L’assalto al tempo indeterminato e i professionisti del ‘divide et impera’

Maria Mantello
www.micromega.net

Se non ci fosse la carta intestata, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la “riforma” del lavoro dell’attuale Governo potrebbe essere attribuita alle organizzazioni padronali. Tanto essa sembrerebbe funzionale al compimento del rito sacrificale al dio mercato del contratto a tempo indeterminato. Già minato da 20 anni nel riduzionismo mercatista dei lavoratori assimilati a polli di batteria finanche nelle sigle contrattuali: dai co-co-co ai co-co-pro, avrà il colpo di grazia con l’affossamento dell’art. 18.

Cassato infatti il baluardo del giustificato motivo per licenziare, e senza il deterrente del reintegro stabilito dal giudice quando questo mancasse, nel tritacarne del riassetto organizzativo aziendale potranno finire tutti i lavoratori stabili, ovvero quelli con contratto a tempo indeterminato, che finalmente entreranno nella grande famiglia della strutturale precarietà.

Del resto tutta la “riforma” dei prof. Fornero-Monti è l’elogio della flessibilità. Al massimo pensa a «rendere premiante l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili». Dove quel più fa la differenza tra ciò che è stabile e basta, e ciò che rende meno precaria la condizione di instabilità. Avanti tutta, quindi, con i contratti a termine con supporto premio di una governativa “paccata” di sgravi-spese. Insomma, lode alle aziende che rendono stabile la precarietà nella sua continuità!

Eppure il contratto a tempo indeterminato è l’unico che garantisce la serenità di un progetto di vita, perché la stabilità del lavoro – costituzionalmente garantita – rende liberi dal bisogno e dal ricatto della precarietà.

Ma questa concezione del lavoro bene comune, deve recedere di fronte agli interessi padronali, che vogliono mano libera sui licenziamenti.

Il senso del furioso inflessibile attacco all’articolo 18 in nome della sistemica flessibilità dei lavoratori è allora una resa di conti per eliminare la garanzia della stabilità del lavoro, anche nel passaggio a mansioni e lavori diversi, entro le tutele del contratto a tempo indeterminato.

E per occultare questa mostruosità c’è chi opportunamente pesca nello stagno del divide et impera cercando di mettere gli uni contro gli altri lavoratori privati e lavoratori statali.

Così per l’occasione eccellenti mestatori di casta, in proprio o per conto terzi, vanno ripetendo che lo Statuto dei lavoratori e quindi anche l’articolo 18 non si applicherebbe al pubblico impiego.

Solo per chiarezza, allora vale appena ricordare che il Decreto legislativo n°165 del 30 marzo 2001, al comma 2 dell’articolo 51 prevede: «La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti».

Non solo! Ma forse a qualcuno sfugge che l’indennizzo di benservito nel pubblico è stato già subdolamente introdotto dalla legge 183/2011 che all’art. 16 stabilisce che i lavoratori eccedenti quando permanga l’indisponibilità a ricollocarli, possono aspirare all’80% della retribuzione ordinaria per un massimo di 24 mensilità: «le pubbliche amministrazioni che hanno situazioni di soprannumero o rilevino comunque eccedenze di personale, in relazione alle esigenze funzionali o alla situazione finanziaria, anche in sede di ricognizione annuale … sono tenute ad osservare le procedure previste dal presente articolo dandone immediata comunicazione al dipartimento della Funzione pubblica … Dalla data di collocamento in disponibilità restano sospese tutte le obbligazioni inerenti al rapporto di lavoro e il lavoratore ha diritto ad un’indennità pari all’80 per cento dello stipendio e dell’indennità integrativa speciale, con esclusione di qualsiasi altro emolumento retributivo comunque denominato, per la durata massima di ventiquattro mesi».

Una volta si diceva a buon intenditor poche parole, adesso fiumi di parole, servono a camuffare, confondere, colpevolizzare… La plutocrazia perde il pelo ma non il vizio!

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Bregantini: lavoratori, non merci

Redazione
www.famigliacristiana.it, 23 maggio 2012

Monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Bojano e presidente della Commissione Lavoro, giustizia e pace della Conferenza episcopale italiana, docente di Storia della Chiesa con una lunga esperienza di operaio in fabbrica negli anni della giovinezza, continua a porsi una domanda. “Con questa riforma la precarietà sarà vinta? O resteremo comunque in un clima di precarietà? O addirittura l’aumenteremo?”

E ha trovato la risposta, monsignor Bregantini?
“Non entro tanto nel merito tecnico. Ma sulla questione in atto mi permetto di fare tre rilievi critici. Il primo è il dispiacere che provo nel vedere la Cgil lasciata fuori da questa riforma. Un fatto che viene quasi dato come scontato, quasi che il primo sindacato italiano per numero di iscritti non sia una cosa preziosa per una riforma del lavoro. Dietro questa fetta di sindacato c’è tutto un mondo importante, cruciale, da coinvolgere per camminare verso il futuro. Altrimenti c’è il rischio che questa parte sociale, con i suoi milioni di iscritti, resti disillusa, arrabbiata, ripiegata su atteggiamenti difensivi, su un passato che non c’è più. Lasciare fuori la Cgil sarebbe una perdita di speranza notevole, un grave errore”.

Il secondo rilievo?
“Ci voleva un po’ più di tempo per mettere in atto una riforma così importante. Non era necessaria questa fretta così evidente. La questione è chiusa, è stato detto da parte del premier Mario Monti. Si poteva dire: la questione è posta, ora dialoghiamo, nelle fabbriche, negli uffici, in Parlamento, nella società civile, ovunque perché il lavoro è il tema cruciale del nostro Paese. Ma c’è un terzo rilievo, forse il più importante e profondo”

E quale?
“Bisogna chiedersi, davanti alla questione dei licenziamenti, chiamati elegantemente, con un eufemismo, “flessibilità in uscita”, se il lavoratore è persona o merce. E’ la grande istanza dell’enciclica sociale Rerum Novarum. La questione di fondo. Il lavoratore non è una merce. Non lo si può trattare come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto in magazzino. Leone XIII lo scrisse nella pietra miliare del cattolicesimo sociale, emanata nel 1891, più di un secolo fa. E’ un po’ come nella questione della domenica derubricata a giorno lavorativo. In politica ormai l’aspetto tecnico sta diventando prevalente sull’aspetto etico”.

Del resto questo è un governo espressamente di tecnici…
“Se con Berlusconi la questione centrale era legata al profitto, oggi c’è l’aspetto tecnico che domina ogni questione politica. Ma alla fine tra profitto e aspetto tecnico si crea una sintonia eccessiva. L’aspetto etico nella politica è necessario. E invece non è più tenuto in considerazione”.

Il Capo dello Stato ha invitato il Paese a riflettere sul fatto che non abbiamo più risorse e che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è solo un aspetto della riforma.
“La tematica di fondo dell’articolo 18 dovrebbe coprire tutti i lavoratori, non solo quelli con più di 15 dipendenti, già garantiti. Va estesa come valori di dignità e difesa come normativa. Ma più in generale, come sollecita il Capo dello Stato, riflettendo sulla riforma decisa dal governo nel suo complesso mi chiedo: diminuirà o aumenterà il precariato dei nostri ragazzi? Riusciremo ad attrarre capitali ed investimenti dall’estero solo perché è più facile licenziare? Sarà snellita la burocrazia? Daremo con questa riforma più vigore all’esperienza imprenditoriale? Ma non vorremmo nemmeno che la cosa fosse schiacciata su questi temi, perché ripeto, al centro di tutto ci deve essere la dignità dell’uomo e della famiglia”.

Ci sono aspetti che ritiene positivi in questa riforma?
“Siamo contenti che i licenziamenti discriminatori vengano contemplati per tutti, anche nelle aziende con meno di 15 dipendenti. Questo è un discorso molto positivo. Anche la triplicedistinzione dei licenziamenti in discriminatori, economici e disciplinari è molto saggia”.

Che ne pensa dei licenziamenti economici? Se passa la riforma del governo qualunque lavoratore del privato potrà essere licenziato per la sola motivazione che l’azienda è in crisi o che non serve più la mansione cui era addetto…
“E’ preziosa la distinzione, ho detto. Ma la modalità con cui è ipotizzato il licenziamento economico potrebbe rivelarsi infausta. Ho letto che nemmeno il giudice può intervenire. Siccome siamo in una fase di paura generalizzata è facilissimo che si arrivi a questo in tutto il Paese”.

Teme che nelle aziende e nelle famiglie ci sia un’ondata di terrore per paura di vedersi lasciati in una strada per motivazioni economiche o organizzative dai datori di lavoro?
“Temo questo. Una siepe protettiva sui licenziamenti economici bisognava metterla. Rivolgo un appello a livello parlamentare e a livello di riflessione culturale perché si possa creare una rete di diritti e di protezioni più solida. Del resto, di fondo, come ho scritto nella mia diocesi in occasione di San Giuseppe, siamo molto riconoscenti al ministro Fornero e al premier Monti e ai sindacati per questo dibattito che ha riportato al centro il lavoro. Ci hanno ridato la consapevolezza che il lavoro è un dono. Ma c’è una parola chiave che deve rientrare: dignità. Per i nostri giovani e per i loro padri che temono di essere licenziati per motivi economici. Dobbiamo puntare su questo più che sulle paure. Capisco che la declinazione di questi temi in una norma non è facile. Ma è la dignità che attrae gli investimenti”.