Monti, Marchionne e l’estremismo liberista

Lelio Demichelis
www.paneacqua.eu

Con il mercato, contro i lavoratori. Mentre il governo si appresta a riformare l’articolo 18, Mario Monti sposa il Marchionne pensiero: “Chi gestisce la Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti e per le sue localizzazioni le soluzioni più convenienti”. Parole che svelano l’illusione del governo “tecnico”. Ricordandoci la grande differenza che c’è tra politiche liberiste e liberali.

A proposito della trattativa sull’articolo 18 (davvero un momento sempre più epocale per la storia dell’Italia e nei prossimi secoli si distinguerà ancora tra un prima e un dopo riforma dell’articolo 18!) Mario Monti ha detto alle parti sociali che tutti dovrebbero rinunciare a qualcosa. Teoricamente una richiesta di grande buon senso, di solito in una trattativa ci si comporta così; ma questo accade davvero solo se le parti del contratto/accordo sono in posizione paritaria, con uguali diritti e uguali doveri e se cedono cose comparabili.

Nel caso dell’articolo 18 questo però non accade, perché gli industriali sono oggettivamente più forti (avendo Monti di fatto e comunque dalla loro parte, tanto da tributargli, a Milano, il 17 marzo, un’ovazione) e i sindacati sono più deboli; ma soprattutto perché da una parte (i sindacati, ma soprattutto la Cgil, perché Cisl e Uil hanno rinunciato da tempo a difendere davvero i diritti, vedi Fiat) si difendono appunto i diritti (ma i diritti, o sono diritti uguali e universali, oppure non sono diritti), dall’altra, Monti e Confindustria difendono invece le ragioni (presunte o meglio supposte razionali) dell’economia e della globalizzazione.

Parlando di Marchionne, Monti ha infatti detto: “chi gestisce la Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti e per le sue localizzazioni le soluzioni più convenienti”. Comportandosi cioè, Mario Monti, in modo opposto ad Obama, che invece ha fatto di tutto per salvare l’industria automobilistica americana. Dimenticando – sempre Mario Monti (cosa grave, essendo oggi a capo del governo) – che la Costituzione italiana dice e prescrive: all’articolo 2, l’adempimento degli “inderogabili doveri di solidarietà anche economica e sociale”; all’articolo 4 e all’articolo 35, il “diritto al lavoro”; all’articolo 41, che l’iniziativa economica privata è sì libera, ma che non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla libertà e alla dignità umana” e che la legge deve determinare “i programmi e i controlli perché l’attività economica possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Dimenticando anche, sempre Mario Monti, che la Dichiarazione di Filadelfia (1944) dell’Organizzazione internazionale del lavoro impone di non considerare mai il lavoro come una merce. Dimenticando ancora, sempre Monti, che un vero liberale come William Beveridge scriveva, nel 1942, che “il mercato del lavoro dovrebbe essere sempre un mercato favorevole al venditore (al lavoratore) anziché al compratore (all’impresa/imprenditore)” e questo perché il lavoratore è sempre e comunque (solo i liberisti pensano il contrario) la parte debole del rapporto di lavoro e del mercato del lavoro. E questo, Beveridge lo scriveva appunto nel 1942, quando la crisi era drammaticamente più pesante di quella di oggi.

Dunque, il governo Monti non è governo tecnico. Dirlo/crederlo è solo una finzione/illusione. Il suo è un governo squisitamente politico e politico nel senso della piena continuità con le politiche neoliberiste che hanno prodotto questa crisi. Politico nel senso che persegue e prosegue, in nome del mercato e delle sue leggi, una biopolitica neoliberista di riduzione dei diritti sociali del lavoro e dei lavoratori (diritti sociali che soli, possono garantire una cittadinanza de facto), affinché si indeboliscano anche quelli politici e civili (ovvero di cittadinanza de jure) e si produca un’azione disciplinare nel lavoro e nella vita delle persone. Mentre nulla si fa, in Italia e in Europa, contro i mercati e la finanza responsabili della crisi; anzi l’Italia ha riammesso le vendite allo scoperto in borsa.

I diritti sono riconosciuti da Monti a Marchionne (diritti assoluti, di fare e disfare a piacimento), ma sono negati ai lavoratori (articolo 18, ma anche ai lavoratori della Fiat, cui viene negato il diritto di scegliere il sindacato che vogliono – ma su questo Monti appunto tace: evidentemente il diritto sociale e politico alla libertà sindacale deve passare in secondo piano rispetto alla libertà assoluta del mercato). E quindi, appunto, Mario Monti non è un liberale e non è un tecnico. E dunque – è utile ricordarlo – tra liberali e liberisti c’è una grande differenza (e appunto, Beveridge era un liberale, non un liberista).

La controversia aveva coinvolto già Luigi Einaudi e Benedetto Croce, molto tempo fa. Croce sosteneva che il liberalismo appartenesse alla sfera morale e rappresentasse il luogo della libertà, mentre il liberismo apparteneva alla sfera economica ed era qualcosa di assai simile a un’ideologia. Einaudi sosteneva invece che la libertà economica fosse la condizione necessaria della libertà politica (sbagliando: la storia lo ha smentito più volte). Liberalismo dovrebbe significare la rivendicazione della libertà e soprattutto dell’autonomia dell’individuo. E’ un atteggiamento morale e intellettuale che richiede una libertà intesa come capacità di obbedire a norme razionali che nascono dall’uomo stesso (auto-nomia). Liberismo significa invece credere che la libertà dell’uomo sia solo o soprattutto quella economica, legata al profitto, cui l’uomo deve subordinarsi (etero-nomia).

Aggiornando la questione all’oggi, liberale dovrebbe essere chi si oppone a qualsiasi potere (compreso il mercato) che voglia comprimere la libertà dell’individuo, che voglia minarne l’autonomia assoggettandolo a leggi o a logiche ferree e quindi immodificabili (come le leggi, supposte appunto naturali e quindi immodificabili, del mercato); liberista è chi invece ritiene che l’individuo sia un pezzo di un ingranaggio/meccanismo più grande di lui, appunto il mercato, regolato da leggi fatte credere come naturali e da assecondare nel loro naturale svolgersi, regolando naturalmente le azioni e i comportamenti degli uomini.

Liberale dovrebbe essere chi non transige sulla difesa dei diritti (politici, civili e anche sociali, premessa, questi ultimi perché possano esistere davvero e de facto quelli civili e politici) dell’uomo (e anzi, in quanto davvero liberale, li vorrebbe continuamente ampliare); diritti che considera inalienabili e indisponibili (se non lo fossero, verrebbero meno la libertà e l’autonomia dell’individuo), non cedibili e non barattabili nemmeno in cambio di un lavoro; liberista è invece chi ritiene che anche i diritti possano/debbano diventare merce e che quindi si possa essere ingiustamente licenziati purché si abbia un sufficiente indennizzo, è chi crede che facilitando i licenziamenti si crei più occupazione, chi accusa i sindacati di difendere troppi privilegi ma nulla dice a proposito dello scandalo delle imprese italiane che da anni sfruttano la flessibilità del lavoro per non innovare e per non investire in R&S (anche su questo, Monti tace).

L’Europa vive da troppi anni in una sorta di sconcertante coazione a ripetere neoliberista. Dimenticata la sua economia sociale di mercato e il suo liberalismo radicale e riformista, l’Europa non riesce a capire che il liberismo la sta uccidendo; e dunque propone ancora, ostinatamente: tagli alla spesa pubblica (quando servirebbero investimenti pubblici in infrastrutture e reti), licenziamenti (quando aumenta la disoccupazione), tagli alle pensioni (quando le pensioni già si impoveriscono), obbligo di andare in pensione più tardi (togliendo spazio ai giovani), riduzione delle tutele sociali e diffusione di ulteriore insicurezza (in un corpo sociale già indebolito e insicuro). Politiche insostenibili dal punto di vista sociale. Ma coerenti con l’ideologia neoliberista, antisociale per ideologia.

E’ allora tempo – se proprio non si vuole dare ascolto e ragione alla sinistra radicale e ai no-global o agli Occupy Wall Steet (che hanno ragione su tutta la linea) – che l’Europa torni urgentemente almeno al liberalismo. Per non dover morire neoliberista. Dunque, ancora William Beveridge. Autore del Piano che porta il suo nome, base dei sistemi sociali europei del dopoguerra. Scopo di una politica liberale, per Beveridge era quello di liberare la società dal bisogno. Per questo occorreva ampliare i diritti sociali (il neoliberismo li riduce, complice anche certa parte della sinistra) – diritti sociali maggiori (non minori) soprattutto in tempi di crisi quale premessa per rafforzare le istituzioni democratiche (il neoliberismo invece le indebolisce in nome della supremazia del mercato, indebolendo la democrazia e la libertà e la tanto auspicata coesione sociale).

Le sue proposte liberali si basavano sul perseguimento della piena occupazione (il neoliberismo produce invece disoccupazione); su sistemi previdenziali e assicurativi pubblici (il neoliberismo li privatizza e li rende sempre meno universalistici); sulla re-distribuzione dei redditi (il neoliberismo ha prodotto il contrario, aumentando le disuguaglianze sociali ed economiche); su un accrescimento (e non sulla diminuzione) del ruolo dello Stato in economia; su una stabilizzazione dell’occupazione (il neoliberismo la precarizza e la destabilizza in nome della mobilità, della flessibilità e dando l’illusione di poter essere tutti creativi, mobili, imprenditori di se stessi).

Possibile e sperabile uscire dal liberismo e tornare almeno al vecchio e saggio liberalismo alla Beveridge? Non ci basterà (non dovrà bastarci); e non basterà per uscire dalla crisi; ma sarebbe almeno un primo passo avanti.

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Governo, decretìno per le banche

Carlo Musilli
www.altrenotizie.org

In sordina, alla chetichella, ma alla fine il mini-decreto salva-banche è arrivato. Il governo lo ha varato con disinvoltura venerdì scorso, infilandolo fra due provvedimenti che giustamente hanno catalizzato un’attenzione molto maggiore da parte dei media e dell’opinione pubblica: la riforma del lavoro e la delega fiscale. Fatto sta che, dei tre testi su cui si è discusso nell’ultima infinita riunione del Consiglio dei ministri, quello in favore degli istituti di credito è l’unico ad entrare immediatamente in vigore. Morale della favola: nessuno tocchi le commissioni bancarie.

In sostanza, l’ennesimo decreto approvato dalla squadra Monti ha come unico scopo quello di annullare una norma inserita nel pacchetto sulle liberalizzazioni, il cosiddetto “cresci-Italia”, che è diventato legge appena giovedì scorso con l’approvazione definitiva della Camera. La misura -introdotta al Senato con un emendamento del Pd, cui il governo aveva dato parere contrario – prevedeva il taglio delle commissioni bancarie su crediti, fidi (l’impegno a mettere una somma a disposizione del cliente) e sconfinamenti (l’utilizzo di fondi oltre il limite accordato dalla banca tramite il fido).

Niente da fare, abbiamo scherzato: con l’ultimo decreto il governo limita la nullità delle commissioni a quelle banche che non si adegueranno alle future disposizioni sulla trasparenza dettate dal Cicr (il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio). Un modo politicamente corretto per dire “nessuna banca”.

Il dato più interessante è che questa correzione in extremis ha incontrato una larghissima approvazione in Parlamento. Anzi, il decreto ricalca praticamente alla lettera un ordine del giorno presentato dalla maggioranza, con in calce le firme di esponenti Pd, Pdl e terzo polo. Un elemento in più – se mai ce ne fosse bisogno – per valutare la labirintite che affligge gli uomini del Partito democratico, ridottisi a chiedere di cancellare un emendamento che loro stessi avevano presentato.

Ma per quale ragione la correzione non è stata inserita all’interno dello stesso provvedimento sulle liberalizzazioni? E in ogni caso, con la bulimia legislatrice di questi tempi tecnici, non si poteva infilare in uno qualsiasi dei testi che attualmente viaggiano in Parlamento? No. E la ragione ha del fantozziano.

Il governo ha scelto di non modificare l’emendamento durante la discussione alla Camera perché questo avrebbe reso necessaria una terza lettura al Senato, mettendo l’intero decreto “cresci-Italia” a rischio scadenza (fissata per il 24 marzo). All’inizio si era pensato di procedere con un nuovo emendamento, stavolta al decreto semplificazioni, ma anche in questo caso l’aggiunta avrebbe imposto una terza lettura a Palazzo Madama. Tutte lungaggini di Palazzo che le banche non potevano permettersi.

La norma che avrebbe dovuto annullare le commissioni è entrata ufficialmente in vigore domenica, con la pubblicazione del decreto liberalizzazioni in Gazzetta Ufficiale. Se l’annullamento della misura fosse arrivato anche solo con qualche ora di ritardo, per gli istituti di credito sarebbero stati dolori. Non solo per i minori introiti e per i fastidi legati all’obbligo di modifica delle procedure interne, ma anche perché poi avrebbero rischiato una serie di contenziosi legali, soprattutto con le agguerritissime associazioni dei consumatori. Era quindi vitale che il virus anti-banche e l’antidoto salva-banche arrivassero esattamente allo stesso rintocco d’orologio.

Così è stato, e ora l’Abi può esultare. A inizio mese i vertici dell’Associazione bancaria italiana si erano dimessi proprio per ottenere questo risultato. Dopo qualche settimana, quando ormai si era capito che il pressing sull’Esecutivo aveva dato i suoi frutti, le dimissioni erano state “congelate”. C’è da scommettere che non ne sentiremo più parlare.

L’Abi ha espresso “soddisfazione e apprezzamento” per la “sensibilità” dimostrata dalla politica italiana. Secondo l’Associazione, l’eventuale annullamento delle commissioni sulle linee di credito avrebbe causato agli istituti una perdita da 10 miliardi di euro, mettendo a rischio addirittura 80 mila posto di lavoro.

Ricordiamo che a dicembre il sistema bancario italiano ha incassato 116 miliardi di euro dei 489 messi a disposizione dalla Bce nell’ambito dell’operazione Ltro, che garantisce prestiti triennali al tasso ridicolo dell’1%. A febbraio la seconda puntata (Ltro2) ha portato nel nostro Paese altri 139 miliardi, su 529 complessivi. Il tutto con la possibilità per gli istituti di acquistare con quei soldi titoli di Stato e speculare sulla differenza dei rendimenti (oggi il tasso d’interesse sui Btp decennali è superiore al 5%). Ma di questo ovviamente ci siamo già dimenticati.