La democrazia e il disprezzo dei partiti

Paolo Bonetti
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Non è solo Monti a dire che i partiti politici italiani non hanno più il consenso della stragrande maggioranza dei cittadini, ma è l’esperienza quotidiana di ciascuno di noi che ci testimonia la sfiducia, l’insofferenza e persino il disgusto di gran parte dell’opinione pubblica verso un sistema politico e i suoi protagonisti accusati di corruzione, clientelismo sfacciato e divoratore delle pubbliche risorse, spartizione del potere a profitto di gruppi ristretti di parenti, amici e sodali vari. Ormai non si fanno più distinzioni fra nord e sud, centro e periferia, destra e sinistra: tutti (basta leggere le notizie di ruberie varie che compaiono incessantemente sui giornali) sembrano coinvolti in un degrado civile e morale che appare ancora più radicale ed esteso di quello che emerse negli anni di tangentopoli. Per di più, alla corruzione si accompagnano l’inefficienza, l’incapacità di scegliere e decidere, le faide interne agli stessi partiti, la mancanza impressionante di quello che un tempo si chiamava senso dello Stato, vale a dire cura dei pubblici interessi al di là di quelli personali e di casta. Tutte queste accuse saranno anche esagerate, magari frutto in certi casi di quel radicato qualunquismo che da sempre affiora nel costume italiano, ma, fatta la tara delle facili e indiscriminate semplificazioni, resta il fatto che il sistema dei partiti è oggi in una situazione di pieno collasso e preoccupante delegittimazione. Una democrazia non può vivere senza partiti che offrano ai cittadini opzioni politiche alternative, ma quello che ci viene offerto dai partiti italiani è uno spettacolo di desolazione e impotenza. È del tutto inutile, oltre che ingiusto, accusare il presidente Napolitano di aver voluto forzare i limiti che la costituzione gli impone: egli è intervenuto – e non poteva fare diversamente – per mettere fine a un caos politico che stava compromettendo le sorti del paese.

Detto questo, la preoccupazione resta, perché il conflitto politico, se ben regolato e incarnato da partiti responsabili, rimane il sale indispensabile di una democrazia liberale. Anche i nostri diritti di cittadini sono in pericolo, se mancano quegli organismi che ci permettono di uscire dall’isolamento per poter far valere presso le istituzioni, in modo coerente ed efficace, i nostri bisogni e le nostre richieste. Senza partiti non ci può essere vera partecipazione ai processi decisionali e ciascuno di noi si trova confinato nella sua impotenza di cittadino ridotto alla semplice sfera del privato. Ma quali partiti occorrono per rifondare la nostra democrazia? Con quali regole e con quali classi dirigenti? E possiamo davvero credere che gli attuali partiti, dopo le miserevoli prove date negli ultimi anni, saranno davvero capaci di rinnovarsi, di elaborare linee politiche plausibili e alternative, di affidare le proprie sorti a persone che non siano dei semplici mestieranti della politica, intenti solo a spartirsi posti di potere e relative prebende economiche? Quello che vediamo attorno a noi non lascia sperare granché e l’autoriforma dei partiti appare per quello che è: una promessa spesso ripetuta e mai mantenuta. Ma poiché disperarsi e abbandonarsi all’inerzia serve soltanto a peggiorare la situazione, sarebbe opportuno che il governo Monti si facesse promotore di uno statuto dei partiti che non solo regoli in modo non equivoco, al contrario di quel che avviene oggi, la delicata questione del loro finanziamento, ma imponga per legge precisi criteri di democrazia interna e disponga pene severe per coloro che li violano. Nessuna pretesa di controllo governativo sulla vita dei partiti, ma regole trasparenti sul loro funzionamento, in modo che il cittadino/elettore possa giudicare e scegliere non solo sulla base di programmi spesso fumosi e velleitari e facilmente dimenticati, ma sul comportamento reale dei partiti in casa loro.

Dobbiamo insomma cercare di risolvere i problemi di una democrazia mal funzionante, non con il ricorso a facili utopie, ma con l’individuazione spietata dei mali da combattere e con la ricerca realistica delle medicine più adatte, anche se non sempre gradevoli, per la loro guarigione. Ci sono indubbiamente, nella seconda parte della nostra carta costituzionale, norme da correggere e vuoti da colmare, senza per questo doverla stravolgere. Ma bisogna essere consapevoli che, se non si costringeranno i partiti a riformarsi, il loro inevitabile decadimento e la loro crescente dannosità sociale metteranno in pericolo quel sistema delle libertà e delle garanzie su cui si regge la democrazia repubblicana. Essi da pilastri di questa democrazia si sono progressivamente trasformati in una rete di ragno che l’avvolge e minaccia di soffocarla. Limitare per legge l’arbitrio del loro potere non significa annullarli nel loro ruolo indispensabile e positivo, ma liberali dalla zavorra dei privilegi che hanno accumulato e che li ha resi sclerotici e incapaci di comprendere i mutamenti sociali e culturali che si sono verificati negli ultimi decenni. Questi mutamenti avvengono in modo sempre più accelerato e, con essi, è necessario che cambino anche le istituzioni politiche che sono chiamate a governarli. Fra queste, in una posizione particolare che sta a metà strada fra società civile e istituzioni, ci sono i partiti politici, cinghia di trasmissione della volontà popolare. Ma questa cinghia è oggi troppo usurata per poter restare quella che è senza rovinosi cedimenti.