la gente più umile, immersi in una quotidianità che impegnava tutte le nostre energie intellettuali e materiali, ci sfuggiva il fatto che alcuni di questi segni di germinazione si annidavano nella coscienza e nei gesti minori del nuovo papa. Come l’abbraccio con cui papa Giovanni accolse l’eretico dissidente don Primo Mazzolari, in una pubblica udienza il 6 febbraio 1959, nello stesso momento in cui i vescovi italiani, card. Montini compreso, esigevano una condanna definitiva ed esemplare di Mazzolari e della sua rivista Adesso. Dalla Costa non aveva parlato invano quel giorno di novembre del 1958 e soprattutto egli sapeva quello che faceva quando aveva impegnato tutta la sua credibilità e la sua autorevolezza di papabile per favorire l’elezione di Roncalli. I due, Dalla Costa e Roncalli, non potevano scoprire le loro carte più preziose. Carlo Falconi afferma in una pubblicazione su I papi del ventesimo secolo che “molto prima di diventare il 262° successore di Pietro, Roncalli era già in possesso di tutto l’esplosivo ideologico a cui avrebbe avvicinato la miccia ( … ) soltanto negli ultimi anni della sua vita”. Papa Giovanni attendeva l’ora stabilita dalla Provvidenza, dice Falconi. Ma noi come potevamo saperlo? Come potevamo pensare che un uomo così esplicitamente inviluppato nella tela del ragno potesse covare il colpo d’ala capace di liberarlo e di liberare con lui la Chiesa intera?

La stessa notizia che Giovanni XXIII aveva espresso l’intenzione d’indire un Concilio ci lasciò sulle prime indifferenti. Ritenevamo che un Concilio sarebbe stato egemonizzato dalla solita Curia che l’avrebbe usato come nuova occasione di trionfalismo, per ribadire i luoghi comuni del centralismo vaticano. Stava a dimostrarlo il fallimento del Sinodo Romano, il primo dell’epoca post-tridentina, tenutosi nel gennaio 1960, con gran pompa ma senza alcun segno di apertura al nuovo.

Per concludere, si consolidava sempre più in noi la convinzione che la riforma della Chiesa non poteva in alcun modo venire dal centro o dall’alto. Diveniva sempre più chiaro che l’attuale struttura ecclesiastica, teocratica, centralista, autoritaria, imponente, ricca, alleata con i ricchi e i potenti, era una fortezza-prigione totalmente impenetrabile, capace di annullare ogni buona volontà riformatrice. Il massimo che ci si poteva attendere era una “verniciatura dei sepolcri”.

Del resto noi stessi, nel nostro piccolo, lo sperimentavamo. Il Vangelo era vissuto fuori dalle strutture ecclesiastiche, nei luoghi del non-potere, della insignificanza, della emarginazione, della povertà. E noi, preti e laici, che tentavamo di aprire le nostre parrocchie delle squallide periferie o di sperduti paesi o delle baraccopoli alla creatività dello Spirito, cozzavamo sempre contro muraglie inamovibili. Non era solo questione di uomini. Anzi, in radice non era affatto questione di uomini. Erano sbarre fatte di ruoli, leggi, riti, dogmi, catechismi, concordati, protezioni politiche, patrimoni, consuetudini….

La riforma della Chiesa in senso evangelico poteva venire e veniva di fatto solo dal basso o se si vuole dalla periferia. La comprensione del Vangelo, il catechismo, la liturgia, la spiritualità, i beni materiali, le strutture decisionali, insomma tutta la struttura di vita dell’essere chiesa veniva progressivamente rovesciata. A lenti ma decisivi passi era collocata su un nuovo fondamento: la base, i poveri, gli handicappati, gli abbandonati, gli umili, gli operai e specialmente il mondo femminile. Le realtà nuove che nascevano si chiamavano non di rado, con termine equivoco, “comunità”, e magari “comunità parrocchiali”. Solo più tardi si affaccerà quel nome che ancora non è stato assorbito e travisato dalle istituzioni forti: “comunità di base”, cioè realtà che trovano il proprio fondamento nello Spirito che vive nella base, realtà protese alla sostanziale autonomia dalla struttura della parrocchia, della diocesi, della Curia vaticana.

Insomma eravamo “periferie” che si avviavano coscientemente, sempre più coscientemente, a divenire soggetti storici della ineludibile riforma della Chiesa.

Papa Roncalli che si sentiva inghiottito dalla tela del ragno, quasi un burattino nelle mani dell’onnipotenza curiale, ebbe la genialità di rompere quell’isolamento chiamando in Vaticano il mondo intero. Non che i vescovi fossero tutti esemplari di aderenza alla realtà, anzi molti di loro erano ancora fermi al Medio Evo. Chiamò il mondo intero nel senso che convocando i vescovi, unica possibilità istituzionalmente a lui consentita, intese dare voce e forza a quei processi di crescita umana e cristiana che dal basso, dalle periferie, animavano la storia. Li aveva incontrati nella sua esperienza di diplomatico vaticano in cruciali posti di frontiera: in Bulgaria, a contatto col mondo dell’ortodossia e del comunismo, in Turchia, la porta dell’Islam, nella Francia, “paese di missione” animato dal card. Suhard e inoltre nodo storico della decolonizzazione (Algeria e Vietnam) e infine nell’Italia del modernismo e dell’opposizione all’assolutismo e all’anticomunismo pacelliano.

Egli aveva preso coscienza di quanto la Chiesa intera avesse bisogno di essere fecondata dallo Spirito che soffiava forte nelle periferie e nella base. Intendiamoci, non voglio dire che lui fosse sempre d’accordo con le esperienze innovative che incontrava. Ma avrebbe voluto paternamente indirizzarle, secondo il suo stile di “buon pastore” che vuole “evitare di trasformarsi in organizzatore della vita collettiva”, come ebbe a dire esplicitamente nel discorso dell’incoronazione. Ben presto però si accorse che egli, dal centro, poteva solo reprimere e soffocare. La riforma della Chiesa non poteva partire da lui. Non voleva essere un papa-riformatore. E concepì il Concilio proprio per rompere il centralismo romano, per far tacere i “profeti di sventura” e quindi liberare le esperienze conciliare delle periferie e dare spazio ai “segni dei tempi”.

È emblematico lo scontro durissimo che esplose nell’assise dei vescovi riuniti in San Pietro su alcuni aspetti centrali della riforma conciliare.

Papa Giovanni a un certo punto s’impose sostenendo le istanze rinnovatrici di vescovi come i cardinali Giacomo Lercaro di Bologna, Frings di Colonia, Liènart di Lilla, Alfrink di Utrecht e sconfessando praticamente lo schieramento dei potentissimi vescovi conservatori. Questi erano organizzati dall’arcivescovo Lefebvre in una vera e propria «compagine tradizionalista» all’interno del Concilio, che si dette anche un nome: «Coetus Internationalis Patrum», con in testa il potente cardinale Ottaviani, composta da 250 prelati fra cui l’arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florit, il cui obiettivo conclamato era quello di trasformare il Concilio in un evento di semplice colore senza reali aperture, anzi con la conferma del centralismo vaticano, delle rigidezze dogmatiche e di tutte le condanne. Papa Giovanni glielo impedì dando forza ai vescovi che esprimevano lo spirito di profonda trasformazione che animava le periferie della Chiesa.

Questo era il suo compito: non fare lui stesso la riforma, ma dare spazio al processo di riforma che germinava nella realtà ecclesiale e nei processi di crescita umana e cristiana che animavano la storia. Nell’enciclica Pacem in terris chiamerà tali processi “segni dei tempi” e darà loro precisi connotati: “ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici… ingresso della donna nella vita pubblica … non più popoli dominatori e popoli dominati…”; ancora altri “segni dei tempi”, secondo la Pacem in Terris, l’aprirsi delle coscienze al carattere democratico della vita sociale e politica e all’illiceità ormai della guerra nell’era atomica.

Nei primi anni del suo pontificato Roncalli si rese dunque conto di essere divenuto ostaggio della curia vaticana. Dal centro egli poteva solo reprimere non fecondare. E concepì il Concilio per rompere il centralismo romano e quindi liberare le esperienze conciliari delle periferie. Non mi stanco di ricordarlo anche per contrastare l’ignoranza di questi elementi storici da parte di molta storiografia ufficiale.

È stata una scommessa vincente. “Scommessa”, perché a quel tempo non era affatto scontato l’esito del Concilio, con una Curia vaticana che fece di tutto per ingabbiarlo e ridurlo a folklore; “vincente” perché il processo conciliare contagiò gran parte dei padri convocati in S. Pietro e divenne egemone, in senso culturale, a livello mondiale.

Ma quella “rivoluzione copernicana” della Chiesa, nata nella base e poi fatta propria dal Concilio e dilagante, fu osteggiata da grandi centri mondiali di potere reazionario che vedevano nel rinnovamento conciliare della Chiesa un ostacolo alla loro strategia reazionaria. In particolare in Italia il movimento conciliare fu com-battuto da quell’intreccio perverso, composto da politica collusa, massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia, che temendo il contagio comunista, tentò di bloccare il processo democratico complessivo ricorrendo a tutti i mezzi compreso il terrore

La genesi delle comunità cristiane di base italiane trova costantemente sul suo cammino positivo e creativo la repressione intraecclesiale e insieme il macigno dell’intreccio perverso di cui abbiamo parlato sopra. Le squadre neofasciste al Nord e la mafia al Sud costituiscono la manovalanza di azioni e provocazioni violente analoghe a quelle avvenute nella chiesa dell’Isolotto, di cui parleremo più diffusamente più avanti.

La Chiesa conciliare e specialmente le comunità di base dovevano sparire, in Italia e nel mondo, perché doveva essere annullata l’idea stessa di centralità del “Popolo di Dio”, distrutto l’ideale medesimo di “Chiesa povera e dei poveri”. È per questo che mentre in Italia si crea il terrore attraverso la manovalanza violenta neo-fascista e mafiosa, in America latina le giunte militari massacrano a decine i pastori e i laici impegnati nel creare comunità di base come mons. Oscar Romero, i teologi della liberazione come padre Ignazio Ellacuria e i suoi confratelli dell’Università Centroamericana di San Salvador.

La personalità, il messaggio e l’uccisione di mons. Romero sono ormai note in tutto il mondo. C’è perfino una causa di beatificazione che giace in Vaticano in attesa di tempi opportuni. Tempi che arriveranno, perché il potere ecclesiastico ha fame di santi. La mitizzazione/santificazione di soggetti umani che emergono per il loro eroismo crea nella massa sensi di frustrazione morale di fronte a modelli di santità irraggiungibile, genera in tutti noi sensi di colpa, produce personalità insicure, dipendenti e quindi inclini alla etero-direzione e alla ubbidienza. Ecco il motivo profondo della santificazione ufficiale: favorire il dominio. Noi, le formiche, i comuni mortali, la povera gente del popolo, ci sentiamo insignificanti, bisognosi della protezione del potere, come bambini indotti dalla loro insicurezza a gettarsi nelle braccia della mamma. San Romero d’America servirà a far dimenticare che egli quando era in vita è stato ostacolato, combattuto e ucciso da quegli poteri che poi hanno favorito la sua santificazione. È vero che mons. Romero è stato fatto santo dal popolo di El Salvador e di tutta l’America latina già subito dopo l’uccisione. Anche il popolo ha bisogno di santi. È un bisogno che ha molte motivazioni e che però presenta anche rilevanti contraddizioni. Un potente, uno della casta sacrale, un vescovo che si fa popolo può diventare simbolo della capacità della lotta di liberazione di essere efficace e di penetrare fin dentro i palazzi per sgretolare il sistema del dominio oppressivo. Romero santo può significare il riscatto della santità del popolo. Ma il potere non sta a guardare. E con i suoi riti potenti, che penetrano fin dentro l’intimo delle coscienze, sradica il simbolo del riscatto dalla lotta del popolo, lo eleva sugli altari, ne fa oggetto di culto anziché di ispirazione, lo rende strumento di alienazione.

Meno noti e meno recuperabili per la santificazione sono le centinaia di preti e teologi della liberazione che furono uccisi in America Latina come Romero perché erano a fianco del popolo e ne favorivano la coscientizzazione.

Prendiamo ad esempio i sei teologi dell’Università Centroamericana di San Salvador che furono massacrati il 16 novembre 1989 insieme a due donne inservienti. Erano sacerdoti di origine spagnola da molto tempo impegnati in un lavoro di coscientizzazione della gente. Con loro l’Università cattolica di San Salvador era diventata un centro di analisi, di ricerca e di orientamento pratico a cui si ispiravano le realtà sociali e politiche orientate alla giustizia, al dialogo e alla pace e in particolare le comunità di base di tutto il Centroarnerica. Si deve anche a loro la conversione del vescovo Romero, il quale com’è noto era stato eletto arcivescovo di San Salvador per il suo orientamento tradizionalista, vicino all’Opus Dei, ma poi si era avvicinato alle istanze di liberazione popolari e alla teologia della liberazione espressa appunto dai teologi dell’Università Centroamericana. Essi puntavano però ben oltre l’orizzonte regionale. Il loro impegno era di spingere tutta la Compagnia di Gesù e tutta la Chiesa cattolica, a livello mondiale, a fare la scelta dei poveri. Nel luogo dove furono massacrati, ora c’è un giardino di rose rosse. Ma quella mattina del massacro c’erano solo corpi straziati, deturpati, sfigurati e tanto sangue. In quello stesso periodo con l’esplosione di alcune bombe era stata fatta una strage di sindacalisti salvadoregni. Non è un particolare secondario né un caso.

La teologia della liberazione che essi elaboravano e diffondevano costituisce la versione centroamericana di una teologia incarnata nella storia della liberazione dei poveri, degli sfruttati, degli oppressi. La parola “teologia” può portare fuori strada perché può indurre a pensare a una teorizzazione accademica e dottrinale. In realtà si tratta di una riflessione che parte dalla vita, dalla lotta, dalle esperienze pratiche e a queste sempre riconduce. Si tratta di una teologia che di fondo, non certo direttamente né in tutti i suoi aspetti, ha ispirato papa Giovanni XXIII, ha dato anima al Concilio Vaticano II e poi si è diffusa in tutto il mondo prendendo vari indirizzi e nomi nei diversi contesti culturali. Nelle Filippine l’hanno chiamata teologia della lotta. In altre parti dell’Asia teologia contestuale. In Occidente ha più di una caratterizzazione. C’è ad esempio il grande patrimonio di riflessione teologica legata alla prassi della riappropriazione dal basso del Vangelo e della Tradizione della Chiesa e più in genere della cultura e della storia realizzato dalle comunità cristiane di base. Un altro indirizzo non secondario di teologia della liberazione si può ritrovare nella teologia femminista.

Non è difficile capire quanto la coscientizzazione operata dalla diffusione mondiale di questa teologia incarnata nella storia della liberazione sia stata e sia invisa ai poteri del dominio mondiale. Se la croce avesse cessato di essere strumento, e quale potente strumento, di rassegnazione e di sottomissione, la rivoluzione sarebbe diventata invincibile. Bisognava evitare in ogni modo il cortocircuito, da tempo annunciato ma dopo la guerra divenuto incombente, fra Vangelo e idealità e motivazioni laiche della rivoluzione socialista. Il massacro dei teologi della liberazione della Università centroamericana è solo un episodio di una repressione generalizzata che in tutto il mondo si è servita di ogni mezzo, compresa appunto la strage, per chiudere la bocca ai profeti. Il sistema di dominio mondiale che si era costituito dopo la guerra aveva bisogno per sopravvivere di reprimere la coscientizzazione e di togliere di mezzo l’idea contagiosa che il Vangelo possa essere uno strumento nelle mani del popolo per la liberazione storica e non solo per la salvezza trascendente dell’anima. C’è stato un momento in cui nei paesi dell’America Latina dominati da feroci dittature, come ad esempio in Salvador, Guatemala, Uruguay, era passibile di arresto o di sparizione chi veniva trovato in possesso della Bibbia, specialmente della “Biblia latino-americana”, la cui traduzione era considerata sovversiva. Tanto che monsignor Oscar Romero poco prima di morire aveva consigliato ai catechisti e cristiani delle comunità di base di sotterrare la Bibbia.

Il sangue dei cristiani delle comunità di base, dei teologi e dei pastori della liberazione è dunque confluito nel fiume di sangue versato nell’ultimo mezzo secolo per impedire la emersione delle classi popolari. E il sangue versato è stato solo l’aspetto più eclatante e ripugnante di una repressione che non ha risparmiato niente e nessuno. Perfino il cardinale Roncalli, prima di diventare papa, fu inquisito ed esplicitamente criticato dal Vaticano per sospetto filo comunismo, quando come patriarca di Venezia mandò gli auguri al Congresso del Partito socialista italiano. Una volta eletto papa non volle distruggere il suo dossier. “Certe sofferenze – disse al segretario mons. Loris Capovilla – devono essere risparmiate ai servitori della Chiesa ed è giusto che vengano ricordate affinché certi errori non si ripetano”.