Così non si combatte la piaga del precariato

Luciano Gallino
Repubblica, 25 marzo 2012

Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale. Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le “Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali” o le modifiche annunciate dell’art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com’è fatto dentro.

Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata – in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre – perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all’altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli anni l’hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri.

Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po’ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un’impresa a valle, in altri Paesi. Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l’imperativo di ciascuna è diventato “assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce.”

Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c’è un’impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall’alto l’ordine di chiudere.

A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l’insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l’aiuto del legislatore dell’ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l’insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un’impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno.

A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l’intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l’utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell’aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell’articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo.

Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n’era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l’aumento dell’1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile. Dall’altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un’idea di come funziona un’impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l’eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.

Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v’è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.

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Dentro la riforma Fornero

Renato Fioretti

Con la nuova disciplina sui licenziamenti corriamo il rischio di assistere a una lenta, costante e inesauribile diaspora di lavoratori anziani. In compenso nulla è stato fatto né per “bonificare” o, almeno, drasticamente ridurre le tante (troppe) tipologie contrattuali “atipiche” attualmente disponibili, né per favorire il reale allargamento della platea di chi usufruisce degli ammortizzatori sociali.

Sono sempre stato convinto che un governo potesse legittimamente definirsi “tecnico” solo fino all’atto del giuramento dei suoi componenti e che – a partire dal discorso programmatico del premier – operasse esclusivamente opzioni di carattere “politico”. Le scelte operate dall’esecutivo Monti hanno rafforzato questo convincimento.

In effetti, il carattere tecnico del governo in carica ha rappresentato – a mio avviso – nient’altro che un espediente retorico attraverso il quale le forze politiche, nessuna esclusa, potessero continuare a esercitare il proprio ruolo protette da una sorta di “cortina fumogena” entro la quale operare senza preoccuparsi troppo della coerenza e del rispetto degli impegni assunti nei confronti degli elettori.

Questo vale, in particolare, per il maggior partito di opposizione. Per quel Pd che, solo fino a pochi mesi or sono, affermava di assegnare al lavoro – e ai lavoratori, ovviamente – la “centralità” della propria funzione politica. Quello stesso partito che rispetto ai “colloqui” (non “negoziato”, perché, in effetti, non si è trattato del classico “confronto tra le parti”) intercorsi tra Monti/Fornero e Cgil Cisl e Uil – sul sostanziale superamento delle garanzie previste dall’art. 18 dello Statuto – si era limitato a richiamare la Cgil a un maggiore senso di responsabilità. Che solo dopo la “gaffe” di Monti di ritenere scaduto il tempo a disposizione delle parti sociali e la “dichiarazione di guerra” della Camusso, si è reso conto di non avere, in sostanza, frapposto alcuna posizione politica “di parte” al plateale “decisionismo” del Premier.

Troppo importante, evidentemente, risultava (per il Pd) lo scongiurare una traumatica – e, questa volta, forse definitiva – spaccatura tra coloro che ancora non hanno completamente rinnegato le (ormai lontane) origini di sinistra e quanti, invece, condividono perfettamente le scelte (politiche, non tecniche) operate da Monti. A partire dai provvedimenti di natura previdenziale che, tra l’altro, oltre che peggiorare le condizioni di centinaia di migliaia di lavoratori già prossimi al pensionamento, hanno – oggettivamente – posto le premesse per vanificare qualunque provvedimento volto a favorire l’aumento dell’occupazione giovanile. A meno che l’auspicata “soluzione finale” non risulti essere rappresentata proprio dalle inevitabili conseguenze del superamento dei vincoli ai licenziamenti senza “giusta causa”.

In estrema e brutale sintesi: alla maggiore facilità di licenziamento dei lavoratori anziani e/o, per tanti versi, “scomodi” – portatori di handicap, sindacalizzati (Cgil), soggetti con ridotte capacità lavorative, donne in gravidanza, ecc – corrisponderà, prevedibilmente, un aumento considerevole dell’occupazione giovanile; sia pure caratterizzata da un invariato – o, addirittura, maggiore – livello di precarietà. Questo, naturalmente, non avverrà immediatamente perché – salvo variazioni sempre possibili – i licenziamenti individuali “plurimi”, per motivi economici, non potranno interessare più di quattro lavoratori nell’arco i 120 giorni. Infatti, qualora il provvedimento dovesse coinvolgere almeno cinque lavoratori – nello stesso arco di tempo – si tratterebbe di licenziamenti di tipo collettivo per i quali, nelle aziende con un organico superiore alle quindici unità, è, inevitabilmente, previsto un confronto sindacale di merito; sin dall’inizio della procedura.

Ciò nonostante, resto (pessimisticamente) convinto che si correrà il concreto rischio di assistere a una lenta, costante e inesauribile diaspora di lavoratori anziani. A vantaggio (?) di giovani – o, anche, meno giovani – che avranno il grande pregio di garantire (almeno) due condizioni d‘ineguagliabile valore: una consistente riduzione del costo del lavoro e, contemporaneamente – come amano, molto efficacemente, rappresentare la situazione coloro che vivono all’ombra del Vesuvio – lavorare “con due piedi in una scarpa”. A meno che i datori di lavoro non preferiscano continuare ad attingere da quel grande “supermarket delle tipologie contrattuali” rappresentato – nonostante il previsto “maquillage” – dal decreto legislativo 276/03 e ricorrere a una delle tante forme di lavoro atipico ancora disponibili.

Tra l’altro, rispetto alle possibili modifiche che la Fornero si appresterebbe ad apportare al contratto a termine e al lavoro a progetto, ritengo opportuno esprimere una serie di perplessità.
Prima di tutto, però, è doveroso evidenziare che la titolare del dicastero che fu di Gino Giugni(!) ha anche affermato di aver evitato di “disboscare” le (troppe) forme di avviamento al lavoro preferendo ricorrere – per alcune di esse – a una più puntuale regolamentazione, “Al fine di evitarne gli abusi”. Evidentemente Ella spera (il mio timore è che ci creda davvero) che sia sufficiente prevedere la stesura di un progetto non più coincidente con l’oggetto sociale delle imprese per evitare qualsiasi tipo di abuso.

Per quanto attiene le “partite Iva”, credo sia pura illusione immaginare di porre un freno alla loro ingiustificata proliferazione (semplicemente) attraverso meccanismi di durata e di ordine economico. Qualunque operatore, di qualsiasi “Ufficio vertenze sindacali”, anche di Cisl e Uil, sarebbe in grado di indicare alla Fornero almeno un paio di soluzioni per eludere misure di quel genere; senza neanche la necessità di ricorrere ai più classici e collaudati “escamotage”.

Anche la soluzione dell’aumento dell’aliquota contributiva per gli iscritti alla gestione separata dell’Inps (fino a raggiungere, nel 2018, quella attualmente applicata ai lavoratori subordinati), così come quella del maggiore costo del lavoro a termine, che dovrebbero fungere da “deterrente” nei confronti di quei datori di lavoro che – secondo la Fornero – ricorrono al lavoro atipico perché meno costoso, dimostrano, purtroppo, una sconcertante semplificazione e sottovalutazione dei problemi reali. E’, invece, sin troppo evidente che, fino a quando si considererà il ricorso alle tipologie contrattuali “atipiche” un mezzo teso esclusivamente a risparmiare sul costo del lavoro, piuttosto che uno strumento – del tutto legale, peraltro – per non garantire ferie, malattia, maternità, diritti sindacali, garanzie occupazionali e quanto altro, non ci si porrà concretamente nella condizione ottimale per contrastare la dilagante precarietà.

Così come, a mio parere, Ella s’illude che allungare l’intervallo tra la stesura di un contratto a termine e l’altro (con lo stesso soggetto) sia sufficiente a evitare che centinaia di migliaia di lavoratori – non solo giovani – continuino a essere “tra color che son sospesi”. Evidentemente, alla Fornero sfugge che la vigente normativa consente ai datori di lavoro di reiterare il ricorso al tempo determinato – non necessariamente con gli stessi soggetti – grazie a “causali” di tipo general-generiche. All’uopo, è paradossale che la c.d. “riforma” abbia previsto che, per la stesura del primo contratto a termine, non sarà più obbligatoria l’indicazione di alcuna “causale”. Si tratta di un’evidente forzatura, che manifesta, per altro, la volontà del definitivo superamento di quella che dovrebbe essere considerata una “condicio sine qua non” per la stesura di un contratto a tempo determinato.

Tra l’altro, per quanto attiene l’aumento del costo del lavoro a termine, delle due, l’una: o la Fornero ritiene opportuno contrastare e limitare gli abusi nel ricorso a tale tipologia contrattuale – pur operato nel rispetto della vigente normativa – oppure, da “riformista”, eviti (demagogicamente) di penalizzare inutilmente le aziende. Sono, infatti, convinto che il lavoro a termine, oggettivamente motivato da esigenze aziendali a carattere temporaneo e/o straordinario e non semplicemente dettato dalla volontà datoriale di mantenere i lavoratori in un’ingiustificata condizione di “surplasse”, debba essere consentito; evitando le possibili degenerazioni e senza imporre alcun aggravio di carattere economico. Purtroppo, quando Monti: “Eviteremo gli abusi nella gestione dei licenziamenti per motivi economici” e la Fornero: ”Modificare l’art. 18 non ci sembra sia calpestare i diritti”, dimostrano di avere seri problemi di “connessione” con la realtà del mercato del lavoro italiano, è lecito nutrire i più pessimistici dubbi.

In questo contesto, se le rassicurazioni Monti/Fornero appaiono infondate, oltre che inconsistenti e quasi patetiche, tanto più inopportune e irrituali risultano le “esternazioni” di Napolitano – “Non credo che stiamo aprendo le porte a una valanga di licenziamenti facili sulla base dell’art. 18” – quando opera una palese forzatura nei confronti del Pd e della Cgil.
La (sgradevole) sensazione è di ritrovarsi “al di fuori della realtà”: con interlocutori di un Paese nel quale non esistano né evasione fiscale né contributiva, senza lavoratori “a nero” o “grigi”, ove sia assolutamente sconosciuta la famigerata pratica delle c.d. “dimissioni in bianco”, nel quale la busta paga di un lavoratore rappresenti sempre quanto realmente percepito e, soprattutto, una società nella quale – a partire dai politici – siano scoraggiati e adeguatamente perseguiti tutti quei comportamenti tesi a “evadere”, “eludere” o, più semplicemente, a operare da “furbetti”!

Invece, per quanto riguarda l’apprendistato, è appena il caso di evidenziare che i c. d. “tecnici”, nell’esaltarne le (future) proprietà – quale canale privilegiato di avviamento al lavoro – dimenticano un particolare non irrilevante: che si tratta di uno strumento riservato a coloro che hanno un’età massima di 29 anni. Considerate le classi di età nelle quali rientrano i lavoratori “precari”: il 30,3 per cento ha tra i 25 e i 34 anni, il 27,2 tra i 35 e i 44 e il restante 24,9 per cento è rappresentato dagli ultra quarantaquattrenni, è sin troppo evidente che assegnare alla riforma in oggetto anche il compito di combattere e ridurre la precarietà, appare velleitario e, direi, demagogico.

Inoltre, per tornare all’art. 18, rispetto al paventato rischio che la possibilità di “monetizzare” la risoluzione del rapporto di lavoro – senza più preoccuparsi della sussistenza di una “giusta causa” – finisca per realizzare una vera e propria “macelleria sociale”, è opportuno rilevare che lo stesso governo ne appare indirettamente consapevole. Non a caso, è stata prevista l’istituzione di un “Fondo per lavoratori anziani” che avrebbe il compito di fornire un sussidio su base assicurativa.
A questo riguardo, ritengo che, purtroppo, saranno sufficienti appena pochi mesi per prendere atto dell’enorme e dirompente impatto che la liberalizzazione del licenziamento di tipo economico produrrà nei confronti di centinaia di migliaia di lavoratori che, già penalizzati in termini d’innalzamento dell’età pensionabile, oggi sono in cassa integrazione ordinaria, straordinaria o in deroga. Eppure, nonostante le perplessità che dovrebbero (sempre e legittimamente) accompagnare provvedimenti di questa natura, sono stupefacenti la superficialità e il pressapochismo con i quali taluni commentatori hanno inteso sbilanciarsi nel tessere le lodi del “Monti e Fornero pensiero”.

In questo senso, Maurizio Ferrera – attraverso le pagine di un noto quotidiano nazionale – plaudeva alla riscrittura dell’art. 18 perché “I giovani si meritano, finalmente, una riforma che apra loro prospettive di buona occupazione, in condizioni di uguale trattamento e pari opportunità”.
Personalmente sono sicuro che di una cosa il Ferrera potrà – da qui a pochi mesi – realisticamente rallegrarsi: ai giovani che vinceranno la lotteria di un’occupazione – in ossequio alle condizioni di eguale trattamento e pari opportunità – sarà, prima o poi, riservato lo stesso trattamento cui saranno presto sottoposti centinaia di migliaia di lavoratori anziani. Il loro rapporto di lavoro potrà essere risolto, in qualsiasi momento, per non meglio precisati “motivi economici”, anche se non in presenza di una “giusta causa”. Indubbiamente, un gran bel successo!

Al riguardo, mi piace anche riportare il contenuto di una “Lettera al Direttore” – dello stesso quotidiano – scritta da due ex ministri del lavoro del centrodestra. Nella missiva, Sacconi e Maroni, dopo aver ancora una volta colto l’occasione per (impunemente) accusare la Cgil di aver organizzato, nel 2002, una “mobilitazione di piazza” – si trattò, piuttosto, di uno sciopero generale (cui aderirono circa tre milioni di cittadini italiani) che sarebbe stato impossibile revocare dopo tre giorni dal criminale episodio – “anche successivamente all’assassinio di Marco Biagi”, tornano a decantare le taumaturgiche virtù di un altro provvedimento di riforma del mercato del lavoro. Quel decreto legislativo 276/03, ancora considerato “Il padre di tutti i decreti” dei governi Berlusconi. Ebbene, nonostante gli anni trascorsi, contando – evidentemente – sui “vuoti di memoria” degli italiani, entrambi gli ex ministri sostengono che “da allora e fino ai tempi della grande crisi si generarono oltre un milione e mezzo di posti di lavoro”. Niente di più falso e mistificatorio!

E’, infatti, opportuno rilevare che l’ormai fantomatico e famigerato “milione e mezzo di occupati in più”, generato dall’inizio della “Nuova era” berlusconiana (2001) e dall’applicazione del decreto 276/03 – che il centrodestra ha sempre (erroneamente e strumentalmente) richiamato quale “Legge Biagi” – già rappresentava, negli ultimi mesi del 2005, una palese opera di “millantato credito”.
All’uopo, è sufficiente evidenziare che, secondo le “Rilevazioni sulle forze di lavoro” dell’Istat, all’atto del sostanziale avvio del Berlusconi II – terzo trimestre del 2001 – gli occupati in Italia erano pari a 21 milioni e 798 mila. Mentre all’epoca del terzo trimestre del 2005 – all’apice della perseverante e sistematica opera di “pubblicità ingannevole” – gli stessi erano pari a 22 milioni e 542 mila.
Si era, quindi, realizzata una crescita degli occupati pari a 744 mila unità; altro che un milione e mezzo! Senza contare che, secondo i dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica, “Con la legge 189/02, per l’emersione del lavoro irregolare prestato da cittadini extracomunitari presso le famiglie, è stata sanata la posizione di 316 mila 489 immigrati; mentre con la legge 222/02 le imprese hanno ufficializzato la presenza di 330 mila 340 immigrati che lavoravano a nero”.

Ho richiamato quello che, all’epoca, definii “Il grande bluff sull’occupazione”, perché anche nella discussione sul superamento – altro che “manutenzione” – dell’art. 18 si sono sprecate le enfatizzazioni nel sostenere che tutte le energie del duo Monti/Fornero si sarebbero concentrate verso un unico e irrinunciabile obiettivo: abbattere la condizione di “apartheid” vissuta dai giovani nei confronti dei lavoratori “garantiti”.
Ci si ritrova, in sostanza, nella stessa condizione del 2003, post legge 30 che, al pari dell’attuale riforma avrebbe dovuto rappresentare il toccasana di tutti i mali che affliggevano – e continuano a caratterizzare – l’asfittico mercato del lavoro italiano.

Il tempo, come rilevato, ha smascherato il fallimento di quel tipo di politica fondata sull’equazione flessibilità/precarietà = aumento dell’occupazione. Ebbene, ciò nonostante, Monti/Ferrero esprimono ora il convincimento secondo il quale i problemi del lavoro e della mancata competitività del sistema produttivo italiano siano dettati dalla mancanza di “flessibilità in uscita”.
Ma, come sinteticamente e brillantemente illustrato da Chiara Saraceno, attraverso un articolo pubblicato dalla Repubblica: “I modelli danesi e tedesco” – spesso citati dalla ministra che (sicuramente) ricorderemo in virtù dell’infelice battuta sulla “paccata di miliardi” – sono dinamici “perché sono dinamiche le aziende. Non è così in Italia, nonostante ormai da diversi anni il mercato del lavoro sia diventato tra i più flessibili, anche per i cosiddetti garantiti.

La scarsa competitività italiana, da cui deriva anche l’alto tasso di disoccupazione, ha a che fare non con la mancanza di flessibilità in uscita, ma con la scarsa capacità d’innovazione delle aziende, il basso investimento in capitale umano e in ricerca e innovazione. E se le aziende straniere non investono volentieri in Italia, non è certo per timore dell’articolo 18, ma perché temono la macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, per altro incapace di proteggere da fenomeni di corruzione, quando non vi è coinvolta essa stessa”. Anche un “grande saggio” del sindacalismo confederale italiano, un personaggio, che per essere stato il massimo responsabile nazionale della Cisl – all’epoca di Lama e Benvenuto – non può certamente essere considerato un pericoloso “bolscevico”, ha ritenuto opportuno evidenziare che l’intervento Monti /Fornero sull’art. 18 rappresentava esclusivamente una mossa politica per rassicurare i partner europei; soprattutto perché ostacolata dalla sola Cgil.

In questo contesto, a mio avviso, il convincimento espresso da Napolitano: “Non credo che stiamo aprendo le porte ad una valanga di licenziamenti facili sulla base dell’art. 18”, rappresenta una forzatura nei confronti della Cgil e, in particolare, del Partito democratico. Il che, eufemisticamente parlando, appare per lo meno azzardato e, purtroppo, come già avvenuto in altre occasioni, inopportuno.

Una menzione a parte meritano Bonanni e Angeletti. Personalmente, ho trovato patetico il loro “dietrofront” rispetto ai contenuti dell’operazione Monti/Fornero; anche se comprendo quanto imbarazzo abbiano prodotto loro il ripensamento – inatteso e tardivo – del Pd e, soprattutto, la posizione assunta dai vertici della Chiesa cattolica. In effetti, tanto il segretario della Cisl, quanto quello della Uil, in un primo momento avevano sostenuto che l’accordo sull’art. 18 era da considerare praticamente fatto. Solo successivamente alle vibrate proteste della Cgil e al “ripensamento” del Pd – o, almeno, della maggioranza dello stesso – hanno dovuto prendere atto che il sostanziale “placet” di Bersani era venuto meno e sono stati costretti a un’involontaria ma repentina e clamorosa “retromarcia”. Tanto che oggi – anche sulla scorta delle immediate proteste di tantissimi dei loro iscritti – concordano sul fatto che la norma concernente i licenziamenti economici debba essere modificata. Si tratta, evidentemente, della più classica delle incoerenze, nella quale, oggettivamente, è molto difficile riuscire a individuare i caratteri di un sindacalismo serio, autonomo e a carattere confederale.

In sintesi, a dimostrazione del fatto che su questa vicenda avremmo potuto risparmiarci: a) il pianto “ex ante” della Fornero, b) le insulse dichiarazioni di molti “tecnici” e “esperti”, c) le “inopportune” pressioni del Capo dello Stato, d) le “pirolette” di Bonanni e Angeletti, e) le titubanze del Pd e le inverosimili rassicurazioni del Premier, è sufficiente riportare quanto dichiarato dal neopresidente di Confindustria, Squinzi. “In linea generale non credo sia l’art. 18 a bloccare lo sviluppo del Paese”. Il che, detto dal massimo rappresentate degli industriali, dovrebbe (almeno) far arrossire e invitare al silenzio quanti continuano ad addebitare all’art. 18 dello Statuto anche il “nanismo” delle imprese italiane.

Resta, però, un dubbio. Quello di essere rimasti tutti coinvolti in una grandiosa e abile rappresentazione teatrale, nella quale le comparse sono costrette a recitare “a soggetto” – rispetto all’uno o l’altro capitolo – senza rendersi conto che intanto i protagonisti – modestamente acconciatisi sotto vesti da “tecnici” – sono impegnati ancora a tessere la vera trama.
Dico questo perché ho la sensazione di avere, come un po’ tutti, guardato “più al dito che non alla luna”. Nel senso che la “riforma” del lavoro annunciata da Monti ha finito per coinvolgere tutti in una (pur giusta) discussione rispetto al valore, simbolico e pratico, dell’art. 18 dello Statuto.
La conseguenza, però, è che si sono colpevolmente sottovalutati altri aspetti del provvedimento che rivestono, invece, notevole importanza.

Giusto per elencare qualche capitolo cui, a mio avviso, avremmo dovuto rivolgere maggiori attenzioni, mi limito a segnalare che Monti/Fornero hanno assestato alcuni micidiali “uppercut” a una serie di altre norme in materia di lavoro. Prime tra tutte, a quelle che, attraverso la legge 223/91, regolano la durata dell’indennità di mobilità, l’ammontare dell’assegno complessivamente corrisposto ai lavoratori e la (non trascurabile) condizione di favore prevista per i lavoratori meridionali. Contemporaneamente e contrariamente a quanto sostenuto dalla Fornero, nelle prime (lacrimevoli) interviste da ministra, nulla è stato fatto né per “bonificare” o, almeno, drasticamente ridurre le tante (troppe) tipologie contrattuali “atipiche” attualmente disponibili, né per favorire il reale allargamento della platea dei soggetti cui riconoscere un adeguato sostegno al reddito in caso d’inoccupazione temporanea.